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Susan Sontag Contro l’interpretazione e altri saggi Traduzione di Paolo Dilonardo Con una nota di Daniele Giglioli nottetempo Indice Una nota e qualche ringraziamento 11 Parte i Contro l’interpretazione 17 Sullo stile 33 Parte ii Le sofferenze esemplari dell’artista 63 Simone Weil 75 I Taccuini di Camus 79 Età d’uomo di Michel Leiris 91 L’antropologo come eroe 101 La critica letteraria di György Lukács 117 Santo Genet di Sartre 131 Nathalie Sarraute e il romanzo 139 Parte iii Ionesco 157 Riflessioni sul Vicario 169 La morte della tragedia 179 A teatro, ecc. 189 Marat/Sade/Artaud 219 Parte iv Lo stile spirituale dei film di Robert Bresson 237 Vivre sa vie di Godard 261 L’immaginazione del disastro 279 Flaming Creatures di Jack Smith 301 Muriel di Resnais 309 Una nota sul romanzo e il cinema 321 Parte v Una fede senza contenuti 329 La psicoanalisi e La vita contro la morte 339 di Norman O. Brown Gli happening: un’arte di giustapposizioni radicali 349 Note sul “Camp” 365 Una cultura e la nuova sensibilità 387 Postfazione: Trent’anni dopo… 401 Appendice bibliografica 409 di Paolo Dilonardo La scuola dell’entusiasmo. Susan Sontag, 413 ovvero la critica come lezione di gioia di Daniele Giglioli Per Paul Thek 11 Una nota e qualche ringraziamento Le recensioni e gli articoli raccolti in questo volume costituiscono gran parte del lavoro critico che ho svolto dal 1962 al 1965, un periodo della mia vita nettamente definito. All’inizio del 1962 ho terminato il mio primo romanzo, Il benefattore; alla fine del 1965 ho cominciato a scriverne un secondo. L’energia, e le ansie, che ho riversato nei saggi critici hanno avuto un inizio e una fine. Quella stagione di ricerca, riflessioni e scoperte mi era sembrata, per certi versi, già lontana al momento della prima pubblicazione di Contro l’interpretazione e lo sembra ancor più adesso che la raccolta sta per essere ristampata in edizione economica. Benché nei saggi io parli diffusamente di specifiche opere d’arte e, sia pure in modo implicito, dei compiti del critico, sono consapevole che pochi dei testi qui riuniti possono es- sere considerati veri e propri saggi critici. Con l’eccezione di alcuni articoli giornalistici, i saggi potrebbero, in gran parte, essere definiti metacritici – se tale definizione non sembrasse troppo pretenziosa. Ho scritto, con appassionata parzialità, di questioni che mi sono state suggerite da opere d’arte, perlopiù contemporanee, appartenenti a generi diversi: volevo enun- ciare e illustrare i presupposti teorici sottesi a gusti e a giudi- zi particolari. Per quanto non mi fossi proposta di esplicitare una presa di “posizione” sulle arti o sulla modernità, mi è sem- brato che una sorta di posizione di fondo abbia preso forma e si sia espressa con crescente impellenza, quali che fossero le opere di cui mi interessavo. 12 Oggi dissento da alcune delle cose che ho scritto, ma non si tratta di un tipo di ripensamenti che renda possibili cambia- menti parziali o revisioni. Anche se credo di aver sopravvaluta- to o sottovalutato i meriti di alcune delle opere che ho discusso, il mio attuale dissenso ha poco a che fare con singoli mutamenti di giudizio. In ogni caso, l’eventuale valore di questi saggi, e la misura in cui sono qualcosa di più di una semplice illustrazione dell’evoluzione della mia sensibilità, non dipendono dalle spe- cifiche valutazioni formulate, bensì dall’interesse dei problemi che sollevano. In fin dei conti, non sono interessata ad assegna- re voti alle opere d’arte (ed è questa la ragione per cui in genere ho evitato di scrivere di opere che non ammiravo). Ho scritto con lo spirito di parte di un’entusiasta – e, così adesso mi pare, con una certa ingenuità. Non mi rendevo conto dell’enorme impatto che, in un’epoca di “comunicazione” istantanea, può avere chi scrive di attività artistiche nuove o poco conosciute. Non mi rendevo conto – non l’avevo ancora dolorosamente compreso – della rapidità con cui un corposo saggio pubblicato sulla Partisan Review può trasformarsi in uno “Scelto per voi” su Time. Nonostante il mio tono esortatorio, non intendevo condurre nessuno, eccetto me stessa, verso una Terra promessa. Per quel che mi concerne, i saggi hanno svolto la loro fun- zione. Vedo il mondo in modo diverso, con uno sguardo più fresco; la concezione dei compiti che mi propongo in quanto romanziera è radicalmente mutata. Potrei descrivere il processo in questo modo: prima di scrivere questi saggi, non credevo a molte delle idee che avrebbero sostenuto; quando li ho scritti, credevo in ciò che stavo scrivendo; in seguito, ho finito, ancora una volta, per non credere ad alcune di quelle idee – ma da una prospettiva diversa, che incorpora e si nutre di quanto c’è di vero nelle argomentazioni dei miei saggi. L’attività critica si è rivelata un atto di liberazione, oltre che di espressione, intellet- 13 tuale. Ho l’impressione non tanto di aver risolto un certo nume- ro di problemi che mi inquietavano e mi affascinavano, quanto di averli prosciugati. Ma la mia è senza dubbio un’illusione. I problemi restano, e ad altre persone curiose e riflessive resterà molto da dire sul loro conto, e forse questa raccolta di recenti considerazioni sull’arte potrà essere utile in tal senso. “Santo Genet di Sartre”, “La morte della tragedia”, “Natha- lie Sarraute e il romanzo”, “A teatro, ecc.”, “Note sul ‘Camp’”, “Marat/Sade/Artaud” e “Sullo stile” sono stati originariamen- te pubblicati in Partisan Review; “Simone Weil”, “I Taccuini di Camus”, “Età d’uomo di Michel Leiris”, “L’antropologo come eroe” e “Ionesco” in New York Review of Books; “La critica letteraria di György Lukács” e “Riflessioni sul Vica- rio” in Book Week; “Contro l’interpretazione” in Evergreen Review; “Una fede senza contenuti”, “Le sofferenze esempla- ri dell’artista” e “Gli happening: un’arte di giustapposizioni radicali” in The Second Coming; “Vivre sa vie di Godard” in Moviegoer; “Una cultura e la nuova sensibilità” (in forma ab- breviata) in Mademoiselle; “Flaming Creatures di Jack Smith” in The Nation; “Lo stile spirituale dei film di Robert Bresson” in The Seventh Art; “Una nota sul romanzo e il cinema” e “La psicoanalisi e La vita contro la morte di Norman O. Brown” in The Supplement (Columbia Spectator); “L’immaginazione del disastro” in Commentary. (Alcuni articoli sono apparsi con un titolo diverso). Sono grata ai direttori di queste riviste per avermi permesso di ripubblicarli. È un piacere avere l’opportunità di ringraziare William Phillips per il generoso incoraggiamento che mi ha fornito anche quan- do non condivideva le mie idee, Annette Michelson che in tante conversazioni degli ultimi sette anni ha condiviso con me il suo sapere e il suo gusto, e Richard Howard che mi è stato di grande 14 aiuto, rileggendo quasi tutti i saggi e segnalandomi errori fattuali e stilistici. Desidero, infine, esprimere la mia gratitudine alla Rocke- feller Foundation che l’anno scorso mi ha concesso una borsa grazie a cui, per la prima volta nella mia vita, sono stata libera di scrivere a tempo pieno: in quel periodo ho scritto, tra le altre cose, alcuni dei saggi raccolti in questo libro. S.S. 1966 * Il traduttore ringrazia Anna Trocchi, sapiente, come sempre, in fase di revisione, e preziosa interlocutrice nei tempi bui in cui questa traduzione ha visto la luce. P.D. Parte i 17 Contro l’interpretazione Il contenuto è un barlume di qualcosa, un incontro simi- le a un lampo. È minuscolo – minuscolo, il contenuto. Willem de Kooning, in un’intervista Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze. Il mi- stero del mondo è il visibile, non l’invisibile. Oscar Wilde, in una lettera 1 La più antica esperienza dell’arte deve averne riconosciuto la natura incantatoria, magica: l’arte era uno strumento del rito. (Si vedano le pitture delle grotte di Lascaux, Altamira, Niaux, La Pasiega ecc.). La più antica teoria dell’arte, quelladei filo- sofi greci, ha sostenuto che l’arte fosse mimesi, imitazione della realtà. È stato allora che si è posta la peculiare questione del valore dell’arte. Per i termini stessi in cui è formulata, infatti, la teoria mimetica sfida l’arte a giustificare se stessa. Platone, che enunciò la teoria, pare averlo fatto al fine di stabilire che il valore dell’arte era dubbio. Poiché egli consi- derava anche gli oggetti materiali di uso comune come oggetti mimetici, imitazioni di forme o strutture trascendenti, perfino il miglior dipinto di un letto poteva essere soltanto l’“imitazione di un’imitazione”. Per Platone, l’arte non è né particolarmente utile (un letto dipinto non serve a dormirci sopra), né, in senso stretto, veritiera. E gli argomenti di Aristotele in difesa dell’arte non mettono davvero in dubbio l’idea di Platone secondo cui 18 ogni forma d’arte è un elaborato trompe-l’œil e, perciò, una menzogna. Aristotele, però, contesta l’idea che l’arte sia inutile: menzognera o meno, per lui l’arte ha un certo valore perché è una forma di terapia. In fin dei conti l’arte è utile, medicalmen- te utile, controbatte, poiché purifica dalle emozioni pericolose che essa stessa ha suscitato. Per Platone e Aristotele, la teoria mimetica si accompagna al presupposto che l’arte sia sempre figurativa. I propugnatori di tale teoria, tuttavia, non devono inevitabilmente ignorare l’arte decora- tiva o astratta. L’erronea convinzione che l’arte sia necessariamen- te una forma di “realismo” può essere rettificata o abbandonata senza oltrepassare l’orizzonte problematico della teoria mimetica. Il fatto è che in Occidente la coscienza dell’arte e le riflessioni che essa ha ispirato sono sempre rimaste all’interno dei confini tracciati dalla teoria greca dell’arte come mimesi o rappresenta- zione. È a causa di questa teoria che l’arte in quanto tale – a pre- scindere da ogni singola opera d’arte – diventa problematica, e necessita di una difesa. E la difesa dell’arte ha generato sia la singolare concezione secondo cui quello che abbiamo imparato a chiamare “forma” è separato da ciò che abbiamo imparato a chiamare “contenuto”, sia la benintenzionata strategia che ren- de essenziale il contenuto e accessoria la forma. Anche in tempi moderni, quando la maggior parte degli arti- sti e dei critici ha abbandonato la teoria dell’arte come rappre- sentazione di una realtà esterna a favore della teoria dell’arte come espressione della soggettività, l’assunto principale della teoria mimetica perdura ancora. Sia che concepiamo l’opera d’arte secondo un modello pittorico (l’arte come raffigurazio- ne della realtà), sia secondo un modello espressivo (l’arte come espressione dell’artista), il contenuto, infatti, resta prioritario. Con il tempo può variare, per cui ai nostri giorni è forse meno figurativo, meno trasparentemente realistico. Ma si continua a 19 presupporre che un’opera d’arte sia il suo contenuto. Oppure, come si suole affermare oggi, che un’opera d’arte, per definizio- ne, dica qualcosa. (“x dice che…”, “x cerca di dire che…”, “x ha detto che…” ecc. ecc.). 2 Nessuno di noi potrà mai ritrovare quell’età dell’innocenza anteriore a ogni teoria, in cui l’arte non aveva alcun bisogno di giustificarsi, né ci si chiedeva cosa dicesse un’opera d’arte, perché si sapeva (o si credeva di sapere) cosa facesse. Finché avremo una coscienza, saremo costretti a dedicarci al compito di difendere l’arte. Possiamo soltanto contestare questo o quel mezzo di difesa. O meglio, abbiamo l’obbligo di abbandonare ogni mezzo di difesa e giustificazione dell’arte che sia diventato particolarmente ottuso, gravoso o insensibile rispetto alle esi- genze e alle pratiche contemporanee. È questo il caso, oggi, dell’idea stessa di contenuto. Quale che sia stata in passato, oggi tale idea è perlopiù un ostacolo, un fastidio, un sottile, ma non troppo, filisteismo. Per quanto possa sembrare che i recenti sviluppi di molte arti ci abbiano distolto dall’idea che un’opera d’arte sia prima- riamente il suo contenuto, questa idea continua a esercitare una straordinaria egemonia. Ciò accade, a mio giudizio, perché è perpetuata nella forma di un certo approccio alle opere d’arte, profondamente radicato in quasi tutti coloro che prendono sul serio l’arte. L’eccessivo risalto attribuito all’idea di contenuto, infatti, comporta il perenne, e mai conchiuso, progetto dell’in- terpretazione. E, per converso, l’abitudine di accostarsi alle opere d’arte per interpretarle alimenta l’illusione che abbiano realmente un contenuto. 20 3 Ovviamente, non mi riferisco all’interpretazione nell’accezione più ampia del termine, quella in cui Nietzsche afferma (a ragion veduta) che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Per inter- pretazione intendo qui un consapevole processo mentale che illustra un certo codice, certe “regole” interpretative. Applicata all’arte, l’interpretazione prevede lo stralcio di una serie di elementi (x, y, z, e così via) dall’insieme dell’opera. Il compito dell’interpretazione è, in pratica, un compito di tra- duzione. L’interprete afferma: non vedete che x in realtà è – o in realtà significa – a? Che y è in realtà b? Che z è in realtà c? Quali circostanze hanno potuto dar luogo a questo singola- re progetto di trasformazione dei testi? La storia ci fornisce i materiali per darci una risposta. L’interpretazione fece la sua prima comparsa nella cultura della tarda antichità classica, quando la forza e l’attendibilità del mito furono minate dalla visione “realistica” del mondo introdotta dal progresso scien- tifico. Una volta posto il problema che ha ossessionato la co- scienza post-mitica – quello del decoro dei simboli religiosi –, i testi antichi non furono più accettabili nella loro forma origi- naria. Si fece pertanto ricorso all’interpretazione per riconci- liarli con i bisogni “moderni”. Così gli stoici, per conformarsi all’idea che gli dèi dovessero essere morali, eliminarono at- traverso l’allegoria le caratteristiche indecenti che nell’epica omerica contraddistinguevano Zeus e il suo turbolento clan. Attraverso l’adulterio commesso da Zeus con Latona, spiega- rono, Omero in realtà alludeva all’unione tra forza e saggezza. Nella stessa vena, Filone d’Alessandria interpretò come pa- radigmi spirituali le fattuali narrazioni storiche della Bibbia ebraica. La storia dell’esodo dall’Egitto, dei quarant’anni di peregrinazione nel deserto e dell’arrivo nella Terra promessa, 21 affermò, era in realtà un’allegoria dell’emancipazione, delle tribolazioni e della liberazione finale dell’anima individuale. L’interpretazione, perciò, presuppone una discrepanza tra il significato evidente di un testo e le esigenze (posteriori) dei lettori. E cerca di risolverla. Per qualche ragione, un testo è diventato inaccettabile; e, tuttavia, non può essere rifiutato. L’interpretazione è una strategia radicale che consente di con- servare un testo antico, considerato troppo prezioso per po- terlo ripudiare, rimodernandolo. Senza spingersi fino a can- cellarlo o a riscriverlo, l’interprete lo altera. Ma, non poten- do ammetterlo, pretende soltanto di averlo reso intelligibile, rivelandone il vero significato. Per quanto alterino un testo (un altro famigerato esempio è costituito dalle interpretazioni “spirituali”, rabbiniche e cristiane, di un’opera chiaramente erotica come il Cantico dei cantici), gli interpreti devono pre- tendere di leggervi un significato già presente. Ai giorni nostri, tuttavia, l’interpretazione è ancora più com- plessa. Il fervore contemporaneo per il progetto dell’interpre- tazione è spesso motivato non dalla reverenza nei confronti di un testo problematico (dietro cui può celarsi un’aggressione), bensì da una palese aggressività, da un disprezzo per le appa- renze. L’antico stile interpretativo era tenace, ma rispettoso; erigeva un altro significato al di sopra di quello letterale. Lo stile interpretativo moderno dissotterra e,dissotterrando, di- strugge; scava “dietro” il testo, alla ricerca del vero significato recondito. Le dottrine moderne più celebri e influenti, quelle di Marx e Freud, sono in realtà complessi sistemi ermeneutici, teorie interpretative aggressive e irriverenti. Tutti i fenomeni os- servabili sono classificabili, secondo la formulazione di Freud, come contenuto manifesto. Questo contenuto manifesto deve essere esplorato e poi messo da parte per trovare il vero signifi- cato – il contenuto latente – sottostante. Tutto diventa occasione 22 di interpretazione: per Marx, gli avvenimenti sociali, come le rivoluzioni e le guerre; per Freud, sia gli avvenimenti della vita individuale (come i sintomi nevrotici e i lapsus), sia i testi (come i sogni o le opere d’arte). Secondo Marx e Freud, questi av- venimenti sono intelligibili solo in apparenza. In realtà, senza un’interpretazione non hanno alcun significato. Comprendere è interpretare. E interpretare è riformulare un fenomeno e, di fatto, trovarne un equivalente. L’interpretazione, perciò, non è (come in molti presumono) un valore assoluto, un atto mentale che si colloca nella sfera atemporale delle facoltà umane. L’in- terpretazione deve essere a sua volta valutata alla luce di una visione storica della coscienza umana. In certi contesti culturali è un atto liberatorio, è un modo per emendare, riconsiderare ed eludere un passato ormai morto. In altri è invece reazionaria, insolente, vile e soffocante. 4 La nostra è una di quelle epoche in cui il progetto dell’interpre- tazione è in genere reazionario, soffocante. Al pari dei gas di scarico delle automobili e dell’industria pesante che appestano l’atmosfera urbana, oggi gli effluvi prodotti dalle interpretazio- ni dell’arte avvelenano la nostra sensibilità. In una cultura il cui dilemma paradigmatico è l’ipertrofia dell’intelletto a scapito dell’energia e della sensualità, l’interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte. Ma c’è di più: è la vendetta dell’intelletto sul mondo. Inter- pretare vuol dire depauperare, svuotare il mondo – al fine di istituire un mondo-ombra di “significati”. Vuol dire trasforma- re il mondo in questo mondo. (“Questo mondo!” Come se ce ne fossero altri). 23 Il mondo, il nostro mondo, è già fin troppo svuotato, depau- perato. Facciamola finita con tutti i suoi duplicati, finché non ricominceremo a esperire con maggiore immediatezza ciò che abbiamo. 5 Nella maggior parte degli esempi moderni, l’interpretazione equivale al rifiuto filisteo di lasciare in pace l’opera d’arte. La vera arte ha il potere di innervosirci. Riducendo un’opera d’arte al suo contenuto, e poi interpretando soltanto quello, la si ad- domestica. L’interpretazione rende l’arte gestibile, malleabile. Il filisteismo interpretativo è più imperante nella letteratura che in qualsiasi altra arte. Da decenni, ormai, i critici letterari hanno capito che il loro compito consiste nel tradurre in qual- cos’altro gli elementi di una poesia, di un dramma, di un ro- manzo o di un racconto. A volte gli scrittori sono così a disagio davanti alla nuda forza della loro arte che inseriscono all’in- terno delle proprie opere – sia pure con una certa timidezza, con un tocco di raffinata ironia – un’interpretazione chiara ed esplicita. Thomas Mann, da questo punto di vista, è un autore estremamente collaborativo. Ma quando gli autori sono più re- frattari, i critici sono ben lieti di assumersene l’incarico. L’opera di Kafka, per esempio, è stata sottoposta a uno stu- pro sistematico da almeno tre eserciti di interpreti. Chi leg- ge in Kafka un’allegoria sociale vede i suoi scritti come casi di studio sulla frustrazione e l’insensatezza della burocrazia moderna, e sul suo inevitabile sbocco nel totalitarismo. Chi legge in Kafka un’allegoria psicoanalitica vi vede disperate ri- velazioni della sua paura del padre, delle sue ansie di castra- zione, del suo senso di impotenza, della sua dipendenza dai 24 sogni. Chi legge in Kafka un’allegoria religiosa mostra come, nel Castello, K. cerchi di guadagnarsi l’accesso al paradiso, e come, nel Processo, Joseph K. sia giudicato dall’inesorabile e misteriosa giustizia di Dio… Un’altra opera che ha attratto gli interpreti come sanguisughe è quella di Samuel Beckett. I delicati drammi beckettiani della coscienza chiusa in se stessa – ridotta all’essenziale, isolata, e spesso rappresentata in uno stato di immobilità fisica – sono letti come denunce dell’alie- nazione dell’uomo moderno da Dio o dal senso della realtà, o come un’allegoria della psicopatologia. Proust, Joyce, Faulkner, Rilke, Lawrence, Gide… si potreb- be continuare a citare uno scrittore dopo l’altro; è interminabile l’elenco di coloro attorno ai quali si sono formate spesse incro- stazioni interpretative. Va notato, tuttavia, che l’interpretazione non è semplicemente un omaggio che la mediocrità rivolge al genio. È, in realtà, il modo moderno di comprendere qualcosa, e si applica a opere di ogni qualità. Così, dalle note di regia di Elia Kazan su Un tram chiamato desiderio appare evidente che, per portare in scena il dramma, Kazan ha dovuto scoprire che Stanley Kowalski rappresenta la barbarie sensuale e vendicativa da cui è travolta la nostra cultura, mentre Blanche Du Bois è la civiltà occidentale, la poesia, gli abiti raffinati, le luci soffuse, i sentimenti squisiti e così via – sebbene un po’ logorati dall’uso, a dire il vero. In tal modo il vigoroso melodramma psicologico di Tennessee Williams diviene comprensibile: parla di qualco- sa, del declino della civiltà occidentale. A quanto pare, se fosse rimasto un dramma su un avvenente bruto chiamato Stanley Kowalski e una bellezza trasandata e appassita chiamata Blanche Du Bois, non sarebbe stato accettabile. 25 6 Non ha alcuna importanza se gli artisti vogliono o meno che le loro opere siano interpretate. Forse Tennessee Williams, da parte sua, pensa che il Tram parli di ciò di cui Kazan pensa che parli. Può darsi che per i suoi film Il sangue di un poeta e Orfeo Cocteau desiderasse le elaborate letture che ne sono state pro- poste, in termini di simbolismo freudiano e di critica sociale. Ma di certo il pregio di tali opere non sta nel loro “significato”. Anzi, è proprio nella misura in cui suggeriscono significati così portentosi che i drammi di Williams e i film di Cocteau sono difettosi, falsi, forzati, poco convincenti. Dalle interviste si evince con chiarezza che Resnais e Robbe- Grillet hanno deliberatamente concepito L’anno scorso a Ma- rienbad in modo che potesse accogliere una molteplicità di interpretazioni, tutte ugualmente plausibili. Bisognerebbe resi- stere, però, alla tentazione di interpretare il film. Ciò che conta in Marienbad è la pura, intraducibile immediatezza sensuale di certe immagini, e le soluzioni rigorose, anche se limitate, fornite ad alcuni problemi di forma cinematografica. Allo stesso modo, è possibile che nelle intenzioni di Ingmar Bergman il fragoroso carro armato che, nel Silenzio, avanza di notte su una strada deserta fosse un simbolo fallico. Ma, se così è, si tratta di un’idea sciocca. (“Non fidatevi mai dell’artista. Fidatevi del racconto”, ha scritto Lawrence). Se la si considera dal punto di vista della semplice oggettualità, come un imme- diato equivalente sensoriale degli avvenimenti misteriosi che hanno luogo, repentini e blindati, nell’albergo, quella sequenza è uno dei momenti più folgoranti del film. Chi va alla ricerca di un’interpretazione freudiana del carro armato non fa che espri- mere la propria incapacità di rispondere a quanto si vede sullo schermo.
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