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Susan Sontag
Contro l’interpretazione
e altri saggi
Traduzione di Paolo Dilonardo
Con una nota di Daniele Giglioli
nottetempo
Indice
Una nota e qualche ringraziamento 11
Parte i
Contro l’interpretazione 17
Sullo stile 33
Parte ii
Le sofferenze esemplari dell’artista 63
Simone Weil 75
I Taccuini di Camus 79
Età d’uomo di Michel Leiris 91
L’antropologo come eroe 101
La critica letteraria di György Lukács 117
Santo Genet di Sartre 131
Nathalie Sarraute e il romanzo 139
Parte iii
Ionesco 157
Riflessioni sul Vicario 169
La morte della tragedia 179
A teatro, ecc. 189
Marat/Sade/Artaud 219
Parte iv
Lo stile spirituale dei film di Robert Bresson 237
Vivre sa vie di Godard 261
L’immaginazione del disastro 279
Flaming Creatures di Jack Smith 301
Muriel di Resnais 309
Una nota sul romanzo e il cinema 321
Parte v
Una fede senza contenuti 329
La psicoanalisi e La vita contro la morte 339
di Norman O. Brown 
Gli happening: un’arte di giustapposizioni radicali 349
Note sul “Camp” 365
Una cultura e la nuova sensibilità 387
Postfazione: Trent’anni dopo… 401
Appendice bibliografica 409
di Paolo Dilonardo
La scuola dell’entusiasmo. Susan Sontag, 413
ovvero la critica come lezione di gioia
di Daniele Giglioli
Per Paul Thek
11
Una nota e qualche ringraziamento
Le recensioni e gli articoli raccolti in questo volume costituiscono 
gran parte del lavoro critico che ho svolto dal 1962 al 1965, un 
periodo della mia vita nettamente definito. All’inizio del 1962 
ho terminato il mio primo romanzo, Il benefattore; alla fine del 
1965 ho cominciato a scriverne un secondo. L’energia, e le ansie, 
che ho riversato nei saggi critici hanno avuto un inizio e una fine. 
Quella stagione di ricerca, riflessioni e scoperte mi era sembrata, 
per certi versi, già lontana al momento della prima pubblicazione 
di Contro l’interpretazione e lo sembra ancor più adesso che la 
raccolta sta per essere ristampata in edizione economica. 
Benché nei saggi io parli diffusamente di specifiche opere 
d’arte e, sia pure in modo implicito, dei compiti del critico, 
sono consapevole che pochi dei testi qui riuniti possono es-
sere considerati veri e propri saggi critici. Con l’eccezione di 
alcuni articoli giornalistici, i saggi potrebbero, in gran parte, 
essere definiti metacritici – se tale definizione non sembrasse 
troppo pretenziosa. Ho scritto, con appassionata parzialità, di 
questioni che mi sono state suggerite da opere d’arte, perlopiù 
contemporanee, appartenenti a generi diversi: volevo enun-
ciare e illustrare i presupposti teorici sottesi a gusti e a giudi-
zi particolari. Per quanto non mi fossi proposta di esplicitare 
una presa di “posizione” sulle arti o sulla modernità, mi è sem-
brato che una sorta di posizione di fondo abbia preso forma 
e si sia espressa con crescente impellenza, quali che fossero le 
opere di cui mi interessavo.
12
Oggi dissento da alcune delle cose che ho scritto, ma non si 
tratta di un tipo di ripensamenti che renda possibili cambia-
menti parziali o revisioni. Anche se credo di aver sopravvaluta-
to o sottovalutato i meriti di alcune delle opere che ho discusso, 
il mio attuale dissenso ha poco a che fare con singoli mutamenti 
di giudizio. In ogni caso, l’eventuale valore di questi saggi, e la 
misura in cui sono qualcosa di più di una semplice illustrazione 
dell’evoluzione della mia sensibilità, non dipendono dalle spe-
cifiche valutazioni formulate, bensì dall’interesse dei problemi 
che sollevano. In fin dei conti, non sono interessata ad assegna-
re voti alle opere d’arte (ed è questa la ragione per cui in genere 
ho evitato di scrivere di opere che non ammiravo). Ho scritto 
con lo spirito di parte di un’entusiasta – e, così adesso mi pare, 
con una certa ingenuità. Non mi rendevo conto dell’enorme 
impatto che, in un’epoca di “comunicazione” istantanea, può 
avere chi scrive di attività artistiche nuove o poco conosciute. 
Non mi rendevo conto – non l’avevo ancora dolorosamente 
compreso – della rapidità con cui un corposo saggio pubblicato 
sulla Partisan Review può trasformarsi in uno “Scelto per voi” 
su Time. Nonostante il mio tono esortatorio, non intendevo 
condurre nessuno, eccetto me stessa, verso una Terra promessa.
Per quel che mi concerne, i saggi hanno svolto la loro fun-
zione. Vedo il mondo in modo diverso, con uno sguardo più 
fresco; la concezione dei compiti che mi propongo in quanto 
romanziera è radicalmente mutata. Potrei descrivere il processo 
in questo modo: prima di scrivere questi saggi, non credevo a 
molte delle idee che avrebbero sostenuto; quando li ho scritti, 
credevo in ciò che stavo scrivendo; in seguito, ho finito, ancora 
una volta, per non credere ad alcune di quelle idee – ma da una 
prospettiva diversa, che incorpora e si nutre di quanto c’è di 
vero nelle argomentazioni dei miei saggi. L’attività critica si è 
rivelata un atto di liberazione, oltre che di espressione, intellet-
13
tuale. Ho l’impressione non tanto di aver risolto un certo nume-
ro di problemi che mi inquietavano e mi affascinavano, quanto 
di averli prosciugati. Ma la mia è senza dubbio un’illusione. I 
problemi restano, e ad altre persone curiose e riflessive resterà 
molto da dire sul loro conto, e forse questa raccolta di recenti 
considerazioni sull’arte potrà essere utile in tal senso.
“Santo Genet di Sartre”, “La morte della tragedia”, “Natha-
lie Sarraute e il romanzo”, “A teatro, ecc.”, “Note sul ‘Camp’”, 
“Marat/Sade/Artaud” e “Sullo stile” sono stati originariamen-
te pubblicati in Partisan Review; “Simone Weil”, “I Taccuini 
di Camus”, “Età d’uomo di Michel Leiris”, “L’antropologo 
come eroe” e “Ionesco” in New York Review of Books; “La 
critica letteraria di György Lukács” e “Riflessioni sul Vica-
rio” in Book Week; “Contro l’interpretazione” in Evergreen 
Review; “Una fede senza contenuti”, “Le sofferenze esempla-
ri dell’artista” e “Gli happening: un’arte di giustapposizioni 
radicali” in The Second Coming; “Vivre sa vie di Godard” in 
Moviegoer; “Una cultura e la nuova sensibilità” (in forma ab-
breviata) in Mademoiselle; “Flaming Creatures di Jack Smith” 
in The Nation; “Lo stile spirituale dei film di Robert Bresson” 
in The Seventh Art; “Una nota sul romanzo e il cinema” e “La 
psicoanalisi e La vita contro la morte di Norman O. Brown” in 
The Supplement (Columbia Spectator); “L’immaginazione del 
disastro” in Commentary. (Alcuni articoli sono apparsi con 
un titolo diverso). Sono grata ai direttori di queste riviste per 
avermi permesso di ripubblicarli.
È un piacere avere l’opportunità di ringraziare William Phillips 
per il generoso incoraggiamento che mi ha fornito anche quan-
do non condivideva le mie idee, Annette Michelson che in tante 
conversazioni degli ultimi sette anni ha condiviso con me il suo 
sapere e il suo gusto, e Richard Howard che mi è stato di grande 
14
aiuto, rileggendo quasi tutti i saggi e segnalandomi errori fattuali 
e stilistici.
Desidero, infine, esprimere la mia gratitudine alla Rocke-
feller Foundation che l’anno scorso mi ha concesso una borsa 
grazie a cui, per la prima volta nella mia vita, sono stata libera 
di scrivere a tempo pieno: in quel periodo ho scritto, tra le altre 
cose, alcuni dei saggi raccolti in questo libro.
S.S.
1966
*
Il traduttore ringrazia Anna Trocchi, sapiente, come sempre, 
in fase di revisione, e preziosa interlocutrice nei tempi bui in cui 
questa traduzione ha visto la luce.
P.D.
Parte i
17
Contro l’interpretazione
Il contenuto è un barlume di qualcosa, un incontro simi-
le a un lampo. È minuscolo – minuscolo, il contenuto.
Willem de Kooning, in un’intervista
Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze. Il mi-
stero del mondo è il visibile, non l’invisibile.
Oscar Wilde, in una lettera
1
La più antica esperienza dell’arte deve averne riconosciuto la 
natura incantatoria, magica: l’arte era uno strumento del rito. 
(Si vedano le pitture delle grotte di Lascaux, Altamira, Niaux, 
La Pasiega ecc.). La più antica teoria dell’arte, quelladei filo-
sofi greci, ha sostenuto che l’arte fosse mimesi, imitazione della 
realtà.
È stato allora che si è posta la peculiare questione del valore 
dell’arte. Per i termini stessi in cui è formulata, infatti, la teoria 
mimetica sfida l’arte a giustificare se stessa.
Platone, che enunciò la teoria, pare averlo fatto al fine di 
stabilire che il valore dell’arte era dubbio. Poiché egli consi-
derava anche gli oggetti materiali di uso comune come oggetti 
mimetici, imitazioni di forme o strutture trascendenti, perfino il 
miglior dipinto di un letto poteva essere soltanto l’“imitazione 
di un’imitazione”. Per Platone, l’arte non è né particolarmente 
utile (un letto dipinto non serve a dormirci sopra), né, in senso 
stretto, veritiera. E gli argomenti di Aristotele in difesa dell’arte 
non mettono davvero in dubbio l’idea di Platone secondo cui 
18
ogni forma d’arte è un elaborato trompe-l’œil e, perciò, una 
menzogna. Aristotele, però, contesta l’idea che l’arte sia inutile: 
menzognera o meno, per lui l’arte ha un certo valore perché è 
una forma di terapia. In fin dei conti l’arte è utile, medicalmen-
te utile, controbatte, poiché purifica dalle emozioni pericolose 
che essa stessa ha suscitato.
Per Platone e Aristotele, la teoria mimetica si accompagna al 
presupposto che l’arte sia sempre figurativa. I propugnatori di tale 
teoria, tuttavia, non devono inevitabilmente ignorare l’arte decora-
tiva o astratta. L’erronea convinzione che l’arte sia necessariamen-
te una forma di “realismo” può essere rettificata o abbandonata 
senza oltrepassare l’orizzonte problematico della teoria mimetica.
Il fatto è che in Occidente la coscienza dell’arte e le riflessioni 
che essa ha ispirato sono sempre rimaste all’interno dei confini 
tracciati dalla teoria greca dell’arte come mimesi o rappresenta-
zione. È a causa di questa teoria che l’arte in quanto tale – a pre-
scindere da ogni singola opera d’arte – diventa problematica, e 
necessita di una difesa. E la difesa dell’arte ha generato sia la 
singolare concezione secondo cui quello che abbiamo imparato 
a chiamare “forma” è separato da ciò che abbiamo imparato a 
chiamare “contenuto”, sia la benintenzionata strategia che ren-
de essenziale il contenuto e accessoria la forma.
Anche in tempi moderni, quando la maggior parte degli arti-
sti e dei critici ha abbandonato la teoria dell’arte come rappre-
sentazione di una realtà esterna a favore della teoria dell’arte 
come espressione della soggettività, l’assunto principale della 
teoria mimetica perdura ancora. Sia che concepiamo l’opera 
d’arte secondo un modello pittorico (l’arte come raffigurazio-
ne della realtà), sia secondo un modello espressivo (l’arte come 
espressione dell’artista), il contenuto, infatti, resta prioritario. 
Con il tempo può variare, per cui ai nostri giorni è forse meno 
figurativo, meno trasparentemente realistico. Ma si continua a 
19
presupporre che un’opera d’arte sia il suo contenuto. Oppure, 
come si suole affermare oggi, che un’opera d’arte, per definizio-
ne, dica qualcosa. (“x dice che…”, “x cerca di dire che…”, “x 
ha detto che…” ecc. ecc.).
2
Nessuno di noi potrà mai ritrovare quell’età dell’innocenza 
anteriore a ogni teoria, in cui l’arte non aveva alcun bisogno 
di giustificarsi, né ci si chiedeva cosa dicesse un’opera d’arte, 
perché si sapeva (o si credeva di sapere) cosa facesse. Finché 
avremo una coscienza, saremo costretti a dedicarci al compito 
di difendere l’arte. Possiamo soltanto contestare questo o quel 
mezzo di difesa. O meglio, abbiamo l’obbligo di abbandonare 
ogni mezzo di difesa e giustificazione dell’arte che sia diventato 
particolarmente ottuso, gravoso o insensibile rispetto alle esi-
genze e alle pratiche contemporanee.
È questo il caso, oggi, dell’idea stessa di contenuto. Quale 
che sia stata in passato, oggi tale idea è perlopiù un ostacolo, un 
fastidio, un sottile, ma non troppo, filisteismo.
Per quanto possa sembrare che i recenti sviluppi di molte 
arti ci abbiano distolto dall’idea che un’opera d’arte sia prima-
riamente il suo contenuto, questa idea continua a esercitare una 
straordinaria egemonia. Ciò accade, a mio giudizio, perché è 
perpetuata nella forma di un certo approccio alle opere d’arte, 
profondamente radicato in quasi tutti coloro che prendono sul 
serio l’arte. L’eccessivo risalto attribuito all’idea di contenuto, 
infatti, comporta il perenne, e mai conchiuso, progetto dell’in-
terpretazione. E, per converso, l’abitudine di accostarsi alle 
opere d’arte per interpretarle alimenta l’illusione che abbiano 
realmente un contenuto.
20
3
Ovviamente, non mi riferisco all’interpretazione nell’accezione 
più ampia del termine, quella in cui Nietzsche afferma (a ragion 
veduta) che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Per inter-
pretazione intendo qui un consapevole processo mentale che 
illustra un certo codice, certe “regole” interpretative.
Applicata all’arte, l’interpretazione prevede lo stralcio di una 
serie di elementi (x, y, z, e così via) dall’insieme dell’opera. Il 
compito dell’interpretazione è, in pratica, un compito di tra-
duzione. L’interprete afferma: non vedete che x in realtà è – o 
in realtà significa – a? Che y è in realtà b? Che z è in realtà c?
Quali circostanze hanno potuto dar luogo a questo singola-
re progetto di trasformazione dei testi? La storia ci fornisce i 
materiali per darci una risposta. L’interpretazione fece la sua 
prima comparsa nella cultura della tarda antichità classica, 
quando la forza e l’attendibilità del mito furono minate dalla 
visione “realistica” del mondo introdotta dal progresso scien-
tifico. Una volta posto il problema che ha ossessionato la co-
scienza post-mitica – quello del decoro dei simboli religiosi –, 
i testi antichi non furono più accettabili nella loro forma origi-
naria. Si fece pertanto ricorso all’interpretazione per riconci-
liarli con i bisogni “moderni”. Così gli stoici, per conformarsi 
all’idea che gli dèi dovessero essere morali, eliminarono at-
traverso l’allegoria le caratteristiche indecenti che nell’epica 
omerica contraddistinguevano Zeus e il suo turbolento clan. 
Attraverso l’adulterio commesso da Zeus con Latona, spiega-
rono, Omero in realtà alludeva all’unione tra forza e saggezza. 
Nella stessa vena, Filone d’Alessandria interpretò come pa-
radigmi spirituali le fattuali narrazioni storiche della Bibbia 
ebraica. La storia dell’esodo dall’Egitto, dei quarant’anni di 
peregrinazione nel deserto e dell’arrivo nella Terra promessa, 
21
affermò, era in realtà un’allegoria dell’emancipazione, delle 
tribolazioni e della liberazione finale dell’anima individuale. 
L’interpretazione, perciò, presuppone una discrepanza tra il 
significato evidente di un testo e le esigenze (posteriori) dei 
lettori. E cerca di risolverla. Per qualche ragione, un testo è 
diventato inaccettabile; e, tuttavia, non può essere rifiutato. 
L’interpretazione è una strategia radicale che consente di con-
servare un testo antico, considerato troppo prezioso per po-
terlo ripudiare, rimodernandolo. Senza spingersi fino a can-
cellarlo o a riscriverlo, l’interprete lo altera. Ma, non poten-
do ammetterlo, pretende soltanto di averlo reso intelligibile, 
rivelandone il vero significato. Per quanto alterino un testo 
(un altro famigerato esempio è costituito dalle interpretazioni 
“spirituali”, rabbiniche e cristiane, di un’opera chiaramente 
erotica come il Cantico dei cantici), gli interpreti devono pre-
tendere di leggervi un significato già presente.
Ai giorni nostri, tuttavia, l’interpretazione è ancora più com-
plessa. Il fervore contemporaneo per il progetto dell’interpre-
tazione è spesso motivato non dalla reverenza nei confronti di 
un testo problematico (dietro cui può celarsi un’aggressione), 
bensì da una palese aggressività, da un disprezzo per le appa-
renze. L’antico stile interpretativo era tenace, ma rispettoso; 
erigeva un altro significato al di sopra di quello letterale. Lo 
stile interpretativo moderno dissotterra e,dissotterrando, di-
strugge; scava “dietro” il testo, alla ricerca del vero significato 
recondito. Le dottrine moderne più celebri e influenti, quelle 
di Marx e Freud, sono in realtà complessi sistemi ermeneutici, 
teorie interpretative aggressive e irriverenti. Tutti i fenomeni os-
servabili sono classificabili, secondo la formulazione di Freud, 
come contenuto manifesto. Questo contenuto manifesto deve 
essere esplorato e poi messo da parte per trovare il vero signifi-
cato – il contenuto latente – sottostante. Tutto diventa occasione 
22
di interpretazione: per Marx, gli avvenimenti sociali, come le 
rivoluzioni e le guerre; per Freud, sia gli avvenimenti della vita 
individuale (come i sintomi nevrotici e i lapsus), sia i testi (come 
i sogni o le opere d’arte). Secondo Marx e Freud, questi av-
venimenti sono intelligibili solo in apparenza. In realtà, senza 
un’interpretazione non hanno alcun significato. Comprendere 
è interpretare. E interpretare è riformulare un fenomeno e, di 
fatto, trovarne un equivalente. L’interpretazione, perciò, non è 
(come in molti presumono) un valore assoluto, un atto mentale 
che si colloca nella sfera atemporale delle facoltà umane. L’in-
terpretazione deve essere a sua volta valutata alla luce di una 
visione storica della coscienza umana. In certi contesti culturali 
è un atto liberatorio, è un modo per emendare, riconsiderare ed 
eludere un passato ormai morto. In altri è invece reazionaria, 
insolente, vile e soffocante.
4
La nostra è una di quelle epoche in cui il progetto dell’interpre-
tazione è in genere reazionario, soffocante. Al pari dei gas di 
scarico delle automobili e dell’industria pesante che appestano 
l’atmosfera urbana, oggi gli effluvi prodotti dalle interpretazio-
ni dell’arte avvelenano la nostra sensibilità. In una cultura il cui 
dilemma paradigmatico è l’ipertrofia dell’intelletto a scapito 
dell’energia e della sensualità, l’interpretazione è la vendetta 
dell’intelletto sull’arte.
Ma c’è di più: è la vendetta dell’intelletto sul mondo. Inter-
pretare vuol dire depauperare, svuotare il mondo – al fine di 
istituire un mondo-ombra di “significati”. Vuol dire trasforma-
re il mondo in questo mondo. (“Questo mondo!” Come se ce 
ne fossero altri).
23
Il mondo, il nostro mondo, è già fin troppo svuotato, depau-
perato. Facciamola finita con tutti i suoi duplicati, finché non 
ricominceremo a esperire con maggiore immediatezza ciò che 
abbiamo.
5
Nella maggior parte degli esempi moderni, l’interpretazione 
equivale al rifiuto filisteo di lasciare in pace l’opera d’arte. La 
vera arte ha il potere di innervosirci. Riducendo un’opera d’arte 
al suo contenuto, e poi interpretando soltanto quello, la si ad-
domestica. L’interpretazione rende l’arte gestibile, malleabile.
Il filisteismo interpretativo è più imperante nella letteratura 
che in qualsiasi altra arte. Da decenni, ormai, i critici letterari 
hanno capito che il loro compito consiste nel tradurre in qual-
cos’altro gli elementi di una poesia, di un dramma, di un ro-
manzo o di un racconto. A volte gli scrittori sono così a disagio 
davanti alla nuda forza della loro arte che inseriscono all’in-
terno delle proprie opere – sia pure con una certa timidezza, 
con un tocco di raffinata ironia – un’interpretazione chiara ed 
esplicita. Thomas Mann, da questo punto di vista, è un autore 
estremamente collaborativo. Ma quando gli autori sono più re-
frattari, i critici sono ben lieti di assumersene l’incarico.
L’opera di Kafka, per esempio, è stata sottoposta a uno stu-
pro sistematico da almeno tre eserciti di interpreti. Chi leg-
ge in Kafka un’allegoria sociale vede i suoi scritti come casi 
di studio sulla frustrazione e l’insensatezza della burocrazia 
moderna, e sul suo inevitabile sbocco nel totalitarismo. Chi 
legge in Kafka un’allegoria psicoanalitica vi vede disperate ri-
velazioni della sua paura del padre, delle sue ansie di castra-
zione, del suo senso di impotenza, della sua dipendenza dai 
24
sogni. Chi legge in Kafka un’allegoria religiosa mostra come, 
nel Castello, K. cerchi di guadagnarsi l’accesso al paradiso, e 
come, nel Processo, Joseph K. sia giudicato dall’inesorabile e 
misteriosa giustizia di Dio… Un’altra opera che ha attratto 
gli interpreti come sanguisughe è quella di Samuel Beckett. I 
delicati drammi beckettiani della coscienza chiusa in se stessa 
– ridotta all’essenziale, isolata, e spesso rappresentata in uno 
stato di immobilità fisica – sono letti come denunce dell’alie-
nazione dell’uomo moderno da Dio o dal senso della realtà, o 
come un’allegoria della psicopatologia.
Proust, Joyce, Faulkner, Rilke, Lawrence, Gide… si potreb-
be continuare a citare uno scrittore dopo l’altro; è interminabile 
l’elenco di coloro attorno ai quali si sono formate spesse incro-
stazioni interpretative. Va notato, tuttavia, che l’interpretazione 
non è semplicemente un omaggio che la mediocrità rivolge al 
genio. È, in realtà, il modo moderno di comprendere qualcosa, 
e si applica a opere di ogni qualità. Così, dalle note di regia di 
Elia Kazan su Un tram chiamato desiderio appare evidente che, 
per portare in scena il dramma, Kazan ha dovuto scoprire che 
Stanley Kowalski rappresenta la barbarie sensuale e vendicativa 
da cui è travolta la nostra cultura, mentre Blanche Du Bois è la 
civiltà occidentale, la poesia, gli abiti raffinati, le luci soffuse, i 
sentimenti squisiti e così via – sebbene un po’ logorati dall’uso, 
a dire il vero. In tal modo il vigoroso melodramma psicologico 
di Tennessee Williams diviene comprensibile: parla di qualco-
sa, del declino della civiltà occidentale. A quanto pare, se fosse 
rimasto un dramma su un avvenente bruto chiamato Stanley 
Kowalski e una bellezza trasandata e appassita chiamata Blanche 
Du Bois, non sarebbe stato accettabile.
25
6
Non ha alcuna importanza se gli artisti vogliono o meno che 
le loro opere siano interpretate. Forse Tennessee Williams, da 
parte sua, pensa che il Tram parli di ciò di cui Kazan pensa che 
parli. Può darsi che per i suoi film Il sangue di un poeta e Orfeo 
Cocteau desiderasse le elaborate letture che ne sono state pro-
poste, in termini di simbolismo freudiano e di critica sociale. 
Ma di certo il pregio di tali opere non sta nel loro “significato”. 
Anzi, è proprio nella misura in cui suggeriscono significati così 
portentosi che i drammi di Williams e i film di Cocteau sono 
difettosi, falsi, forzati, poco convincenti.
Dalle interviste si evince con chiarezza che Resnais e Robbe-
Grillet hanno deliberatamente concepito L’anno scorso a Ma-
rienbad in modo che potesse accogliere una molteplicità di 
interpretazioni, tutte ugualmente plausibili. Bisognerebbe resi-
stere, però, alla tentazione di interpretare il film. Ciò che conta 
in Marienbad è la pura, intraducibile immediatezza sensuale di 
certe immagini, e le soluzioni rigorose, anche se limitate, fornite 
ad alcuni problemi di forma cinematografica.
Allo stesso modo, è possibile che nelle intenzioni di Ingmar 
Bergman il fragoroso carro armato che, nel Silenzio, avanza di 
notte su una strada deserta fosse un simbolo fallico. Ma, se così 
è, si tratta di un’idea sciocca. (“Non fidatevi mai dell’artista. 
Fidatevi del racconto”, ha scritto Lawrence). Se la si considera 
dal punto di vista della semplice oggettualità, come un imme-
diato equivalente sensoriale degli avvenimenti misteriosi che 
hanno luogo, repentini e blindati, nell’albergo, quella sequenza 
è uno dei momenti più folgoranti del film. Chi va alla ricerca di 
un’interpretazione freudiana del carro armato non fa che espri-
mere la propria incapacità di rispondere a quanto si vede sullo 
schermo.

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