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Documento digitalizzato dallo Staff di UnissResearch Cicu, Luciano (1978) L'Originalità del teatro di Terenzio alla luce della nuova estetica e della politica del circolo scipionico. Sandalion, Vol. 1 (1978), p. 73-121. http://eprints.uniss.it/5525/ ~A ~lDAlllll_M QUADERNI DI CULTURA CLASSICA, CRISTIANA E MEDIEVALE ~ f' ": n ~ UNIVERSIT A' DEGLI STUDI DI SASSARI QUADERNI DI CULTURA CLASSICA, CRISTIANA E MEDIEVALE a cura di Antonio M. Battegazzore, Ferruccio Bertini e Pietro Meloni ANTONIO M. BATTEGAZZORE, La funzione del « gesto» e la concordia civica. Una nuova interpretazione del fr. 1 di Eraclito alla luce di un passo plutarcheo D ENZO CADONI, Il « Laocoonte » di Sofocle D BENEDINO GEMELLI, L'ami- cizia in Epicuro D LUCIANO CICU, L'originalità del teatro di Terenzio alla luce della nuova estetica e della politica del circolo scipionico D PAOJ..A CUBEDDU, Natura e morale in Seneca. Il dibattito sulle « Naturales quaestiones » negli anni 1900-1970 D PIETRO MELONI, Il rapporto fra impe- gno politico e fede religiosa in Simmaco e Ambrogio D PAOLO GATTI, I manoscritti dell'elegia pseudo-ovidiana « De Lombardo et lumaca» D STEFANO PITTALUGA, L'epistola di Francesco a Brigida, ovvero «Epistola perornata cuius- dam amantis ad quandam puellam» D FERRUCCIO BERTINI, Riflessi di polemiche fra letterati nel prologo della « Lidia » di Arnolfo di Or1éans. Sassari 1978 LUCIANO CICU L'ORIGINALITÀ DEL TEATRO DI TERENZIO ALLA LUCE DELLA NUOVA ESTETICA E DELLA POLITICA DEL CIRCOLO SCIPIONICO I Favete, adeste aequo animo et rem cognoscite, ut perrzoscatis ecquid spei sit relicuom, posthae quas faciet de integro eomoedias, speetandae arz exigendae sint vobis prius ('). Con queste parole Terenzio si rivolge all'instabile pubblico ro- mano nel concludere il polemico prologo dell'Andria C). Mentre invita gli spettatori ad un giudizio spassionato sulla sua opera, coglie l'occasione per lanciare l'ultimo strale. Infatti nel momento in cui preannuncia che comporrà commedie de integro, lascia intendere che i suoi detrattori non sono capaci di fare altrettanto. La conclu- sione della polemica afferma contemporane~mente l'inconsistenza artistica dello seribere dei suoi avversari e la novità del suo teatro, nella piena coscienza della propria originalità C). (I) Tm. andr. 24-27. (2) Su l'argomento si sofferrna O. BIANCO, Terenzio, Roma 1962, pp. 31-42. A. RAMBELLI, Studi plautini: L'Ampllitruo, « Rend. 1st. Lomb.» 100 (1966), p. 134 esprime l'opinione che Terenzio fosse un « prosecutore» piuttosto che un «in- ventore» del prologo polemico; di parere contrario A. RONCONI, Interpretazioni letterarie nei classici, Firenze 1972, p. 17, che sottolinea come « con Terenzio noi abbiamo per la prima volta un prologo polemico ». (3) Sul problema dell'originalità in Terenzio cfr. H. HAFFTER, Terellz und seine ki1nstlerische Eigenart. « Museum Helveticum» lO (1953), pp. 1-20; 73-102 (trad. it. di D. NAROO: Terendo e la sua personalità artistica, Roma 1969), in particolare pp. 41-104 dell'edizione italiana; E. PARATORE, Storia del teatro latino, Milano 1957, pp. 168-173. Per il concetto di originalità presso gli scrittori arcaici e il loro pubblico si veda il saggio di S. MARIOTTI, Livio Andronico e la traduzione artistica, Urbino 1952, pp. 15-20, che mostra come l'Odissea fosse considerata opera di Andronico, non di Omero. Su la differenza tra « originalità» e « origi- narietà» infine è utile leggere le osservazioni di V. USSANI, Scritti di filologia e umanità, Napoli 1942, pp. 53-54. 74 Luciano Cicu Ma che cosa si nasconde dietro queste affermazioni? Quale poetica, quali ricerche tecniche, quali battaglie culturali? A noi re- sta solo il traguardo di una strada che Terenzio dovette percorrere, come egli stesso ci lascia intravvedere dietro il conciso enunciato. Ripercorrere quella strada è appunto l'oggetto della presente ricerca C). Sebbene il tema non sia nuovo per la critica filologica, appare comunque meritevole di ulteriore approfondimento per le problematiche che contiene e i suggestivi spiragli che apre sull'epoca degli Scipioni. Non si tratta tanto di scoprire in quale misura Te- renzio sia stato autonomo nei confronti degli esemplari greci (5), quanto di capire per quale motivo egli ritenesse di aver raggiunto una propria originalità. Certo è per noi sorprendente leggere nei prologhi, accanto al- l'indicazione della fonte greca, l'affermazione della novità della commedia che si andava a rappresentare. Spesso egli infatti presenta la fabula come nova o integra e); ma nova e integra rispetto a chi? Al pubblico romano, agli autori greci, a quelli latini, in assoluto? Donde gli derivava tale sicurezza? Da una salda convinzione este- tica o solamente dall'ossequio ad una tradizione acriticamente ere- ditata e accolta? E infine questa maniera di fare teatro era frutto di una meditazione solitaria oppure di una condizionante atmosfera culturale e in qualche maniera politica? Si tratta di problematiche che investono non solo le vicende culturali e umane di Terenzio, ma che affondano le radici anche nel complesso humus della sua (4) Questo orientamento è suggerito tra l'altro da A. RONCONI, Terenzio, Le commedie, Introduzione, Firenze 1960, p. XVIII: «Bisogna ricostruire obbietti- vamente gli intenti artistici di Terenzio sullo sfondo di quelle polemiche echeg- gianti nei prologhi, le quali presuppongono, sul piano storico, precisi e program- matici atteggiamenti ». (5) Una sintesi degli orientamenti della critica sul problema si può leggere in O. BIANCO, Terenzio, cit., pp. 1-14 e più in breve nell'Introduzione (pp. 7-13) di D. Nardo al citato saggio di H. Haffter. Su l'autonomia di Terenzio insistono tra gli altri G. F. DUCKWORT, The nature 01 Roman comedy, Princeton 1952, specialmente alle pp. ·384 ss., e più di recente gli articoli di A. RONCONI, Sulla critica terenziana, « Cultura e Scuola» l (1961), pp. 35-40, e di MARIA ROSA POSANI, Orientamenti della moderna critica terenziana, «Atene e Roma» 7 (1962), pp. 129-143. (6) I due aggettivi compaiono spesso nei prologhi: cfr. (oltre al citato andr. 26) hec. 14; 37; heaut. 4; 6; 28-29; 33; 43; Phorm. 9; 24; adelph. 12. Per il signifi- cato di integer cfr. A. RONCONI, Interpretazioni, cit., p. 22 s., n. 1. L'originalità del teatro di Terenzio 75 età in crisi. Di qui la necessità di condurre l'indagine sia su un piano filologico, per un attento riesame delle testimonianze dirette e in- dirette, sia su un piano più largamente storico, per chiarire le ra- gioni di certe posizioni e direttrici. Rapporto con il mondo greco. In primo luogo bisogna chiarire qual era l'atteggiamento di Terenzio verso i commediografi greci. Dai prologhi balza viva l'im- magine di uno scrittore assai geloso della propria autonomia crea- tiva. Questo non gli impediva ovviamente di nutrire nei riguardi della letteratura greca la somma ammirazione di ogni romano colto della sua età né di riconoscerne l'indiscussa superiorità sulla lette- ratura latina: si ribellava però all'idea che i livelli di qualità arti- stica raggiunti dai Greci fossero inattingibili dagli scrittori latini; riteneva anzi che si dovesse fare ogni sforzo per accostarsi a quegli ideali e, se possibile, superarli. Non si spiegherebbe altrimenti per- chè egli rifiutasse il tradizionale l'apporto di sudditanza nei con- fronti degli originali, tipico di tutti gli autori latini di palliata, ras- segnati al ruolo di traduttori. Terenzio non ha mai definito il suo lavoro un vorlere, per quanto si voglia letterario C), ma lo ha sem- pre indicato coi termini scribere e facere, che nelle rispettive aree semantiche contengono il senso di « comporre originale », non quel- lo di «tradurre». Eppure lo stesso Plauto, per tacere degli altri, attribuiva a sè il vortere e all'autore greco lo scribere; che poi risul- tasse poco coerente con la propria affermazione programmatica, non ha qui rilevanza: importa la mentalità. Terenzio invece, contro tut- ta la tradizione, si pone sullo stesso piano dello scrittore greco. Resta da chiarire il perchè di un atteggiamento così anticon- formista. Per tralasciare i motivi ambientali, non certo trascurabili, di cui si argomenterà più avanti, la spiegazione si può individuare concisamente nella seguente ipotesi. Terehzio dovette partire dalla constatazione che la tradizione (1) Per il concetto di traduzione artistica cfr. s. MARIOITI, Letteratura arcaica e alessandrinismo, « Belfagor» 20 (1965), p. 37. 76 Luciano Cicu della palliata a Roma registrava fino ai suoi tempi due maniere di porsi di fronte alla commedia greca: il primo consisteva nel vortere diligentia, il secondo nel vortere neclegentia (8). In quest'ultimo fi- lone egli ritrovava Nevio, Plauto ed Ennio, dei quali si proclamava alunno e seguace. Il vortere diligentia era proprio di un Luscio La- nuvino, suo avversario e mediocre poeta e, prima di lui, di Ce- cilio C). Terenzio aveva capito, anche sul piano teorico, che, men- tre la diligentia conduceva a stucchevoli riproduzioni, la neclegentia di quei grandi maestri permetteva un'autonomia di composizione tale da poter configurare come nuova e originale la loro opera. Egli ha razionalizzato e chiarito a se stesso le ragioni della loro « novità» e ne ha fatto una sua consapevole poetica CO). In questa luce a buon diritto egli può ironizzare nei riguardi di quei comici latini, che si erano lasciati imprigionare dalla sa- cralità del testo greco ed erano incapaci perctò di rinnovare la materia con apporti personali. Per loro la contaminatio era un pro- cedimento che «sconciava» le commedie e cancellava lo spirito dell'autore originale: per Terenzio era invece il mezzo atto a favo- rire ed esaltare l'espressione del suo mondo culturale ed umano. E quando nel prologo dell' Andria tratta con disprezzo i suoi av- versari, intenti a disputare sul prepon della contaminatio,e si chie- de ironicamente se per caso faciuntne intellegendo ut nihil intelle- gant, (v. 17) egli rivela il suo segreto e inconfessato pensiero: di fronte ai Greci non bisogna più stare in ginocchio, ma salire alloro (8) Sul significato di diligentia e neclegentia cfr. A. RONCONI, Interpretazioni, cit., p. 35. 55.; M. R. POSANI, Osservazioni su alcuni passi dei prologhi terenziani, « St. itai. filoI. class.» 37 (1965), p. 100 ss. (9) Che Luscio Lanuvino fosse un seguace di Cecilio dubita H. HAFFI'ER, op. cit., p. 27 ss. « L'ipotesi che Luscio potesse essere un ceciliano» appare invece suggestiva a M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 109 e certa a E. PARATORE, Storia del teatro latino, cit., p. 158. Sulla figura del Lanuvino cfr. M. R. POSANI, La figura di Luscio Lanuvino e la sua polemica con Terenzio, « Atti della R. Accad. d'Italia », Memorie della classe di Scienze morali e storiche, Serie VII, vol. IV (1943), pp. 151-162. Una ricostruzione del Thesaurus di Luscio tenta C. GARiON, Thesaurus: A Comedy 01 Luscius Lanuvinus, « Amer. Journ. of Philol.» 92 (1971), pp. 17-37. (lO) Diversa opinione esprime M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 111, la quale afferma che « Terenzio non si pone affatto teoricamente il problema del rap- porto con l'originale considerato per se stesso, come del resto non se lo pose certo Plauto ». L'originalità del teatro di Terenzio 77 stesso livello, gareggiare con loro, usare i loro stessi strumenti per raggiungere la medesima altezza d'arte. La letteratura latina è ormai matura per camminare su sentieri paralleli a quella greca e quindi originali. Ecco cosa non hanno capito i suoi detrattori. Quell'aemu- lari di cindr. 20 rivolto ai comici latini precedenti, ma esteso tacita- mente alla Nea ellenistica, ne è la spia eloquente: la pal/iata deve passare ormai dal vortere all' aemulari. La tecnica compositiva. La riprova si ha nel modo di comporre. Quando stende il pia- no della nuova commedia, Terenzio prende a mode110 un esemplare della Nea, ma non ne resta mai schiavo. L'originale gli serve da canovaccio ed egli lo modifica e lo riempie di scene, personaggi, dia- loghi, secondo che gli dettano la sua fantasia e le finalità etiche e pedagogiche della sua arte ('l). La contaminatio ('2), strumento ere- ditato dalla tradizione, gli torna estremamente utile per gli spunti che molte commedie offrono al1a sua trama e diviene nelle sue mani un mezzo insostituibile di liberazione e di espressione. D'altra parte egli ha piena coscienza del1a monotonia del repertorio della Commedia Nuova, del suo ripetere al1'infinito personaggi, ambienti, situazioni. Il servus currens, le bonae matronae, le meretrices malae, il parasitus edax, il miles gloriosus, l'avarus leno, posti all'interno di rigidi scenari, sono divenuti tipi difficili da animare con un tocco di novità. Proprio per questo motivo essi vanno considerati ele- menti fissi della commedia, struttura comune, e perciò stesso ma- (") F. LEO, Geschichte der romisc1ten Literatur, I, Berlin 1913, p. 245 S5. riconosce che « Terenzio tratta i modelli con libertà non minore di Plauto». Sui procedimenti di Plauto cfr. E. PARATORE, Plauto, Firenze 1961, p. 25. La tecnica dci due poeti per rinnovare le trame doveva essere assai simile. (12) Sul significato e l'uso della contaminatio cfr. la nota bibliografica di D. Nardo in appendice al citato saggio di H. Hafftcr, p. 130; A. RONCONI, Inter- pretazioni, cit., p. 27-28; E. PARATORE, Spicilegio polemico II: Sulla « contamina- tio », « Riv. Culto Class. Med.» 4 (1962), pp. 74-78. Sulla «tensione drammatica provocata dalla contaminatio si veda quanto scrive B. C,\STIGLIONI, Il prologo dell'Heautontimorumenos e la commedia duplex, « Athenaeum» 35 (1957), p. 302. 78 Luciano Cicu teries publica Cl) del genus, da cui ogni autore può attingere senza incorrere nell'accusa di plagio (4). Lo stesso Menandro d'altra parte aveva assegnato un valore cosÌ limitato agli elementi strutturali, da comporre due commedie, Andria e Perinthia, praticamente con la medesima trama, affidando gli elementi diversificanti e la qualità artistica all'oratio e allo stilus, secondo i canoni dell'estetica teofrastea. Non c'è dubbio che Teren- zio abbia assimilato le posizioni di Menandro, come attestano sin- tomatiche coincidenze concettuali e pratiche, sulla cui base egli può giustificare la sua propensione per la stataria, genere di commedia imperniato appunto sulla pura oratio (heaut. 45). Scrivere trame originali è ormai impossibile dato che nullum est iam dictum quod non sit dictum prius (eun. 41) eS). L'adesione diviene più esplicita in andr. 10-14, quando Terenzio prima descrive il modo di proce- dere del modello e dichiara poi di seguirlo e ricalcarlo. Questa osservazione sulla tecnica compositiva di Menandro indica la genesi della sua coscienza di essere scrittore originale al pari dei comici ellenistici. Realizzando un'operazione speculare a quella di Menandro egli ritiene legittimo usare « come cosa sua» le trame delle comlnedie ellenistiche a guisa di canovacci per opere nuove. Tutta la Nea è dunque per lui un grande magazzino di ele- menti scenici a disposizione di chiunque intenda servirsene. La con- dizione per potersene impadronire è per Terenzio la stessa che sarà per Orazio (Ars 131ss.): publica materies privati iuris eri t si / non circa vilem patulumque moraberis orbem / nec verbum verbo curabis reddere fidus / interpres. Naturalmente egli non attinge ai modelli in maniera indiscriminata e meccanica o raccogliendo e affastellando solo elementi atti a suscitare il riso, ma attua una scel- (13) Ciò non vale solo per la commedia,come sottolinea S. MARIOITI, Lettera- tura arcaica e alessandrinismo, cit., p. 45, poichè «il materiale dei modelli era sentito da chi volesse riprodurlo in latino, come res nullius, a cui si poteva impri- mere il sigillo di nuove personalità letterarie ». (14) Sul problema del furtum cfr. M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 91 ss.; A. RONCONI, Introduzione alla letteratura pseudoepigrafica, in Filologia e Lingui- stica, Roma 1968, p. 233 S5. (15) Sull'argomento vedi G. CoPPOLA, Teatro di Terenzio, Bologna 1942. p. 133. Sul valore della forma nella coscienza letteraria romana e terenziana cfr. E. PARATORE, Poetiche e correnti letterarie nell'antica Roma, Roma 1970, pp. 35-40. L'originalità del teatro di Terenzio 79 ta intelligente e funzionale al piano dell'opera. Così, ora « conta- mina» molte commedie per farne poche, come denuncia l'accusa degli avversari in heaut. 16; ora si limita ad estrapolare due soli personaggi, come il parasitus colax e il miles gloriosus dal Colax di Menandro (eun. 30); ora, sotto l'incalzare dell'accusa di furtum (adelph. 10), confessa di essersi comportato come un fidus interpres e di aver trasportato di peso nei suoi Adelphoe una scena dei C0111- morientes di Difilo, dopo averla tradotta verbum de verbo. Questi comportamenti diversi sono dettati da una esigenza co- mune: ogni apporto .esterno, piccolo o ampio, deve inserirsi nel piano dell'opera nel rispetto delle leggi del prepon, sì da fondersi in un tutto armonico e nuovo ( 6 ). ~ quanto esplicitamente Terenzio lascia intendere già dalla sua prima commedia, quando dichiara di aver trasportato nell'Andria dalla Perinthia solo le parti che vi si adattavano (quae convenere) , tralasciando evidentemente le a1tre che non rispondevano a questo criterio. In conclusione: Terenzio non ha solo, come i letterati con- temporanei, il senso del prepon~ ma ha fatto suo anche il concetto peripatetico, e di gran parte dell'estetica antica, secondo il quale « non è l'inventio della trama a costituire il pregio di un'opera, quanto il modo con cui essa è condotta » C7), per cui « alla forma va attribuita importanza piuttosto maggiore che al contenuto» C'). Sono questi i supporti teorici sui quali Terenzio ha basato la co- scienza della sua originalità, alla cui luce ha creato opere che portano l'inconfondibile sigillo della sua personalità artistica, della sua sensibilità, del suo gusto e delle sue problematiche. (16) Sul decorum in Terenzio cfr. A. RONCONI, La letteratura romana, Firenze 1968, pp. 29-30; M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 87. Della evoluzione del concetto di prepon nell'antichità tratta diffusamente M. POIlLENZ, L'ideale di vita attiva secondo Panezio nel de o/ficUs di Cicerone, trad. it. di M. Bcllincioni, Brescia 1970, p. 96 55. (17) E. PARATORE, Poetiche e correnti letterarie, cit., p. 40. (18) A. ROSTAGNI, Orazio, Arte poetica, Torino 1969, p. 40. Sull'argomento cfr. anche A. PLEBE, Origini e problemi dell'estetica antica, in Momenti e problemi dell'estetica, Milano 1968, p. 56. 80 Luciano Cicu Il proemio del I libro del « De finibus » di Cicerone. Fin qui è stato Terenzio stesso a fornire le indicazioni e le soluzioni: ora è tempo di esaminare le testimonianze indirette. Un singolare riscontro delle posizioni terenziane è dato rile- vare in alcuni passi di Cicerone. Nel proemio del primo libro del De finibus l'oggetto. della disputa non sono le fabulae comiche o tragiche o milesie, ma i libri di filosofia e il problema del rapporto modello greco-imitatore o traduttore latino. La situazione presenta sintomatiche analogie con quelle dei prologhi terenziani. Anche Cicerone deve infatti respingere le reprehensiones di taluni critici pedanti, che rifuggono dalla lettura delle opere filosofiche, se scritte in latino. In De fin. I 2 obietta: Quidsi nos non interpr?tum fu n- gimur munere, sed tuemur ea, quae dicta sunt ab iis, quos probamus eisque nostrunz iudicium et nostrum scribendi ordinem adiungimus, quid habent cur Graeca anteponant Us, quae et splendide dicta sint neque sint conversa de Graecis? Più avanti (De fin. I 3) dichiara e ribadisce che non è suo intendimento vertere ut nostri poetae fa- bulas; non esclude comunque che locos quidem quosdam, si vide- bitur, transferam et maxime ab iis, quos nominavi, cum inciderit ut id apte fieri possit, ut ab Homero Ennius, Afranius a Menandro soleto Concludendo poi nel citato De fin. I 2 Cicerone si domanda: Quodsi Graeci leguntur a Graecis isdem de rebus alia ratione com- positis, quid est cur nostri a nostris non legantur? Autori greci di- versi hanno trattato la stessa materia e tutti hanno trovato lettori; chè a nessuno è venuto in mente di giudicare superflue le opere successive a quelle dell'inventor C9). Perchè uno scrittore latino non dovrebbe potersi occupare degli stessi argomenti con successo? Se egli rispetterà alcune regole, il suo libro sarà legittimo e nuovo quanto i suoi modelli greci. Per Cicerone dunque lo stesso rapporto esistente fra le opere greche di uguale argomento sussiste anche tra le opere latine e quelle greche, purchè queste ultime siano alia ratione compositae. L'alia (19) Significative in proposito le osservazioni di A. ROSTAGNI, Orazio, Arte poetica, cit., p. 41. Sul problema teorico del rapporto tradizione-innovazione cfr. L. PAREYSON, Conversazioni di estetica, Milano 1966, pp. 25-37. L'originalità del teatro di Terenzio 81 ratio consiste per Cicerone in quattro punti fondamentali: 1) Non interpretum fungi munere: mai comportarsi cioè come un pedisse- quo traduttore; 2) Tueri quae dicta sunt ab iis quos probamus, ov- vero riprodurre intatto il contenuto del modello prescelto; 3) No- strum iudicium adiungere, che significa lasciarsi lo spazio per in- terpretazioni e riflessioni personali; 4) Nostrum scribendi ordinem adiungere, che è come dire ridare nuova vita all'argomento, rige- nerandolo con il proprio stile. Non può sfuggire la singolare con- cordanza di questo procedimento con quello dichiarato e forse adottato da Terenzio. Comune ad entrambi, così come ad Orazio nel citato passo dell'Ars (v. 131 s.), è il rifiuto dell'interpretis mu- nus, della funzione di mero traduttore. Il precetto, uguale quasi anche nella formulazione, consacrato in un trattato di estetica, ri- vela la sua matrice peripatetica e alessandrina. In coerenza con esso Terenzio respinge ironicamente in eun. 6 il bene vertere di Luscio Lanuvino, dichiara in andr. 20 di rifiutare l'obscura diligentia dei suoi avversari e di preferirle la neclegentia dei padri della palliata latina, proclama in heaut. 19 la sua decisa adesione alla tecnica della contaminatio con tutto ciò che essa comporta. Comune è anche l'atteggiamento nei riguardi del conte- nuto del modello. Tueri dicta non significa convertere, come Cice- rone ribadisce subito dopo, ma piuttosto conservare il contenuto dell'esemplare per restituirgli la vitalità originale nella nuova lingua. Questo significa nel campo filosofico la fedele esposizione del pen- siero dell'autore studiato, per avere una base chiara e onesta di riflessione, in quello teatrale il seguire il filo di una trama nei suoi movimenti principali. Il sintagma poi locos quosdam transferre (il trasportare interi brani nel suo libro e non da un solo modello, ma da molti e diversi autori), non riecheggia forse il multas contaminasse di heaut. 17? Quando Cicerone sottolinea che compirà tale operazione si videbitur, se gli sembrerà cioè opportuno, e quando ribadisce che ricorrerà alla traduzione cum inciderit ut id apte fieri possit, non richiama il terenziano quae convenere di andr. 13, con lo stesso ossequio per l'aptum e il decorum? n assai significativo il fatto che nei due passi messi testè in rapporto sia Terenzio che Cicerone usano il 82 Luciano Cicu verbo transferre,che non è il termine più comune per indicare la traduzione. La simmetria di opinioni permane anche a proposito del no- strum iudicium. Per Cicerone esso rappresenta lo spazio di inter- vento destinato all'espressione delle sue idee, critiche, di adesione ovvero nuove in relazione alla materia filosofica trattata; per Te- renzio rappresenta la possibilità di variare trame, introdurre per- sonaggi, mutarne con tocchi decisivi i caratteri per immetterli nel- l'atmosfera della sua sensibilità. Infine quel sottolineare il valore fondamentale del nostrum scribendi ordinem ai fini della rigenerazione di un contenuto e del- l'affermazione della propria originalità, trova sicuro riscontro nel citato brano di andr. 11 ss. dove l'oratio e lo stilus sono indicati come gli elementi distintivi delle due commedie menandree, e in heaut. 45 dove Terenzio, stanco dei lazzi della motori.a, "affida alla pura oratio (20) il compito di portare al successo la stataria. Sia Terenzio che Cicerone appaiono convinti che attenendosi a tutte queste regole si possa essere nuovi e originali quanto lo sono stati i loro modelli. I passi citati e i relativi riscontri testimoniano senza dubbio stimolanti coincidenze; inoltre una serie di altri rife- rimenti terenziani presenti nei capitoli iniziali del De finibus cor- roborano l'ipotesi di un ricalco voluto e consapevole da parte di Cicerone delle polemiche e delle posizioni terenziane. Concordanze terenziane nel proemio del «De finibus ». Nel suo complesso il proemio ciceroniano è concepito come un prologo terenziano: contiene infatti una serie di risposte alle repre- hensiones dei critici (De fin. I 1), fossero esse reali o probabili. Anche per Cicerone si trattava in fondo di proporre al pubblico una novità, qualcosa di adatto a intellettuali di cultura superiore e per .. dò stesso imbevuti, per educazione e forse per una consistente dose di snobismo, di grecità e di sentimenti filellenici esasperati. Uomini (20) Sul significato di pura oratio cfr. A. RONCONI, Interpretazioni, cit., pp. 43-44. L'originalità del teatro di Terenzio 83 che, in segno di distinzione, conversavano tra loro usando la lingua greca, o intercalavano termini greci nel discorrere familiare e nelle lettere di tono amichevole, vezzo questo non ignoto allo stesso Cicerone. Fare spazio nella tradizione letteraria latina agli argo- menti filosofici, così egregiamente trattati in lingua ellenica, poteva sembrare inutile e presuntuoso. Di qui la necessità di spiegare le ragioni dell'opera e di rintuzzare le obiezioni. Anche Terenzio aveva dovuto presentare le sue novità in un'atmosfera ostile, per motivi sia meramente letterari sia forse politici CI). Comunque aprire una breccia nella tradizione, turbare con innovazioni equilibri consoli- dati sul piano del gusto, suscitò ad entrambi notevoli difficoltà C2). Al di là, comunque, di questa atmosfera, si registra una serie di concordanze contenutistiche e formali fra i prologhi di Terenzio e l'inizio del De finibus. La prima si legge in De fin. I 3: Etenim si delectamur cum scribimus, quis est tam invidus, qui ab eo 110S abducat. Lo stesso motivo si ritrova nei prologhi terenziani, e in hec. 18 addirittura compare lo stesso verbo abducere (ne illum ab studio abducerem). La situazione è analoga. In entrambi i casi c'è un critico che vuole tenere lontano lo scrittore dal comporre il genere di opere a lui più congeniale o preferito e in entrambi c'è il rifiuto di lasciarsi condizionare. La concordanza è avvalorata si- gnificativamente da una citazione diretta da heaut. 69: Nam Te- rentianus Chremes non inhumanus qui novwn vicinum non vult f o d e r e a u t a r a r e a u t a l i q u i d f e r r e d e n i q u e. In De fin. I 4 Cicerone esprime il suo stupore perchè quei « parigini », quasi fossero nemici del nome romano, disprezzano i libri filosofici scritti in latino (Latine scripta) e non li leggono; ep- pure quei medesimi gustano le fabellas Latinas ad verbum e Graecis expressas non inviti. Il tono del passo è fortemente polemico, ali- (21) A. RONCONI, Interpretazioni, cit., p. 146, osserva che le maligne insinua- zioni di Porcio Licino « erano più la voce di un partito avverso ai nobili che quella di una critica biografica o storico-Ietteraria attendibile ». (22) Cfr. E. PARATORE, Il teatro latino nei suoi rapporti con il pubblico antico e i suoi riflessi sulla spiritualità moderna, «Dioniso» 1-4 (1965), pp. 57-8'1, in particolare p. 65. 84 Luciano Cicu mentato com'è dall'acceso nazionalismo di Cicerone. Egli sa bene che palliate e coturnate non sono mai state tradotte alla lettera dal greco; poco più avanti infatti si contraddirà e si correggerà. Al mo- mento. però gli viene utile la citazione di adelph. Il (locum... ver- bum de verbo expressum extulit) e se ne serve. Anche Terenzio era ricorso al sintagma citato per evitare l'accusa di plagio, in una si- tuazione di emergenza. Non gli restava altra soluzione, per giusti- ficare la presenza della scena dei Synapothnescontes di Difilo, com- media facta Latina da Plauto nei Commorientes, se non sottolineare che eum Plautus locum reliquit integrum, perciò egli lo aveva tra- dotto alla lettera e). Accanto alla concordanza formale Cicerone cita ancora una volta il nome di Terenzio insieme a quello di Ce- cilio, portati come esempio di autori di commedie di alto livello tratte da Menandro. Frasi simili dunque in situazioni simili. In De fin. I 8 Cicerone torna al problema e tenta di spiegare, e in qualche modo giustificare, il rifiuto degli uomini colti di leg- gere opere filosofiche scritte in latino; la colpa è di certi libri di filosofia dallo stile rozzo e arruffato, tratti da scadenti opere greche. Egli è disposto a comprendere questi intellettuali che sono incap- pati in inculta quaedam et horrida, de malis Graecis Latine scripta deterius. Quest'ultimo colon richiama, né basta a mimetizzarlo la variatio, il celebre e tormentato passo terenziano di eun. 7-8: qui bene vertendo et easdem scribendo male ex Graecis bonis Latinas fecit non bonas. La vicinanza dei due passi è accentuata dal verbo scribere, usato nel significato più estensivo della sua area semantica, con riferimenti cioè allo stile e alla disposizione della materia. Le concordanze terenziane nel proemio ciceroniano sono dun- que continue ed evidenti. D'altro canto tale era l'ammirazione di Cicerone per Terenzio e per il suo stile, come ha dimostrato la Malcovati e), che tutte le opere ciceroniane sono costellate di rie- cheggiamenti terenziani. Il che autorizza, insieme ai parallelismi constatati, a considerare le conclusioni ciceroniane in ordine ai pro- (23) Vedi in proposito le riflessioni di M. R. POSANI, Osservazioni. cit., p. 96. (24) ENRICA MALCOVATI.· Cicerone e la poesia. Pavia 1943, pp. 178-181. L'originalità del teatro di Terem.io 85 blemi del rapporto modello-imitatore come ispirate da Terenzio ed anche a ritenere le opinioni di Cicerone come esplicitazioni delle concezioni estetiche che Terenzio nei prologhi delle commedie, ave- va sobriamente enunciato. Se ciò è vero, queste testimonianze, men- tre confermano le conclusioni dedotte dai testi terenziani, contri- buiscono a chiarire i motivi per cui Terenzio era portato a consi- derarsi scrittore originale e non solo traduttore. Un'analisi semantica. Un notevole conforto a questa tesi proviene dalla ricerca dei significati di termini-chiave come vertere, scribere, facere, scrip- tura eS). Delimitare le loro aree semantiche e conoscerne con esat- tezza i contenuti aiuta non poco ad intendere gli orientamenti cri- tici ed estetici dello scrittore, in una parola la sua poetica t). L'operazione non è facile. Questi vocaboli infatti nel II secolo a.C. sono stati sottoposti alle influenze del successivo mutare delle ten- denze culturali e·letterarie ed hanno subito il logorio dell'uso fre- quente: per un verso, nel processo di banalizzazione hanno perduto alcuni tratti distintivi originari, per un altro sono stati caricati di connotazioni diverse e piegati ad esprimere i punti di vista di fa- zioni in vicendevole polemica. Non bisogna dimenticare che dentro le loro aree semantiche ha lasciato traccia un secolo di letteratura latina teatrale, e non solo teatrale, con tutto il suo carico di tradi- zione, novità e polemiche. L'analisi diacronica di queste parole, (25) Su vertere e scribere cfr. le relazioni contenute in Atti del I congresso internazionale di studi ciceroniani, Roma 1961, rispettivamente presentate da A. TRAINA, Commento alle traduzioni poetiche di Cicerone, II, pp. 141-159 (= Vor- tit barbare, Roma 1970, pp. 55-89); I. TRENCSÉNYI-WAlDAPFEL, De Cicerone poetarum Graecorum interprete; II, pp. 161-174; P. SERRA-ZANETII, Sul criterio e il valore della traduzione per Cicerone e S. Girolamo, II, pp. 355-405. ~ inoltre utile tener presente A. TRAINA, Terenzio « traduttore ", « Belfagor » 23 (1968), pp. 431-438, (ora in Vortit barbare, cit., pp. 167-179; a p. 168, n. 1 la bibliografia essenziale sul uertere di Terenzio). Per oratio e scriptura cfr. A. RONCONI, Interpretazioni, cit., p. 41-44; E. PARATORE, Studi sulla palliata, I: Ad Ter. Eun. 7-13, « Riv. Culto Class. Med." l (1959), pp. 44-63. (26) Dell'utilità dello «studio della terminologia in uso fra gli autori di palliate» si dichiara convinto E. PARATORE, Studi sulla palliata, cit., p. 63. 86 Luciano Cicu estesa ad epoche successive, sarebbe oltremodo proficua; essa su- pera però gli scopi di questo breve studio. Ci si limiterà pertanto a considerare le loro connotazioni in Terenzio e in scrittori con cui egli ha avuto relazioni o che da lui possono avere attinto. a) Vertere Vertere si legge in due commedie di Plauto; trine 19 Philemo scripsit, Plautus vortit barbare; asino Il Diphilus scripsit, Maccus vortit barbare. Indica l'opera dello scrittore latino in opposizione conscribere, che esprime invece la creazione originale del comme- diografo greco. Plauto appare dunque convinto di essere solo un traduttore e barbare sottolinea questa consapevolezza di trasportare il teatro comico greco in un ambito esterno, « barbaro» appunto in quanto non ellenico. Vertere significa dunque « tradurre ». Ma tradurre come? Con quali tecniche, con quali finalità? Può essere utile, per capirlo, un raffronto con le aree semantiche di exprimere, reddere, interpretari, sinonimi che palesano, nell'ambito dello stesso concetto, maniere diverse di rendere un testo straniero nella propria lingua. Exprimere, in particolare, nel sintagma verbum de verbo expri- mere, divenuto formulare, come attesta Gellio G), indica quel procedimento per cui ad un vocabolo. greco viene fatto corrispon- dere un termine latino. Quando viene usato per significare la tra- duzione di un intero brano, designa quella tecnica di versione che, per la sua aderenza stretta all'enunciato del modello, è comune- mente chiamata letterale. In questa accezione, anche se, come si è· visto, in condizioni particolari, l'adopera Terenzio in adelph. Il. Reddere è sulla stessa linea di exprimere, mentre interpretari da una parte ricalca l'area di exprimere, dall'altra possiede un'acce- zione propria, che gli deriva dall'indicare la traduzione orale. In questo senso rappresenta quella tecnica di versione, cui accenna Girolamo in Epist. ad Pammach. 70, 2, che consiste nel riprodurre l'essenza di un discorso raptim celeriterque, senza porsi problemi di altra natura. (27) Gell. XI 13, 3: quod, ut dicitur, verbwn de verbo expressum est. Cfr. an- che L. GAMBERALE, La traduzione in Gellio, Roma 1969, pp. 37-46, 75-90. L'originalità del teatro di Terenzio 87 Sul piano letterario i procedimenti designati dai tre verbi ana- lizzati il più delle volte non producono valori estetici né se lo pre- figgono. Fondamentale è invece la finalità artistica contenuta nel significato di vertere, almeno per quanto riguarda il II secolo a.C. Esso indica infatti la traduzione letteraria C!). Come questa si rea- lizzasse. in maniera differente lo si può constatare dagli esiti arti- stici dei vari comici latini (29). In particolare è noto quanto il vortere barbare di Plauto fosse libero e disinvolto e quante scorribande egli si concedesse fuori del modello greco e quali vette di arte ori- ginale abbia raggiunto CO). Sulla stessa scia, pur con toni diversi, si muove Terenzio. Nei suoi prologhi vertere compare solo nel citato eun. 7-8, in un passo cioè polemico, la cui interpretazione è stata oltremodo tormentata e disforme riguardo ai molti problemi che vi sono connessi, ma univoca nel rilevare che l'unica volta CI) in cui Terenzio adopera vertere, non è per designare il suo modo di com- porre, ma quello dell'avversario. Resta poco chiaro come bene ver- tere genera male seribere C). Può essere utile a questo punto richiamare un passo di de opto gene orat. 14, 23, nel quale Cicerone dichiara di avere tradotto le due famose orazioni contrarie di Eschine e di Demostene per delu- (2') Sul concetto cfr. S. MAruOITI, Letteratura arcaica e alessandrinismo, cit., p. 37; G. PASQUAU, Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1950, p. 64. (29) Sintomatico il giudizio di E. DUCKWORTH, Tlte Nature 01 Roman Comedy, cit., p. 384. (30) Cfr. E. FRAENKEL, Plautinisches im Plautus, Berlin 1922 (trad. it. di F. Mu- nari: Elementi plautini in Plauto, Firenze 1960); R. PER:-lA, L'originalità di Plauto, Bari 1955. (31) Cfr. M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 102. (32) Non c'è praticamente filologo che si sia occupato di Terenzio e non abbia elaborato ufia sua esegesi del passo. La questione, nata in seguito ad un articolo di E. FRAENKEL (Zum Prolog des terenzisc1zen Eunuchus, «Sokrates» 6 [1918], pp. 302-317), è stata ripresa e sviluppata tra gli altri da F. ARNALDI, Da Plauto a Terenzio, II, Napoli 1947, p. 128; H. HAFFfER, op. cit., p. 87; O. BIANCO, La cronologia delle commedie di Terenzio, «Ann. Se. Nonn. di Pisa» 25 (1956), p. 173, n. 2; I. TRENCSÉNYI-WALDAPFEL, art. cit., p. 167; H. BAROO:-l, La littérature latine inconnue, I, Paris 1952, p. 148, dove si trova enunciata la strana tesi che Terenzio «s'en prenait au modèle grec plutòt qu'à l'auteur latin ». Più di re- cente da E. PARATORE, Studi sulla palliata, cit.; ID., Una nuova versione di Teren- zio, «Riv. Culto Class. Med.» 3 (1%1), p. 134; A. RO:-lcom, Interpretazioni, cit., p. 34, dove tra l'altro nella nota 1 dichiara di respingere «la variante eas describendo» da lui stesso difesa « altrove », cioè in «Atene e Roma» 5 (1960), p. 59; M. R. POSANI, Osservazioni, cit., pp. 102-107. 88 Luciano Cicu cidare ai Romani che cosa fosse vero atticismo, vestendo però i pan- ni non del traduttore, ma dell'oratore (nec converti ut interpres, sed ut orator), esplicitando poi che cosa intenda per convertere ut orator. Si tratta del procedimento che dà luogo a una buona traduzione, non solo fedele, ma anche il più possibile valida sotto il profilo ar- tistico, tale da riprodurre in latino le eleganze delle orazioni attiche. Lo scopo di Cicerone è di generare - mediante la traduzione - nel lettore romano le medesime sensazioni provate dall'ascoltatore greco. Questo doveva essere il senso di vertere anche per Luscio La- nuvino C3), non già quello di una improbabile traduzione letterale mai attestata per nessun autore di palliate. Non un mero verbum pro verbo reddere quindi, ma piuttosto uno sforzo per rigenerare genus omnium verborum vimque. Tutto ciò, sappiamo, non era sufficiente per Terenzio. Per quanto bene l'operazione riuscisse, era pur sempre e soltanto una ripetizione di un modello. Non può sfuggire a questo proposito l'ironia di eun. 9: idem Menandri Phasma nunc nuper dedit,quello 'stesso Luscio che recentemente ha dato alle scene il Phasma di Menandro. Terenzio con ambigua enunciazione lascia intendere che nel Phasma c'è solo Menandro e per niente il Lanuvino. Se que- sto è v~ro, easdem scribendo male deve interpretarsi come il natu- rale risultato di una totale mancanza di originalità, per cui quelle commedie, pur ottime in lingua greca, diventano prodotti di se- cond'ordine nella letteratura latina, proprio perchè prive del sigillo dello scrittore latino. Se poi si pensa alla opposizione tra obscura diligentia e neclegentia di andr. 21, quest'ipotesi acquista maggiore consistenza. La diligentia può forse essere ritenuta obscura, come propone il Ronconi (34), perchè il traduttore mantiene nel testo latino passi oscuri al grande pubblico, ma ancor più perchè, unica luce essendo quella dell'autore greco, si ecclissa in buio anonimo e senza gloria la personalità del traduttore. La neclegentia, invece, aveva fruttato fama e prestigio a comici del livello di Nevio, Plauto ed Ennio. (33) Si veda su ciò E. PARATORE, Storia del teatro latino, cit., p. 158. (34) Interpretazioni, cit., pp. 35-38; più generico H. HAFFTER, op. cit., p. 30. L'originalità del teatro di Terenzio 89 Terenzio dunque riteneva, con esagerazione polemica, che il bene vertere di Luscio Lanuvino sconfinasse nel vertere ut interpres e ne traeva come conseguenza le note deduzioni negative. b) Seribere Seri bere è presente in tutti i prologhi terenziani e indica spesso l'opera di creazione artistica del solo poeta latino; l'attività infatti del comico greco non viene mai designata con questo verbo. Non si comprende se il fatto sia casuale o voluto. Probabilmente Terenzic avrà con questo inteso rimarcare il rovesciamento della posizione plautina e insieme dare rilievo preminente alla sua autonomia com- positiva. Sintomatico in proposito è un passo di heaut. 7 ss., nel quale seribere sottolinea la novità e paternità della commedia, sen- za coinvolgere in questi concetti il poeta greco eS), designato invece con un'altra espressione generica (euia Graeea sit). Non c'è dubbio dunque che in Terenzio sia venuta meno l'opposizione tra seribere e vertere e), propria di Plauto. Ne è conseguito che il primo verbo ha inglobato del secondo quella parte dell'area semantica coperta dal concetto di vertere neclegentia e forse anche ampio tratto del settore di vertere diligentia. Giova ricordare a questo proposito che Terenzio definisce il modo di fare commedie di Luscio Lanuvino uno seribere male, ma pur sempre uno seribere. In Terenzio si re- gistra dunque un allargamento dell'area semantica del termine con nuove implicazioni sul piano estetico, che è necessario chiarire, peréhè in esse sono contenute le motivazioni teoriche sulle quali si fonda la coscienza dell'originalità terenziana. Nel comporre un'opera d'arte, infatti, lo scrittore antico do- veva misurarsi con il problema del rapporto tra forma e contenuto, che era al centro della riflessione estetica del mondo classico. La soluzione adottata ispirava e in qualche modo determinava lo svi- (35) Si veda in proposito M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 112. (36) Su l'opposizione tra vertere e scribere cfr. A. TRAINA, Commento alle traduzioni poetiche di Cicerone, II, cit., p. 144, n. 11; M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 103, n. 1; poco convincente l'affermazione di una presunta «genericità» di scribere in Terenzio (p. 104). Di notevole interesse invece quanto asserisce F. ARNAlDI, op. cit., II, p. 132. 90 Luciano Cicu luppo dell'opera, in quanto dettava le finalità e le tecniche di rea- lizzazione e in ultima analisi condizionava la qualità artistica del prodotto letterario. Per accertare l'atteggiamento di Terenzio sul problema, bisogna innanzi tutto individuare quali correnti di pensiero estetico erano penetrate a Roma nella prima metà del II sec. a.C. e quali presu- mibilmente erano state assimilate nel circolo culturale presso il quale il poeta operava. Teorie peripatetiche e stoiche dovevano essere già note ai let- terati più preparati dell'epoca. Non è pensabile infatti che «la larga consapevolezza retorica» C7), di cui appare pervasa la lette- ratura latina arcaica, non avesse comportato la conoscenza di al- cuni concetti fondamentali dell'estetica ellenistica: come d'altra parte è facile intuire che la loro assimilazione non dovette avvenire nelle forme rigorose e sistematiche della filosofia, ma piuttosto in quelle approssimative, tipiche delle culture di provincia, che favo- riscono tra l'altro fenomeni di facile sincretismo. CosÌ l'idea della preminenza della forma sul contenuto CS), profondamente radicata nel pensiero estetico alessandrino sotto l'influsso della lezione teofrastea, e condivisa anche dalle scuole stoiche C9), sebbene con qualche riserva da parte di alcune, doveva essere ormai divenuta patrimonio comune della cultura romana. A diffonderla e rafforzarla saranno serviti di certo i molti maestri greci di retorica, insediatisi in città dopo la liberazione della Gre- cia, seguiti con ammirazione crescente dai giovani aristocratici. D'altra parte questa tesi offriva una consistente base teorica per giustificare tanta letteratura cresciuta nell'ambito del vertere. Negli anni in cui Terenzio componeva le sue commedie, gli uomini del circolo scipionico l'avevano fatta certamente propria sotto l'influs- so sia peripatetico che stoico. Per l'uno e per l'altro si hanno in- dizi sintomatici. (37) s. MARIOTII, Letteratura arcaica e alessandrinismo, cit., p. 48. (33) Il concetto è chiaramente ribadito da A. PLEBE, op. cit., pp. 55-56, e da E. PARATORE. Poetiche e correnti letterarie nell'antica Roma, cit., pp. 35-40. (39) Si veda A. ROSTAGNI, Aristotele e l'aristotelismo nella storia dell'estetica classica, in Scritti Minori, I, p. 193, n. 3; M. Pom.ENZ, La Stoa, Firenze 1967 (trad. it. di O. De Gregorio), I, pp. 92, 365. L'originalità del teatro di Terenzio 91 Plutarco, nella vita di Emilio Paolo, racconta che il vincitore di Pidna tenne per sè, del bottino macedonico, la biblioteca del re Perseo (40). Il trasporto dei libri a Roma fu fatto nel 167, l'anno prima della rappresentazione dell'Andria. Nella grande raccolta erano comprese le opere a carattere letterario ed erudito che Ari- stotele aveva composto nel suo soggiorno macedone alla corte di Filippo, e probabilmente molti altri saggi del grande filosofo e della sua scuola. ~ facile immaginare con quale entusiasmo abbiano letto quei volumi i figli di Emilio Paolo, guidati dai maestri greci pre- posti alla loro educazione, e i colti aristocratici che gravitavano intorno all'illustre casa. Le discussioni sui problemi di carattere letterario non saranno certo mancate, specialmente sulla questione dell'importanza dello stile nel giudizio di valore di un'opera d'arte. Il dibattito con ogni probabilità non dovette restare chiuso. Il clima dei prologhi terenziani lascia intuire una disputa vivacissima a più voci, che doveva avere coinvolto, mescolando motivi anche di altro ordine, ambienti diversi C). D'altra parte questa problematica fu sempre presente presso il gruppo scipionico nel II sec., se è vero che Publio Scipione, padre dell'Emiliano, impedito dal percorrere la carriera politica per la salute cagionevole, si era dedicato alla composizione di pregevoli saggi di oratoria e di storia, quest'ultimi in lingua greca, e che l'in- teresse per i valori dello stile rimasero al centro dell'attenzione del Circolo di Emiliano e Lelio, come frutto non di entusiasmo recente, ma di consolidata tradizione culturale. Una ragione di più che per- mette di intuire la competenza e la passione degli uomini del Cir- colo per le questioni stilistiche. La biblioteca conservava dello Stoicismo i libri di tendenza (40) Su la biblioteca di Perseoe la sua compOSIZIone cfr. F. DELL\ CoRTE, Stoicismo in Macedonia e in Roma, in Studi di filosofia greca, Bari 1950, pp. 311-318. Riguardo all'influsso della biblioteca sulla cultura filosofica romana è utile notare che, sebbene tutti i filosofi stoici del circolo macedonico rappre- sentassero la tendenza zcnoniana, il filone della scuola aristoniano-diogcniana restò vitale, specialmente presso gli Scipioni, e fu alimentato anche dall'ami- cizia e la stima che quei protagonisti della vita culturale romana ebbero con filosofi come Diogene e Panezio. (41) Su le polemiche letterarie dell'epoca di Terenzio cfr. E. PARATORE, Poeti- che e correnti letterarie nell'antica Roma, cit., p. 42; H. HAFFrER, op. cit., p. 30. 92 Luciano Cicu zenoniana. Questo filone appare il più diffuso, anche se non incon- trastato, a Roma fra il 167 e iI 155 a.C. C2). Presso iI gruppo sci- pionico sembra infatti avere maggior presa quella corrente che, partendo da Aristone di Chio, attraverso Diogene di Seleucia e Cratete di MalIo conduce a Panezio. In questa ipotesi trovano lo- gica spiegazione le notizie di Lelio che ad Atene ascolta le lezioni di Diogene C3) e delI'Emiliano che ospita a lungo in casa il filosofo Panezio. Caratteristica di questa scuola era una certa disponibilità al dialogo con le altre scuole filosofiche e quindi ad un certo sincre- tismo, che non doveva dispiacere all'eclettismo del Circolo. In par- ticolare sul problema del rapporto forma-contenuto essi avevano' assunto posizioni e atteggiamenti simili a quelli teofrasteo-alessan- drini. Un breve excursus, comunque, sui componenti di questa cor- rente potrà essere utile a chiarire meglio il concetto e i rapporti di alcuni di loro con gli Scipioni. L'antica Stoa, pur non insensibile ai problemi del linguaggio, apprezzava nell'opera d'arte i valori contenutistici, per la loro fun- zione educativa, più di quelli formali (44). Chi per primo derogò da questa linea fu proprio Aristone di Chio, scolarca successore di Cleante. Egli si occupò in particolare della poesia ed espresse l'esi- genza che un componimento poetico dovesse essere sostenuto da una tecnica sicura e possedere scelta elocuzione e suono armonioso. G li organi della percezione del piacere estetico erano i sensi e in particolare l'udito, non più la ragione. Pare che egli non solo teo- rizzasse queste idee, ma le mettesse in pratica nelle lezioni fS). La sua poetica fu criticata da Filodemo, specialmente nel V libro del nEpt 'ITOlTl ~éxtu)v (46). (42) Sul problema si veda F. DEllA CoRTE, Stoicismo in Macedonia e in Roma, cit., pp. 314-317. (43) Lo afferma M. POHI.ENZ, La Stoa, cit., I, p. 543. Una conferma indiretta proviene dal fatto che . Diogene Babilonio nell'ambasciata del 155 a.C. fece cono- scere Panezio a Lelio e a Scipione (Cle. de fin. 2, 24). (44) Sul problema cfr. M. POHLENZ, La Stoa, cit., I, p. 365. (4S) M. POHLENZ, La Stoa, cit., I, p. 326. (46) Cfr. C. MAZZANTINI, L'estetica nel pensiero classico, in Grande antologia filosofica, II, Milano 1966, p. 208 ss. . L'originalità del teatro di Terenzio 93 Sulla scia di Aristone troviamo Diogene di Seleucia o di Ba- bilonia, il filosofo stoico, che venne a Roma nel 155 in ambasceria insieme a Carneade accademico e a Crito~ao peripatetico. Anch'egli si interessò ai problemi del linguaggio C7) e « raccolse le precedenti esperienze della scuola stoica» CS), in un libro intitolato nepi q>u>viìc;, che divenne la base del celebre trattato grammaticale di Dionisio Trace. L'opera è andata perduta, ma delle posizioni di Diogene possiamo farci un'idea attraverso la polemica filodemea. Pare elevasse severi moniti contro l'arte del dire, colpevole di essersi messa al servizio dell'ingiustizia, facendo perno sulla tecnica C9 ). Anche Diogene era dunque fautore di un'arte grave e austera. Suo discepolo era stato anche Cratete di Mallo C\ il grande filologo di Pergamo, studioso di linguistica, acuto commentatore di poeti antichi e moderni, convinto assertore della necessità della preparazione filosofica per la formazione di un buon critico lette- rario e della interpretazione allegorica della poesia. Cratete venne a Roma, inviato del re Attalo di Pergamo nel 169, esattamente tre anni prima della rappresentazione dell'Andria e vi tenne una serie di lezioni, seguite con interesse da un attento e numeroso pubblico. ~ difficile immaginare assenti dalla piccola folla degli ascoltatori il giovane Emiliano, Lelio e i loro amici. Discepolo di Cratete e poi di Diogene (fra il 160 e il 150) fu anche Panezio CI). Sebbene egli sia venuto a Roma in epoca suc- cessiva alla morte di Terenzio, il suo pensiero è importante per de- terminare l'ideologia e le opinioni estetiche del Circolo scipionico e per la possibilità che la sua opera offre di ricostruire con discreta approssimazione le posizioni dei maestri, la portata dei loro pro- (47) Per la traccia lasciata da Diogene nella filologia romana si veda il saggio di L MARIOTII, Studi Luciliani, Firenze 1969, p. 24. (48) M. POlILENZ. La Stoa, ci!., I, p. 362. (49) M. POHLENZ, La Stoa, cit., I, p. 93. (SO) SU una scuola di cratetei romani a partire dal 169 a.C. cfr. F. DaLA CORTE, Catone Censore. La vita e la fortuna, Firenze 19692, pp. 154-155. Su la data della venuta a Roma di Cratete cfr. F. DELL\. CORTE, L'ambasceria di Cratete a Roma, in Opuscula II, Genova 1972, pp. 49-50. {51) Sul pensiero di Panezio si veda M. POHI.ENZ, La Stoa, cit., I, p. 387 ss., ma specialmente dello stesso autore L'ideale di vita attiva secondo Panezio nel de officUs di Cicerone, Brescia 1970. Luciano Cicu babili influssi a Roma e in particolare sull'ambiente sClplOnico e quindi su Terenzio. Tra i problemi di estetica in Panezio due hanno singolare rilievo: il concetto di a'(a~EaLC; e quello di 'TrpÉ'Trov. Il primo, che designa quella particolare sensibilità che consente la fruizione di un'opera d'arte, non trova riscontro in Terenzio; il secondo, con la sua connotazione etico-estetica, pare invece al cen- tro della sua attenzione. Sul piano teorico egli partecipa infatti con opinioni personali alla discussione sul decere contaminari (Andr. 16), su quello pratico esprime la sua adesione al prepon, sia quan- do manifesta di avere fuso due commedie di Menandro nel rispetto . del convenire (Andr. 13), sia quando si adopera per armonizzare azione e linguaggio dei personaggi. ~ difficile capire se le allusioni al prepon (andr. 13 e 16) e all'essenzialità del valore della forma (andr. 12 ed heaut. 45), se la stessa noncuranza con cui maneggia i contenuti dei modelli siano da spiegarsi con l'influsso delle idee peripatetiche o stoiche. Bisogna d'altronde tener presente in proposito che lo stesso pensiero di Panezio risenti va del sincretismo ellenistico C2) e che riguardo ai problemi dello stile era più vicino a Teofrasto che a Zenone, come lascia intendere Cicerone in de fin. IV 79: (Stoicorum) tristitiam atque asperitatem fugiens Panaetius nec acerbitatem sententiarum nec disserendi spinas probavit fuitque in altero genere mitior, in altero illustrior, semperque habuit in ore Platonem, Aristotelem, Xenocratem, Theophrastum, Dicearchum, ut ipsius scripta declarant. Questo atteggiamento era certo in linea con gli orientamenti della sua scuola, ma non si può escludere che fosse maturato anche per il contatto con la cultura latina dell'ambiente in cui viveva, come accadde d'altronde per il suo pensiero politico. La breve indagine che precede, permette di concludere che a Roma e presso il Circolo Scipionico, all'epoca déll'attività di Te- renzio, il valore preponderante dello stile rispetto al contenuto nella valutazione estetica di un'opera letteraria doveva essere uni- (52) :Sul sincretismo estetico in età ellenistica cfr. A. ROSTAGNI, Aristotele e l'aristotelismo, cit., p. 193;della presenza del fenomeno a Roma si occupa invece S. MARIOTTI, Letteratura arcaica e alessandrinismo, cit., p. 38. Una ripro- va si ha in Lucilio, che segue teorie stoiche riguardo alla grammatica e peri· patetiche per la retorica (I. MARIOTII, Studi Luciliani, cit., pp. 22-24). L'originalità del teatro di Terenzio 95 versalmente accettato, suffragato com'era da una diffusa tradizione 'culturale e da fonti di venerabile autorità. Terenzio non faceva eccezione. Nell'area del suo seribere, dunque, era compresa sia l'esaltazione del valore dello stile (anche in funzione dell'origina- lità dell'opera letteraria), sia il giudizio limitativo sul contenuto. Ancora una volta Cicerone esplicita queste deduzioni. Da una parte infatti, in Tuse. II 7 C3) definisce nella sua pienezza l'intera area semantica di seribere, accompagnandolo con due coppie di av- verbi, tratti rispettivamente i primi due dal campo dell'inventio e della dispositio e i secondi da quello della eloeutio, dall'altra, nel proemio filoterenziano del De finibus, sottolinea il prevalere del- l'accezione stilistica nel termine seribere. In particolare quest'ultimo significato si rileva in due passi. Nel primo (De fin. I 8) Cicerone riprende un discorso precedente e dichiara di capire quelli che ri- fiutano di leggere opere filosofiche composte in latino quod incide- rint in ineulta quaedam et horrida, de malis Graecis Latine seripta deterius. La spiegazione di seripta, che per sè potrebbe lasciare adito a interpretazioni contenutistiche, viene fornita con estrema chiarezza nel passo successivo, simmetrico anche sotto il profilo formale: Res bonas verbis electis graviter ornateque dietas quis non legat? A malis Graecis corrisponde res bonas e a seripta de- terius viene contrapposta la frase verbis eleetis graviter ornateque dietas. Ancora più esplicito Cicerone diviene nel seguente De fin. I lO, dove conclude il discorso accennato con una interrogativa re- torica di non dubbia risposta: Quando enim nobis, vel oratoribus aut poetis, postea quidem quam fuit quem imitarentur ullus ora- tionis vel eopiosae vel elegantis ornatus defuit? La situazione è quella tipica dei commediografi della palliata. Significativo in pro- posito il riferimento ai poeti. L'aemulatio avviene proprio sul piano del modus seribendi, della tecnica stilistica, della ricchezza del lin- guaggio e della padronanza dei mezzi dell'arte retorica ai fini della rigenerazione di un contenuto. (53) CICo Tuseo 2, 7: sed quia profitentur ipsi ilIi, qui eos seribunt, se neque distincte neque distribute neque elegarzter neque ornate seribere, leetiollem sille ulla deleetatione neglegoo 96 Luciano Cicu c) Seriptura Connesso per etimo con seribere è il sostantivo seriptura (54). Terenzio lo adopera quattro volte. In hee. 13, 23 e in adelph. 1 in- dica il risultato dello seribere, mentre in Phorm. 6 assume una con- notazione più spiccatamente contenutistica, opposto com'è al ter- mine oratio. L'interpretazione non è però così pacifica che non abbi- sogni di una giustificazione. In Phorm. 5-6 Terenzio riferisce un aspro giudizio sulla sua opera di Luscio Lanuvino qui ita dietitat, quas antehae fecit fabulas tenui esse oratione et seriptura levi. Per giungere ad una probabile interpretazione del passo è ne- cessario inquadrarlo nella polemica tra Luscio e Terenzio. Le provo- cazioni e le risposte si susseguivano con ordinata cadenza nella ri- spettiva serie di commedie. ~ quanto avviene anche nelle commedie tereriziane del 161, Eunuehus e Phormio: in entrambe l'autore di- chiara di essere stato provocato e quindi costretto alla risposta. Non conosciamo quale sia stata la prima critica di Luscio; Terenzio dice solo che il vecchio poeta laesit prior ed egli contrattacca nel- l'Eunuchus con i noti vv. 7-8: qui bene vertendo et easdem seri bendo male ex bonis Graecis Latinas fecit non bonas con quel che segue. Il Lanuvino, punto sul vivo, reagì con quel giudizio che Terenzio riferisce in Phorm. 6. Il tutto avvenne nel giro di pochi mesi, dato che le due commedie di Terenzio furono rappresentate la prima in aprile, ai Ludi Megalesi, e la seconda in settembre, ai Ludi Romani. Era mancato il tempo per stemperare la polemica; le risposte si allacciano alle critiche puntualmente. L'uso del presente dietitat e il valore frequentativo del verbo stanno ad indicare la pregnanza della contesa e insieme la stizza incontenibile del vetus poeta. Nel ribattere colpo su colpo Luscio estende la sua (54) Su scriptura cfr. A. RONCONI, Interpretazioni, cit .. p. 42. Per le affinità di significato tra scribere e scriptura cfr. M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 107; F. ARNALDI, op. cit., II, p. 132. L'originalità del teatro di Terenzio 97 critica a tutta l'opera terenziana (quas antehae feci t fabulas), pro- prio come aveva fatto il giovane antagonista nell'Eunuehus (Latinas fecit non bonas). Egli non si difende dall'insinuazione del bene vertere: è il suo credo poetico. Gli scotta seribere male. Consape- vole della duplicità del senso di questo verbo, sente la critica rivolta al suo modo di elaborare i contenuti e in particolare al suo stile. La risposta si appunta infatti in primo luogo sullo stile di Terenzio, definito tenuis, e in secondo luogo sul contenuto delle sue com- medie, tacciate di Ievitas. Tenuis è aggettivo da collocare nell'ambito retorico della eIo- eutio; oratio tenuis indica un certo 'livello dello stile. Ma Luscio qui non sta catalogando stili, sfoga la sua rabbia. Tenuis va quindi riportato a extenuare, assottigliare, rendere inconsistente. Al con- fronto con la forza espressiva, immediata, corposa di Plauto e anche di Cecilio CS), lo stile terenziano doveva apparire sil'le nervis ('6), costruito com'era su una diversa selezione linguistica e un tipo di dialogo che non ricercava a tutti i costi il yÉÀ(JJç ~K T~ç ÀÉ~E(JJçt ma piuttosto un moderato yÉÀ(JJç ~K TWV 1tPaylléx'r(JJv. Non dove- va essere difficile accreditare una tale immagine dello stile teren- ziano presso il grosso pubblico romano C'), dal gusto scarsamente affinato e non avezzo alle squisitezze formali. La noia suscitata ne- gli spettatori dalla rappresentazione dell'Heeyra e il conseguente abbandono del teatro da parte del populus stupidus CI) forniscono una prova eloquente. La nuova arte di Terenzio era espressione di un gruppo ristretto di uomini colti al di sopra della sensibilità media (SS) I giudizi sullo stile di Cecilia sono per lo più costruiti sulla nota syncrisis gelliana. Su l'argomento cfr. R. ARGENIO, Il Plocium di Cecilio Stazio, « Il mondo classico» 7 (1937), pp. 359-368; O. BIANCO, op. cit., pp. 45-49; A. TRAINA, Vortit barbare, cit., pp. 43-53; ID., Comoedia, Antologia della palliata, Padova 1969, pp. 95-96; L. GAMBERALE, op. cit., pp. 37-47. (56) Su lo stile e la lingua di Terenzio manca uno studio d'insieme; cfr. tra gli altri F. ARNALDI, La lingua di Terenzio, lingua da capitale, «Atene e Roma» 40 (1938), pp. 192-198, e L. PERELu, Il teatro rivoluzionario di Terenzio, Firenze 1973, p. 199 ss. Per la biblografia essenziale sull'argomento si veda l'Appendice bi- bliografica di D. Nardo alla trad. itaI. del volume H. HAFFIER, Terenzio e la sua personalità artistica, cit., pp. 141-142. (5') Cfr. A. RONCONI, Interpretazioni, cit., p. 145; E. PARATORE, Il teatro latino nei suoi rapporti con il pubblico antico, cit., p. 67. (S8) TER. hec. 4. 98 Luciano· Cicu popolare C9). La stizza biliosa del letterato aveva acuito lo spirito critico, come spesso accade, e fatto cogliere al vecchio poeta l'es- senza e la novità dell'arte terenziana, che per il Lanuvino era tut- t'altro che arte. La critica del secondo emistichio del verso citato si estende quindi al contenuto. La scriptura è levis perchè mancano scene, episodi, personaggi intonati alla gravitasceciliana. Il vetus poeta, imitatore di Cecilio, « con la cieca grettezza degli epigoni» (60), la riteneva essenziale ed egli stesso forniva nelle sue commedie esempi, come quello della cerva che prega e implora, messi in ridicolo da Terenzio perchè contrari alla norma del prepon (61). Egli infatti, come sottolinea Evanzio (3, 5), rifiuta sia la tragica altitudo sia la mimica vilitas e preferisce il giusto mezzo fra i due estremi che sarà caro a Cicerone (De opto gen. orat. 1) e ad Orazio (Ars 89). Terenzio insomma « vuole che la tragedia resti tragedia e la com- media commedia» (62), e ciò "sia dal " lato contenutistico, con una scelta di personaggi e scene «convenienti », sia dal lato formale, dove per lo stesso" principio respinge la mescolanza di ÀÉçlç KOP.lKft e di ÀÉçlç -rpaylKft. "Ancora una volta ciò che per Terenzio è virtus, per Luscio è vitium. Dratio e scriptura di Phorm. 6 sono dunque la risposta pun- tuale e articolata di Luscio Lanuvino al terenziano scribere male di eun. 7. In tutta la questione c'è un dato importante da rilevare: i due commediografi possono criticarsi a vicenda e fare dell'ironia perchè entrambi hanno viva la coscienza che le commedie sono frutto del loro ingenium e quindi originali. ~ ovvio che ogni discus- sione sarebbe caduta se al centro della polemica vi fosse stata la commedia greca, la cui perfezione non era possibile mettere in dubbio. (59) Sul problema cfr. E. PARATORB, Il teatro latino nei suoi rapporti con il pubblico antico, cit., p. 67. (60) E. PARATORB, Storia del teatro latino, cit., p. 158. (61) Sulla questione cfr. A. RONCONI, Interpretazioni, cit., p. 143; M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 106. (62) A. RoNCONI, Interpretazioni, cit., p. 43. L'originalità del teatro di Terenzio 99 d) Facere Rimane da esaminare l'uso e il significato di facere. Il termine compare spesso in tutti i prologhi con un'ampia area semantica che comprende sostanzialmente due settori: il primo è quello generico che indica il « fare », il « fare si che »; il secondo assimila facere a scribere (63) al punto da sostituirlo quando ciò sia richiesto da ragioni di eufonia (Andr. 2 s.; eun. 36 s.), ma non ne raccoglie la particolare accezione riguardante la stilistica. Facere fabulam è sintagma formulare che designa la composizione della commedia sia da parte dello scrittore greco che di quello latino. Una espan- sione è facere fabulas latinas (eun. 33), nella quale affiora la con- cezione del ricreare le commedie greche, di dare loro cittadinanza romana, di farle latine a particolari condizioni. Non v'è comico del- la palliata che non sia convinto di ciò, al punto che il primo che trasporta a Roma una commedia della Nea ne diventa quasi il nuo- vo proprietario, la rende privati iuris; se un altro comico latino vi attingesse in qualche maniera, si renderebbe colpevole di furtum, cioè di alienazione di parte della proprietà altrui. Facere, insomma, nella sua accezione più tecnica si presenta come un calco dal greco TtOlElV, il verbo che indica. appunto l'operare del 1tOlllnlC;, del- l'artifex, che con il suo lavoro costruisce e crea nuove opere ed ha coscienza di creare. In chiusura di questa prima parte della ricerca si può trarre una sintesi dai vari elementi emersi dall'esame dei prologhi, dagli echi terenziani in Cicerone, dagli indizi estetici e dagli esiti del- l'indagine su alcuni termini chiave. Non si può che avere una con- clusione: Terenzio aveva raggiunto una documentata coscienza della originalità della propria opera. Facere de integro comoedias di andr. 26 risulta essere pertanto la naturale espressione di una matura e orgogliosa convinzione. (63) Sul problema si sofferma M. R. POSANI, Osservazioni, cit., p. 112. 100 Luciano Cicu II Se è vero che « lo studio della letteratura deve tener conto del- le condizioni storiche nelle quali sono maturate le singole opere, delle esigenze alle quali esse dovevano rispondere, delle tecniche e degli strumenti di cui potevano servirsi» (64), l'indagine filologica appare incapace per limiti intrinseci a dare risposte corredate di cause e motivazioni. Solo a momenti queste affiorano a indicare l'origine di determinate scelte estetiche di Terenzio, mentre in gran parte rimane in ombra l'humus in cui affondano le radici dell'arte terenziana, i retro terra cioè umani, culturali, politici che ne hanno alimentato sensibilità e intelligenza. ~ perciò necessario, in primo luogo, penetrare nello spirito dei tempi, respirame, per così dire, l'atmosfera, individuandone le componenti e le reciproche relazioni. Su questo sfondo sarà possibile delineare e comprendere sia le posi- zioni politico-culturali del gruppo scipionico, presso il quale operava Terenzio, sia le opinioni e gli ~tteggiamenti degli avversari del poeta e dei loro possibili protettori. Ed è forse in tale contesto che si potrà trovare una risposta al problema del perchè un poeta giovane come Terenzio, dal successo così limitato, con fiaschi clamorosi alle spalle, fosse potuto divenire oggetto di una critica così spietata e ossessiva. I tempi. Nella prima metà del II secolo a.C. la società romana subì vasti e profondi mutamenti negli equilibri economici, sociali, poli- tici e culturali (65) • Avvenimenti com,e la seconda guerra punica e (64) R. WELLEK - A. WARREN, Teoria della letteratura, Bologna 1965 (New York 1963; trad. it. di P. L. Contessi), p. V. (65) Per il quadro storico si sono attinti elementi tra gli altri dai seguenti studi: G. DE SANCIIS, Storia dei Romani, IV 1-2, Firenze 1969 (Torino 1923); M. ROSTOVZEV, Storia economica dell'Impero Romano, Firenze 1973 (Oxford 1926; trad. it. di G. Sanna) pp. 12-18; R. SYME, La rivoluzione romana, Torino 1962 (London 1939; trad. it. di M. Manfredi), pp. 15-22; G. TmII.EITI, Sviluppo del latifondo in Italia dall'epoca dell'età graccana al principio dell'Impero, c Rela- L'originalità del teatro di Terenzio 101 la successiva espansione mediterranea della potenza romana, le re- lazioni sempre più strette e feconde con le civiltà ellenistiche e orientali, non potevano passare senza lasciare traccia. Sul piano economico si registrano alcuni fatti di importanza fondamentale per il futuro assetto sociale e il mutamento dei co- stumi. Senza interruzione, in un cinquantennio affluiscono a Roma, come bottino di guerra, ingenti capitali, che se da un lato rimpin- guano l'erario statale, permettendo tra l'altro la realizzazione di grandiosi lavori pubblici, dall'altro favoriscono anche l'accumula- zione di ricchezze, inusitate per i tempi, nel gruppo delle famiglie egemoni. L'abbondante liquidità non provoca per il momento inflazione, ma stimola l'attività commerciale e l'importazione di merci estere di ogni genere per soddisfare i nuovi bisogni ed i massicci investi- menti mobiliari e imlnobiliari. I primi sono appannaggio della emr.r- gente classe equestre, i secondi della classe senatoria. Questa, infatti, seguendo la tradizione, rafforza ed amplia il suo patrimonio di terre, occupa tratti vastissimi di ager publicus e, nella tendenza al lati- fondo, invade in maniera più o meno coercitiva i poderi limitrofi dei piccoli coltivatori diretti, rovinosamente indebitati per le lun- ghe assenze dovute al servizio militare. Il latifondo è favorito anche da un altro macroscopico fenomeno: l'incremento massivo, concen- trato in tempi piuttosto brevi, del numero degli schiavi. Ne giunge in Italia una sterminata teoria. I prigionieri di guerra forniscono il contingente più cospicuo, ma non mancano gli schiavi per debiti, specie nelle provincie, quelli d'allevamento e quelli immessi sul mercato dalla pirateria. L'abbondanza dell'offerta contiene i prezzi. Ne consegue che una manodopera cosÌ a buon mercato rende più zioni del X congresso internazionale di scienze antiche",Firenze 1955, II, pp. 235-292; F. CASSOLA, I gruppi politici romani del III sec. a.C., Trieste 1962, pp. 5-107; 375-403; L TOUTAIN, L'economia antica, Milano 1968 (Paris 1927; trad. it. di F. Coarelli), pp. 238-260; L. CRAcro RUGGINI, Esperienze eCOfwmic11e e sociali nel mondo romano, in Nuove questioni di storia antica, Milano 1968, pp. 700-721; J. VOGT, La repubblica romana, Bari 1975 (Freiburg LBr. 1968; trad. it. di V. Omodeo e C. Gronda), specialmente pp. 127-264; T. FRANK, Roma, in «Univer- sità di Cambridge, Storia antica", VIII l, Roma e il Mediterraneo 218-133 a.C., Milano 1971 (London 1965; trad. it. di C. Pagliara), pp. 453-487; S. L. UrCENKo, Cicerone e il suo tempo, Roma 1975 (Mosca 1971; trad. it. di F. Bresciani), pp. 10-71. 102 Luciano Cicu economica la conduzione del latifondo e più elevato il reddito netto. La produzione risente della domanda di mercato e della concor- renza, per cui si assiste ad una progressiva sostituzione delle pro- duzioni italiche tradizionali, come il frumento, con altri beni che offrono margini di guadagno più consistenti, come l'olio e il vino. Lo sfruttamento degli schiavi è spesso razionale e soggetto per lo più alle ferree leggi della produttività e dell'efficienza; Catone ne lascia una significativa testimonianza (66). Naturalmente lo spazio occupato dagli schiavi nei vari settori del mondo del lavoro viene sottratto ai liberi lavoratori. In breve tempo si forma così una nuo- va classe, un sottoproletariato urbano, composto dagli ex coltivatori diretti (67), divenuti nullatenenti, disponibili ormai al miraggio del bottino di guerra più che al lungo e ingrato lavoro dei campi, e dai disoccupati mercenari agricoli e artigiani. Queste masse forni- o scono il maggior numero di clientes, che conducono una vita paras- sitaria, senza dignità, disposti a tutto per il loro patronus. Su un gradino più alto vanno collocati quegli strati plebei meno disposti alla rassegnazione e più sensibili e combattivi sul piano politico, che forniranno la base sociale alle battaglie dei Gracchi e del partito democratico. A metà strada fra la classe se- natoria e la plebe emerge e si afferma in quest'epoca la classe dei cavalieri. La si potrebbe paragonare ad una attiva e intraprendente borghesia, con la sua mentalità efficientistica e pratica, incontrastata dominatrice del settore della ricchezza mobiliare. Essa è presente sui mercati internazionali, prende le commesse dello Stato, costituisce società per azioni, non durature, ma finalizzate alla raccolta dei capitali per la realizzazione delle grandi opere pubbliche, esige le tasse in provincia spesso con durezza implacabile. Il suo peso poli- tico cresce rapidamente, sfruttando a suo vantaggio l'antagonismo tradizionale fra le classi. I precedenti equilibri ne risultano profondamente mutati. Il (66) CAro de agro 2, 7: servum senem, (servum) morbosum vendat, patrem familias vendacem, non emacem esse oporlet. Sul problema si veda anche PLUT. Cato Maior 5, l-2. (67) Sul problema cfr. J. TOUTAIN, L'economia antica, cit., p. '244; C. GAllINI, Protesta e integrazione nella Roma antica, Bari 1970, p. 28. L'originalità del teatro di Terenzio 103 potere politico, e quindi la lotta per la guida dello Stato, rimane però ancora nelle mani degli Ottimati, le cui fazioni non disdegnano, pur di conseguire i loro fini particolari, di cercare alleanze nelle classi subalterne. La solidarietà della classe senatori a si registra in- fatti quasi esclusivamente nei processi de repetundis, di concussio- ne, per ovvii motivi di corporazione, ma per il resto i ceti nobiliari appaiono divisi in gruppi in concorrenza e in lotta per la conquista e il mantenimento del potere. Mancava per la spinta alla coesione e all'unità la paura di un movimento politico forte e agguerrito che ne insidiasse l'egemonia. Solo in epoca graccana infatti gli interessi intaccati e la comune necessità di difesa spinsero la classe senatoria all'unanimità. La lotta per il potere all'interno della classe era dura, senza esclusione di colpi, e utilizzava tutti gli strumenti possibili, dalla religione alla calunnia, dai processi alla polemica letteraria (61). Le fazioni contrapposte si ritrovavano intorno a famiglie di antico e consolidato prestigio militare e politico (69) o a nuovi gruppi di potere, coagulatisi intorno a leaders capaci e battaglieri. Esse, oltre che in precise finalità politiche, si riconoscono ben presto in nuclei dalle idee e dagli atteggiamenti comuni, che configurano una certa concezione della vita, una specie di ideologia insomma con una sua coerenza. Sotto questo profilo il problema di un giusto rapporto con la civiltà greca, di confronto, di assimilazione critica o di rifiuto, di- viene uno dei principali terreni di lotta. Da un lato si forma un movimento filelleno CO) con diversificazioni interne, dall'altro il « partito» di chi, in difesa della più rigida tradizione quiritaria e dei suoi valori e pregiudizi, ritiene doveroso rifiutare categorica- mente gli influssi del mondo greco C\ Nel primo recita una parte (68) Questa affermazione trova conferma nello studio di L. FERRERD, Storia del Pitagorismo nel mondo Romano (dalle origini alla fine della Repubblica), Torino 1955, pp. 177-199. (69) Cfr. R. SYME, op. cit., p. 13; L. FERRERO, op. cit., pp. 182-183. Il quadro storico relativo è lucidamente presentato da G. DE SANCTIS, op. cit., p. 561 ss. (10) Sul filellenismo si veda E. FRAENKEL, Il filellenismo dei Romani, « Studi Urbinati» 31 (1957), pp. 5-36, in particolare p. 11. (11) Cfr. tra gli altri J. VDGT, op. cit., p. 226; T. FRANK, Storia di Roma, I, Firenze 1974 (New York 1923; trad. it. di M. Fazio), p. 195 ss. 104 Luciano Cicu di primo piano la famiglia degli Scipioni e quelle dei loro amICI, nel secondo spicca la figura di Catone. Ovviamente le due fazioni avevano motivi ben concreti per il loro scontro, non ultimi i diffe- renti programmi di politica estera, legati a precisi interessi impe- rialistici ed economici; ai fini di questo studio importa però sotto- lineare le differenze della loro Weltanschauung e della loro forma- zione culturale. Gli Scipioni. Il filellenismo degli Scipioni, che si manifesta all'inizio del secolo con la proclainazione della libertà della Grecia da parte di Lucio Flaminino, perdura e si concretizza nell'ospitalità che essi offrono a elleni come Polibio e più tardi Panezio, in omaggio alla loro dottrina; questo li circonda di un prestigio inarrivabile. In questa temperie spirituale si giustifica il comportamento di Corne- lia C), madre dei Gracchi, solita raccogliere intorno a sè, come una nobildonna del settecento, i migliori ingegni greci residenti a Roma o di passaggio. Ma anche Cornelia, è utile ricordarlo, era una degli Scipioni. La loro ammirazione per la civiltà greca è critica e intel- ligente C); in quegli aristocratici la coscienza della supremazia po- litico-militare di Roma e della sua contemporanea inferiorità cul- turale e artistica suscita il desiderio della comprensione del mondo ellenico, mentre l'orgoglio· nazionalistico li esorta ad emulare la produzione letteraria greca nel tentativo di eguagliarne i livelli. Essi rifuggono da ogni eccesso o fanatismo C). Ne offrirà una tarda conferma il poeta del Circolo scipionico, Lucilio, con la sua satira contro gli smoderati filelleni, come quell' Albucio, noto per il suo ridicolo grecizzare (graecari). Quando si parla di Scipioni, specie dal punto di vista cultu- rale, il pensiero corre naturalmente al famoso Circolo. Sembra per- tanto opportuno sottolineare che il Circolo di Lelio e di Scipione (12) H. I. MARRou, Storia dell'educazione nell'antichità, Roma 19712 (Pans 19646 ; trad. it. di U. Massi), p. 329; T. FRANK, Roma, cit., p. 480. (73) Sul problema si veda J. VOGT, op. cit., p.
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