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Rodighiero Cinema e mito classico

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ANDREA RODIGHIERO
CINEMA E MITO CLASSICO
1. Ricognizioni: i tempi e i luoghi
In una scena di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore
(film del 1988), all’arena estiva è in programma l’Ulisse di Mario
Camerini: all’improvviso la proiezione en plein air viene interrotta da
un temporale che costringe il pubblico a cercare altrove riparo. L’in-
serto citazionistico del film di Tornatore costituisce un utile punto di
partenza per due distinte ragioni; da un lato l’omaggio alla pellicola di
Camerini (su cui avremo modo di tornare) rappresenta e insieme cele-
bra i fasti della miglior stagione mai prodottasi nel connubio tra mito
e cinema (gli anni Cinquanta-Sessanta). Dall’altro, la pioggia battente
che sancisce un anticipato e imprevisto intervallo ci suggerisce che la
vitale prosperità di tale appassionata relazione si sarebbe a un certo
punto annacquata, per lasciare spazio a più fugaci incontri.
Procedendo con ordine, nella sintetica ricostruzione che qui ci si
prefigge non andrà dimenticato che fin dalle sue prime e più speri-
mentali prove la decima musa è stata attratta da temi e percorsi narra-
tivi ispirati all’antico; accanto alle scene di vita quotidiana e ai più
moderni miti del progresso e della velocità (il treno in special modo),
in mancanza di trame forti per un genere agli albori, i personaggi del
mito greco potevano fornire storie narrativamente preordinate, come se
esse stesse rappresentassero – insieme alle gesta di grandi personaggi
del passato, alle trame di romanzi di successo e ai fatti legati alle ori-
gini del cristianesimo – una sorta di canovaccio-sceneggiatura già dis-
ponibile e pronto all’uso del mezzo cinematografico. Non mancano
perciò, anche solo a sfogliare i repertori, alcuni primi esercizi che ve-
dono impegnati i cineasti sui temi più noti. Uno dei padri del cinema,
il francese Georges Méliès, si dedica a soggetti classici tra fine Otto-
cento e inizio Novecento (come L’isola di Calipso) mentre in Italia
Giovanni Pastrone, insieme a Romano Borgnetto, manda in sala nel
1911 un film sontuoso e lungo – mezz’ora – come La caduta di Troia
(dello stesso anno è anche L’Odissea di Giuseppe De Liguoro)1.
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1 Anche la scuola americana di quegli anni, imitando gli Europei, sceglieva temi tratti dal
Se è certamente la trasposizione filmica dei grandi eventi storici
legati alla romanità repubblicana e imperiale la maniera più consueta
e di maggiore successo (vantando il più ampio numero di pellicole) per
veicolare verso il moderno l’universo degli antichi, hanno però attrat-
to l’interesse dell’industria cinematografica anche gli intrecci del mito,
e in special modo quelli della tragedia greca (eletta, come vedremo, in
particolare da registi di nicchia in pellicole generalmente di elevata
qualità). In effetti la produzione di cinema in costume di ambientazio-
ne classica trova il suo punto di partenza ideale in un prodotto di ispi-
razione storica – anche se preceduto, come detto, da moltissimo altro
materiale: Cabiria di Giovanni Pastrone (1913) non rientra a pieno
titolo nella serie delle riprese di mitologemi antichi, ma oltre a segna-
re l’inizio della fortuna sullo schermo delle lotte tra Roma e Cartagine
(che durò fino alla metà degli anni Venti), offrì il destro a Gabriele
d’Annunzio – al quale Pastrone si era rivolto per una consulenza nella
stesura delle didascalie – per battezzare un personaggio che ricompa-
rirà in anni di là da venire quale emulo dell’eroe greco per eccellenza.
Nella figura di Maciste (‘il grandissimo’), che in Cabiria incarna il
ruolo dello schiavo fedele, il cinema riconosce infatti un vero prototi-
po di prode forzuto e all’occorrenza semidivino che diventerà nel cine-
ma degli anni Cinquanta e Sessanta l’alter-ego di Ercole in pellicole di
ambientazione classicheggiante. Sono questi gli anni lungo i quali
l’Italia, non solo luogo di produzione ma anche nazione eletta a ospi-
tare il set di molti film sull’antico (la cinematografia in costume greco-
romano, il peplum), si propone come centro propulsore di un’attività
di genere senza molte pretese di qualità, che risente della battuta d’ar-
resto, subita a livello internazionale e soprattutto nel sontuoso kolossal
di marca americana, imposta dalle enormi spese – mai rientrate –
sostenute per la Cleopatra di J.L. Mankiewicz (1963). Negli ultimi de-
cenni del secolo appena trascorso, viceversa, e proprio a partire dagli
anni Sessanta, il mito rivisitato sul grande schermo assume quel grado
di autonomia narrativa e di libertà ideologica che permette di farne il
tramite per veicolare un messaggio di maggiore complessità, senza
costituire soltanto un contenitore destinato a proporre prodotti di in-
trattenimento (si pensi a Pasolini, a I cannibali di Liliana Cavani o a
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mito; non si citano, qui, che pochi titoli, ma la lista sarebbe lunga: cfr. J. Solomon, The Ancient
World in the Cinema, New Haven, Yale University Press, 2001, pp. 3 ss., e pp. 327 ss., oltre che
J.J. Clauss, A Course on Classical Mythology in Film, in «The Classical Journal», 91, 3, 1996,
pp. 287-295.
Edipo alcalde di Jorge Alí Triana, di cui sotto): impressione alla quale
è difficile sottrarsi visionando i titoli del periodo peplum.
Ciò che maggiormente si palesa in grossa parte della filmografia
degli anni Cinquanta e Sessanta è infatti una totale inaffidabilità delle
ricostruzioni mitografiche, o per meglio dire la sistematica e intenzio-
nale contaminazione di vicende eroiche ritratte in un clima di assoluta
infedeltà nei confronti del dettato delle fonti antiche. La patina classi-
cheggiante – oltre che da ambientazione e decoro – viene assicurata
proprio dalla esemplarità dei personaggi e dalla straordinarietà delle
loro imprese: Maciste (insieme a un altro eroe di nuovo conio, Ursus)
abbandona il ruolo di spalla dell’eroina e di leale servitore per trasfor-
marsi in un novello Ercole protagonista di mirabili avventure. Se in
alcuni casi l’Ellade è almeno idealmente vicina – e lo stesso valga per
la cinematografia sul figlio di Zeus e Alcmena, a partire dal fortuna-
tissimo Le fatiche di Ercole del 1957 – in altri la lontananza dal mondo
classico è sancita dall’estravaganza degli incontri e dei luoghi di am-
bientazione. A parlare sono i titoli stessi2: Maciste e la regina di Sa-
mar, Maciste nella terra dei Ciclopi, ma anche Maciste nell’inferno di
Gengis Khan; e ancora Ercole l’invincibile, Ercole contro i tiranni di
Babilonia, Ercole e la regina di Lidia, ma anche Ercole contro i figli
del sole (gli Incas), Ercole, Sansone, Maciste e Ursus gli Invincibili, e
Maciste contro i mongoli (fino alla virata del genere mitologico verso
la commedia: Totò contro Maciste, del 1962)3. Ercole e la regina di
Lidia di Pietro Francisci (del 1959: a lui si deve anche la regia de Le
fatiche di Ercole, entrambi campioni di incassi) è un buon esempio
della costanza programmatica con la quale i registi di quegli anni mira-
no all’incrocio delle fonti mitiche in funzione di un preteso aumento
del grado di avventurosità. Gli ingredienti sono i medesimi di molte
altre pellicole a tema: un eroe fortissimo accompagnato da una tenera
e dolce compagna (di norma bionda) si fa garante dei valori di giusti-
zia e civiltà contro tiranni e mostri; dopo un’immancabile fase di scac-
co o prigionia il vigore positivo del protagonista è destinato ad avere
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2 Molto spesso i titoli erano passibili di variazioni, con libera sovrapponibilità dei nomi degli
eroi: Maciste poteva diventare, ad esempio, Sansone (Solomon, The Ancient World in the
Cinema, cit., pp. 317-319).
3 Mentre in Italia si ricorre ai muscoli e a effetti speciali per magnificare la forza degli eroi
del mito, il kolossal di Hollywood ripiega su temi di ambientazione storica – come Ben Hur, del
1959, o Cleopatra – mirando piuttosto alla pompa spettacolare delle grandi scene di massa
e delle
ricostruzioni delle architetture classiche, e cercando nella fastosità di costumi e arredi un ele-
mento primario di attrattiva.
la meglio grazie a una prova di coraggio (sul modello delle canoniche
fatiche: molti di questi schemi saranno ereditati dal film western e dal-
l’epica di frontiera)4. Non appaia, tale sintetica schematicità, come
segno di un approccio riduttivo: al contrario, il successo dell’epic film
(in Italia come altrove) era legato proprio alla ripetibilità e riconosci-
bilità degli schemi da parte di un pubblico che domandava intratteni-
mento e non approfondimento. Nell’infinita varietà tematica e nell’in-
ventiva (e divertita) costruzione di una nuova mitologia innestata su un
citazionismo iperbolico da episodi noti, esiste un elemento identitario
che non viene mai eluso: questi film fabbricano storie a lieto fine, e se
il mito insegna che non sempre gli eroi finiscono bene (a partire pro-
prio da Eracle/Ercole), per quei medesimi tipi – non particolarmente
sfaccettati sul piano psicologico e dal comportamento prevedibile5 – il
peplum non contempla fallimenti o sconfitte. Recita la didascalia ini-
ziale che Ercole e la regina di Lidia è «liberamente tratto da Pietro
Francisci dal mito greco di Ercole e Onfale, dall’Edipo a Colono di
Sofocle e da I sette a Tebe di Eschilo». Il soggetto prevede in effetti
l’incontro tra Edipo ed Ercole mentre l’antico sovrano di Tebe, cieco e
solo ma abbigliato come un Mosè (ed è probabile che operassero in
questo senso i modelli iconici provenienti dal filone biblico), si prepa-
ra a raggiungere – come nell’Edipo a Colono di Sofocle – le plaghe di
sotterra, mentre i figli si contendono il trono a Tebe. Non è un caso che
anche per questa ennesima ripresa delle peregrinazioni di Ercole si
fosse scelto il divo del cinema in costume di quegli anni, Steve Reeves
(oltre che Sylva Koscina nei panni della moglie Iole e l’ex pugile
Primo Carnera nella parte del gigante Anteo). Non deve dunque stupi-
re la sostanziale incongruenza dei nessi e degli snodi mitici portati in
scena: Ercole e Ulisse sbarcano insieme sulle coste dell’Attica dalla
nave Argo, che aveva accompagnato in Colchide la missione guidata
da Giasone; allo sciogliersi della compagnia degli Argonauti Ercole
decide di tornare alla sua città natale, ed è durante una sosta presso il
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4 Non è un caso che un maestro dello spaghetti-western come Sergio Leone abbia firmato
anche la regia de Il colosso di Rodi (1961). Si rimanda a M.M. Winkler, Classical Mythology and
the Western Film, in «Comparative Literature Studies», 22, 1985, pp. 517-540, M. Salotti, Clas-
sici e cinema, in Atti del XV e XVI congresso internazionale di studi sul dramma antico (Siracusa
1995 e 1997), a cura di C. Barone, Padova, Esedra, 2002, pp. 33-42 (p. 35).
5 «Il super-muscolo è un eccesso della natura a relativo basso costo [...] un semplice soste-
nitore dell’agire epico piuttosto che un personaggio»: M. Salotti, Note sul cinema mitologico ita-
liano: 1957-1964, in Il mito classico e il cinema, a cura di F. Bertini, Genova, DARFICLET, 1997,
pp. 47-57 (cit. a p. 51).
bosco sacro di Colono che farà il suo fortuito incontro con Edipo,
prima che il personaggio sofocleo lasci per sempre il mondo dei vivi
(«È tempo, Edipo, le porte dell’Averno si aprono per te»: si veda Edipo
a Colono, vv. 1627-1628). Nello stratificarsi dei modelli, ora esplici-
tati ora semplicemente allusi, trovano posto anche un Eteocle tiranni-
co e romanizzato, che invita, in Tebe, i propri cittadini a scendere nel-
l’arena a combattere contro le fiere, e una Onfale regina di Lidia che
come la Circe odisseica fa subire ai propri amanti una metamorfosi
(non in animali ma in statue, tramite le tecniche imbalsamatorie di
servi egizi). Tebe vedrà la morte di entrambi i fratelli davanti alle pro-
prie mura e il prevalere dei giusti sentimenti dell’eroe, oltre che il suo
ritorno tra le braccia di Iole.
La vena d’oro del peplum di produzione italiana esce esaurita dagli
anni Sessanta: dopo un paio di titoli muscolosi d’oltreoceano, dedica-
ti a Eracle e con protagonista il medesimo attore che ha portato in tele-
visione L’incredibile Hulk (Lou Ferrigno: 1983 e 1985) nel corso degli
anni Novanta sarà proprio il piccolo schermo a riproporre la medesima
esagerata eroicità, attraverso una serie di film a episodi con protagoni-
sta ancora Ercole (al quale andrà accostata, anch’essa protagonista di
una serie tv, Xena, una principessa guerriera dal nome greco parlante,
‘la straniera’). Più complesso e disseminato di spie citazionistiche
cinematografiche (da Guerre Stellari a Karate Kid al telefilm Mork e
Mindy) oltre che di riferimenti alla mitologia classica estranei alle
vicende di Eracle è l’Hercules prodotto dalla Walt Disney nel 1997,
che sostituisce con un lieto fine (l’unione terrena con Meg, la Megara
del mito antico, complici Pegaso e un buffo satiro di nome Filottete) la
tragica morte dell’eroe consumato dalla camicia di Nesso, riuscendo a
produrre una disinvolta e divertita mescidanza di generi (a partire dal
gospel e dal musical) e di fonti6.
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6 Accanto ad esso andrà ricordato almeno un altro cartone animato, giapponese, che rielabo-
ra episodi delle Metamorfosi ovidiane (Winds of Change, 1978), oltre che Scontro di Titani
(1981), che recupera con largo uso di effetti speciali – ma con attori in carne e ossa – i miti di
Perseo, Andromeda, Medusa e Pegaso.
2. I miti omerici
La Grecia storica, a differenza di quanto accade con le infinite
variazioni sul tema alle quali viene sottoposta Roma (in particolare
nella figura di Nerone), non viene sfiorata spesso dagli interessi del
cinema; ma si dovrà ribadire una volta di più che i film dedicati
all’Ellade antica sono nella più parte dei casi ispirati a modelli mitico-
eroici: il già ricordato Ercole, Giasone, Achille e in particolare Ulisse
sono i nomi più ricorrenti. Il mito di fondazione della romanità, vice-
versa, conosce minor fortuna, e può vantare, oltre a qualche cenno alla
fuga di Enea nei finali dei film iliadici (come ne La guerra di Troia,
del 1961), solo alcuni tentativi di un recupero complessivo delle
avventure del futuro conquistatore del Lazio (La leggenda di Enea,
1962: rara la presenza di Didone)7 o la ripresa di singoli episodi più
facilmente drammatizzabili, come Il ratto delle Sabine (1961) e
Romolo e Remo (1961).
Al cinema l’Iliade ha declinato le proprie storie facendo spesso
convogliare l’attenzione verso una centralità assunta dalle trame d’a-
more8 e dalla protagonista femminile (fin dal titolo: si contano molte
Elena di Troia, la più nota è quella di Robert Wise con Rossana
Podestà del 1955), oltre che dalla presa di Ilio con il mai obliterato epi-
sodio del cavallo di legno – di cui pure nell’Iliade non c’è traccia –
quale elemento di sicura spettacolarità oltre che oggetto di scena facil-
mente riconoscibile anche da un pubblico non colto. Il prodotto di
maggior successo è recente: Troy, di Wolfgang Petersen (del 2004,
«inspired by Homer’s “the Iliad”», stando ai titoli di coda). Non ci sof-
fermeremo sui non pochi tradimenti del dettato omerico messi in opera
dagli sceneggiatori (il mito è, anche al cinema, un elemento per sua
stessa natura in costante mutamento), quali le novità delle relazioni
parentali – la cuginanza tra Achille e Patroclo – e la morte di Menelao,
che cancella del tutto il senso affatto privato della spedizione. Anche
l’esito della vicenda, la fine in scena di Achille stesso pianto da una
innamorata Briseide (che ha appena ucciso Agamennone), sancisce
una sensibile distanza rispetto al modello. Tali innovazioni convivono
accanto ai luoghi tipici del poema, come l’uccisione di Patroclo e il
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7 Didone abbandonata (1910), oltre all’Eneide televisiva di Franco Rossi (1971) e alla
Didone femminista e napoletana in Didone non è morta di Lina
Mangiacapre (1987).
8 Scrive Solomon (The Ancient World in the Cinema, cit., p. 104) che Elena e Paride «con-
stantly talk love, eat love, sleep love, and make love».
duello tra Achille ed Ettore, a cui fa seguito la visita di Priamo alla
tenda dell’eroe greco. Appare più interessante, forse, il fatto che la pel-
licola metta in viva luce la natura politico-economica della spedizione,
al di sopra degli affetti privati. Un simile elemento di modernità è già
evidente nelle didascalie iniziali: Menelao, «stanco di guerreggiare» e
contrastando le mire espansionistiche del fratello Agamennone, «cerca
di fare la pace con Troia, la rivale più formidabile della emergente
potenza greca»9. La didascalia che segue mette già in crisi il filologo
che cerchi una qualche congruenza con i miti antichi: «Achille, consi-
derato il più grande guerriero mai esistito, combatte nell’esercito
greco. Ma il suo disprezzo per il dominio di Agamennone minaccia di
spaccare la fragile alleanza». Alleanza di chi e con chi? Non viene
spiegato che più tardi: tra Sparta e Troia, e Achille non c’entra; nel
rispetto della tradizione sarà infatti il tradimento di Elena a scatenare
la guerra; così come l’arroganza di Agamennone, che si impossessa di
Briseide, spingerà Achille ad abbandonare la lotta. In seno a questa
impresa imperialistica Achille si configura come il difensore dei valo-
ri di un individualismo autarchico, che si traduce in un’eccellenza eroi-
ca da perseguire attraverso la memoria dei posteri e la fama, contro la
dispersione del nome e il conseguente oblio; lui solo, indisciplinato
uomo d’armi, è in grado di salvare la vita di migliaia di altri uomini,
ma è cosciente del fatto che sarebbe un evento raro (lo sostiene in una
delle prime battute del film) vedere un re che combatte le sue battaglie
in prima persona. Il mito si allarga dunque, magari sfiorandone soltan-
to la superficie, sui grandi e mai limpidi orizzonti della politica inter-
nazionale. Proviamo ad assumere, nell’impossibilità di un’analisi più
dettagliata, il punto di vista di Agamennone e della ragion di stato
attraverso alcune delle sue battute10:
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9 Interessante ci pare un confronto con le didascalie iniziali del Il gladiatore di Ridley Scott
(2000), a cui si deve il merito di aver rilanciato il peplum: «Soltanto l’ultima roccaforte della resi-
stenza germanica sbarrava la strada alla vittoria di Roma e alla promessa di pace per tutto l’im-
pero» (più nel dettaglio, per Il gladiatore, cfr. A. Rodighiero, Un americano (o due) a Roma.
Storie di moderni gladiatori, in «Kleos», 9, 2004, pp. 9-16, p. 10).
10 Dall’altra parte Ettore spiega a Elena che vuole riconsegnarsi ai Greci: «Credi che ad
Agamennone interessi il matrimonio del fratello? Qui è in ballo il potere, non l’amore». Proprio
alla dissacrazione del medesimo congegno ideologico ha pensato, crediamo, Oliver Stone quan-
do ha messo in bocca ad Alessandro Magno (un film del 2004) una tirata che di primo acchito
sembrerebbe uscita dallo studio ovale sulla “esportabilità” di cultura e civiltà, attraverso la guer-
ra, ai popoli barbari che abitano la selvatichezza del far east: Stone ci insegna però, in più, che
nel sogno del guerriero-conquistatore par excellence, Alessandro appunto, non si rivela alcuna
volontà di potenza, né una forma di rigenerazione attraverso la violenza, quanto piuttosto uno
La pace è per le donne e per i deboli [...] gli imperi si forgiano con la guerra
[...] Se Troia cade io controllerò l’Egeo [...] attaccherò con la più devastante
forza mai vista [...] io ho costruito il futuro, io: Achille è il passato, un guer-
riero senza bandiera [...] La storia si ricorda dai re [...] Ettore combatte per la
sua patria, Achille combatte solo per se stesso [...] Ho quasi perso questa
guerra a causa della tua tresca amorosa [a Briseide].
Nella sua esemplare e violenta unicità Achille vive lo sconforto
della piena coscienza di una predestinazione che lo vedrà cadere a
Troia, ma è lì che almeno una volta l’eroe sembra conoscere il gusto
del balsamo dell’amore: la sua corsa terrena si compie non prima che
egli sia riuscito a dire all’amata Briseide «tu mi hai dato la pace in una
vita di guerra». Spentisi i fuochi della devastazione, accesi quelli sotto
le pire dei cadaveri, a restare sono i nomi degli eroi giusti e gloriosi,
mentre quelli dei sovrani ambiziosi (che pensano solo a un’eroicità da
immortalare in una statuaria di propaganda) svaniscono presso i poste-
ri, come sanziona la voce di Ulisse fuori campo alla fine del film: «Si
dica che ho vissuto al tempo di Ettore, domatore di cavalli, si dica che
ho vissuto al tempo di Achille».
Proprio a partire dall’epilogo iliadico Ulisse diviene protagonista: è
a lui e alla sua Odissea che vanno infatti le preferenze della filmogra-
fia di matrice omerica. Il già ricordato Ulisse di Mario Camerini uscì
nel 1954, e poteva contare sui finanziamenti di una superproduzione
tutta di marca italiana (la Lux, Ponti e De Laurentiis) oltre che su un
cast straordinario: Kirk Douglas-Ulisse e Silvana Mangano nel dupli-
ce ruolo di Penelope e di Circe11. Una scelta, questa, che sembra me-
glio giustificare la lunga sosta dell’eroe presso la dimora della maga,
ingannato dalla straordinaria somiglianza di Circe con la moglie. Con
l’eliminazione di un intero episodio (Calipso) la narrazione omerica
viene così condensata fino a far coincidere nei due personaggi femmi-
nili il ruolo attoriale: è difficile non essere indotti al sorriso, quando tra
il preoccupato e il sedotto – dopo che Circe l’ha baciato – Ulisse le si
rivolge con queste parole: «strano, lo stesso viso fiero, lo stesso sguar-
do di Penelope... è strano». E se i titoli di testa mirano alla corrispon-
denza rispetto al dettato omerico12, tale fedeltà sarà ben presto smenti-
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scomodo e inattuale invito alla reciproca mescolanza fino a giocarsi il rischio della perdita di una
presunta, nonché improbabile, purezza.
11 Tra gli altri protagonisti: Anthony Quinn nel ruolo di Antinoo «principe dei Proci», e
Rossana Podestà, Nausicaa.
12 Così recitano: «riprese realizzate nei medesimi luoghi che videro il viaggio di Ulisse [...]
ta da un sostanziale allontanamento dal modello, a dispetto del fatto
che non mancano qua e là, nei dialoghi, testuali citazioni dalle pagine
odisseiche13. La sceneggiatura si focalizza sull’uomo, più che sulle ge-
sta, e il personaggio si identifica con la sua storia14 fino a divenire sog-
getto attivo del proprio destino. Non a caso, dunque, se il film si apre
con il canto di Femio, aedo alla corte di Itaca, già dall’episodio del
cavallo di legno Ulisse appare superbamente ardimentoso, tanto da
spingersi ad abbattere la statua di Nettuno. A fare da volano all’intera
vicenda è però l’arrivo di un Ulisse completamente smemorato alla
corte dei Feaci: grazie anche all’aiuto di un’innamorata Nausicaa, egli
ritroverà la propria identità (non più celata, dunque, come nel poema
omerico, ma perduta). Nel recuperare alla propria incerta memoria gli
episodi del passato, Ulisse permette alla narrazione filmica di fare un
balzo indietro, fino alla grotta del Ciclope e all’inganno tramato per
fuggire dall’antro; l’opposizione civiltà/barbarie, oltre che nei modi
dell’alimentazione (da un lato il cannibalismo, dall’altro la conoscen-
za di sia pur rudimentali tecniche di vinificazione) si traduce fin nel
contrasto tra il petto irsuto del Ciclope e i torsi depilati e lisci di Ulisse
e i suoi (tratto tipico degli eroi del peplum: così sarà lo stesso Douglas
nello Spartacus di Stanley Kubrick, 1960). Ciò che maggiormente col-
pisce è ancora una volta la malcelata sicumera dell’eroe, insuperbito
per aver sconfitto il mostruoso figlio di Posidone. Ma la meditazione
che l’eroe fa ad alta voce una volta che la sua nave è fuori pericolo dà
segno del tentativo, da parte degli sceneggiatori (tra i quali Franco
Brusati, Ennio De Concini e Ivo Perilli), di mettere in opera, magari
inconsapevolmente, un sincretismo diretto a conciliare due percorsi
interpretativi che hanno diviso l’occidente: ovvero da un lato l’Odisseo
omerico – l’eroe del nostos che non ha altro in mente se non di torna-
re a casa – e dall’altro l’Ulisse dantesco, spinto ad abbandonare moglie
e famiglia pur di seguire «virtute e canoscenza» e pronto a volgere
ancora la poppa nel mattino. Una forza centripeta, che lo spinge a
Itaca, lotta costantemente contro suggestioni di fuga: l’ignoto, il nuo-
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Questa è una storia di Dei e di Eroi mitici. È la storia di un mondo favoloso nel quale la realtà e
il soprannaturale si confondono e gli uomini e le divinità lottano fra loro. È il poema dell’eroe
Ulisse, che Omero, il più antico e il più grande poeta del mondo, ha cantato tremila anni fa».
13 Un esempio: durante l’evocazione dei morti (la Nekyia del libro XI dell’Odissea) Achille
pronuncia parole simili all’originale: «Preferirei essere uno schiavo di gente senza patria, piutto-
sto che il re di tutti i morti» (cfr. Odissea, XI, vv. 489-491).
14 Decurtata di non pochi episodi: oltre a Calipso, non trova ad esempio spazio la cosiddet-
ta Telemachia, il viaggio di Telemaco alla ricerca del padre.
vo, l’avventura. Questo Ulisse a tratti baldanzoso e spaccone, che sa
essere crudele ma conosce la commozione, si sforza di tradurre in im-
magini l’ampio spettro di emozioni e comportamenti che fanno dell’e-
roe omerico un personaggio moderno, umano nelle sue fragilità,
mostrandoci così senza veli mitologizzanti, ma con un pizzico di enfa-
si eroica, le sue due opposte nature:
Ci sono due diverse nature in me: una che ama la casa, la famiglia, il focola-
re... e un’altra invece che ama i viaggi, il mare aperto, le strane forme di isole
sconosciute, demoni, giganti. Eh sì, Euriloco, quante volte soffro di nostalgia
per quello che non ho mai visto.
Sulla medesima linea si colloca la rappresentazione dell’episodio
delle Sirene: in Omero Odisseo viene indotto alla sosta presso i loro
scogli dal fatto che le Sirene sanno tutto ciò che accadde sulla piana di
Troia (è il «sentirsi raccontare», il sentire narrare le proprie gesta ad
attirare l’eroe, e sentire che qualcuno lo celebra), e conoscono quello
che capita «sulla terra feconda»; nel film di Camerini Ulisse riceve
l’invito a fermarsi dalla voce di Penelope – e crede quindi di essere a
Itaca – e poi ode parole pronunciate dal figlio. Come a dire che il suo
nemico peggiore è l’angoscia che si porta dentro, un male tutto inter-
no, quel richiamo alle virtù e alle responsabilità domestiche alle quali
in verità non si sottrae con troppo dispiacere («férmati alla tua casa»,
gli sussurrano le Sirene, ed egli chiuderà l’episodio dicendo: «com’è
lontana Itaca adesso»; ma un attimo dopo l’eroe fila veloce verso
nuove avventure: «scoprirlo sarà interessante», afferma).
Pur trattandosi di una fiction televisiva, andrà menzionata l’eccel-
lente Odissea di Franco Rossi, del 1969, che si avvaleva del supporto
per la sceneggiatura di un antichista quale Giampiero Bona e che van-
tava – oltre a una premessa di inquadramento storico-archeologico –
un’altissima fedeltà al dettato del testo omerico e una forte e riuscita
psicologizzazione del personaggio, animato da dissidi interiori ignoti
all’Ulisse di Camerini15. All’Odissea si ispira anche un poetico lungo-
metraggio di Franco Piavoli, Nostos-il ritorno (1990). Il protagonista,
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15 Meno interessante, sia pure ricca di effetti speciali, ci pare l’Odissea di Andrei Kon-
chalovsky, del 1997: icona del cinema sull’antico di tono impegnato rimane, ormai da mezzo
secolo, l’attrice greca Irene Papas, da questa Odissea (Anticlea) a quella di Rossi (Penelope), al
Banchetto da Platone di Ferreri (Diotima, 1988) all’Ifigenia e alle Troiane di Cacoyannis (Cli-
temnestra ed Elena), all’Antigone di Javellas (Antigone).
l’attore Luigi Mezzanotte – dal nome parlante non di Ulisse ma di
Nostos16, ha le caratteristiche e l’abbigliamento dell’eroe omerico:
muove dopo una guerra verso casa con i compagni. Molti sono i peri-
coli e soprattutto i piacevoli richiami dei sensi (dall’amore alla grade-
volezza del vivere in angoli di natura stupenda e mirabilmente foto-
grafata), ma Nostos ritroverà la sua casa.
3. Orfeo
Il mito di Orfeo ed Euridice gode di una fortuna cinematografica di
buon livello. Da sempre letteratura e musica hanno prodotto variazio-
ni sulla vicenda virgiliana del poeta che perde la propria amata e tenta
di recuperarla scendendo agli inferi, facendo assumere al racconto una
valenza sovratemporale che ha permesso anche al cinema di riappro-
priarsene senza cedere alle limitazioni dell’ambientazione in costume.
Sono gli anni Cinquanta a offrire nello spazio di un decennio i due tito-
li di maggior interesse. L’Orfeo di Jean Cocteau (1950, protagonista
Jean Marais) è una libera versione cinematografica di una pièce tea-
trale del 1926. Anticipando i tempi (incontreremo analoghi procedi-
menti attualizzanti in anni a noi più vicini) Cocteau ambienta la pelli-
cola nella contemporanea Parigi esistenzialista, e le Baccanti destina-
te come nel mito antico a fare a pezzi il corpo di Orfeo sono incarnate
da un gruppo di femministe contrariate e deluse dal comportamento
del poeta. «Al centro del dramma non è più la coppia Orfeo-Euridice,
ma due coppie impossibili e due tragici amori: quello della Morte per
Orfeo e quello di Heurtebise, servitore e chauffeur della Morte, per
Euridice»17. In questo gioco di reciproci sentimenti mancati e nel tota-
le narcisismo del protagonista18, che a scapito dell’affetto della moglie
Cinema e mito classico 573
16 Così la didascalia iniziale: «I dialoghi del film sono ispirati a suoni di antiche lingue medi-
terranee».
17 Cfr. M. Di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo ed Euridice tra pas-
sato e presente, Firenze, Libriliberi, 2003, p. 120.
18 «Quando nel film Orfeo vede la Morte attraversare lo specchio, tenta invano di seguirla, e
sviene quasi abbracciando la sua immagine riflessa nello specchio per lui impenetrabile. A que-
sto punto c’è una dissolvenza, e nella sequenza successiva ritroviamo Orfeo svenuto, ma stavol-
ta disteso presso una pozza d’acqua che riflette il suo volto [...] Per qualche fotogramma Orfeo è
colto nella posa classica di Narciso alla fonte»: G. Pucci, Orfeo e la decima musa, in Orfeo e le
sue metamorfosi. Mito arte poesia, a cura di G. Guidorizzi e M. Melotti, Roma, Carocci, 2005,
pp. 168-178, pp. 171-172.
ritrova un’ispirazione perduta negli strani messaggi provenienti da
un’autoradio, si consuma il rito del viaggio agli inferi, dove Orfeo va
in realtà a cercare la Morte. Riportando a casa Euridice, promette che
mai si volterà a guardarla; ma uno specchietto retrovisore – gli spec-
chi nel film sono simbolo e luogo di passaggio tra vita e morte – fa sì
che gli sguardi dei due sposi si incrocino, e Orfeo perde nuovamente
la moglie prima di venire straziato dalle Baccanti. Sulla trama classica
però Cocteau incastona a questo punto un finale a sorpresa. Andando
incontro al tremendo giudizio infero, la Morte innamorata ridarà vita a
entrambi: Orfeo ed Euridice potranno tornare a una loro tranquilla
quotidianità, con la promessa anche di un bambino in arrivo («biso-
gnava rimetterli nella loro acqua sporca», afferma Heurtebise nella
chiusa). Il francese Marcel Camus nel 1958 ambienta il suo Orfeu
negro durante i giorni del carnevale di Rio de Janeiro, circondando il
mito di un’atmosfera parossistica e costantemente scatenata; la musi-
ca di Antonio Carlos Jobim accompagna questo moderno protagonista
(un autista di autobus suonatore di chitarra) in un’avventura d’amore e
morte che lo condurrà a cercare il corpo della sua Euridice, venuta a
Rio per visitare una parente, lungo i corridoi di un Ade metropolitano
(un palazzone spettrale dai tratti kafkiani in cui la burocrazia disperde
nomi e storie in ammassi di faldoni e in frammenti cartacei irrecupe-
rabili e confusi). Ma pur riuscendo a ricondurre il corpo morto dell’a-
mata nelle favelas, subisce la vendetta della sua ex amante morendo in
modo accidentale, mentre l’alba si leva sulla città e alcuni bambini
sembrano raccogliere la sua eredità pizzicando le corde della chitarra
rimasta a terra fracassata (il canto di Orfeo dunque continua, come
nella quarta delle Georgiche virgiliane e nella scena della morte del
cantore narrata da Ovidio in apertura del libro XI delle Metamorfosi,
dove la testa mozzata e la lira, scivolando lungo le acque dell’Ebro,
intonano un flebile lamento). In entrambi i casi, Cocteau e Camus, ci
troviamo di fronte al tentativo serio – estraneo alla contemporanea fil-
mografia italiana – di offrire dei miti antichi una più complessa lettu-
ra. Rinunciando del tutto alla spettacolarizzazione e scegliendo di
ricondurre all’età contemporanea il plot, i registi francesi ottengono
ciò che altrove non era perseguito: fornire, attraverso una più sottile e
psicologizzante lettura di quelle antiche storie, motivo di riflessione di
carattere universale, dal ruolo dell’intellettuale famoso e engagé all’i-
spirazione poetica, dalla spettacolarizzazione della cultura ai primi se-
gni del femminismo, dalla fascinazione dell’aldilà all’anonimato me-
574 Andrea Rodighiero
tropolitano (in vita e in morte) a cui l’uomo contemporaneo non riesce
a sottrarsi.
4. I miti tragici
La tragedia greca ha ispirato non poche rivisitazioni filmiche man-
tenendo il più delle volte intatto il canovaccio drammatico offerto dal
testo classico, ma ha anche dimostrato, di contro ai kolossal fintamen-
te antichizzanti, una straordinaria abilità di adattamento e di camuffa-
mento del mito in contesti contemporanei (segno, da un lato, della
natura universale e moderna degli intrecci, e dall’altro della facilità, fin
dalle origini, di adattare il teatro per il cinema).
Rimane isolato il caso de Le Baccanti di Giorgio Ferroni, del 1960,
un film che allontanandosi sensibilmente dalla trama euripidea si in-
quadra in pieno nella stagione di fioritura del peplum, concedendo al
pubblico un Dioniso, dio respinto da Penteo, dagli inequivocabili tratti
cristianeggianti e contaminando la trama con intrecci amorosi e politi-
ci che condurranno, alla fine, Penteo alla morte (non per smembramen-
to, come nel dramma del poeta greco, ma in duello); nella metamorfo-
si operata dalla sceneggiatura, le stesse protagoniste femminili «diven-
tano tutte nobili di cuore e castamente innamorate, secondo il modello
delle pagane e delle ebree convertite dei pepla storico-evangelici»19.
Sono proprio gli anni Sessanta-Settanta a palesare lo sforzo di una
riappropriazione del mito con un impegno intellettuale e politico igno-
to al decennio precedente, per opera di autori riconosciuti come mae-
stri. Non si tratta dunque solo di una ricollocazione nell’assetto del
pensiero contemporaneo di storie classiche note: mito e tragedia, con-
tenuto e genere che lo veicola, appaiono, anche nell’adozione fattane
dalla decima musa, come un blocco unico e inseparabile ma capace di
produrre infinite diffrazioni, dalla politica alla psicanalisi alla sociolo-
Cinema e mito classico 575
19 Si veda ora l’acuta lettura offerta da Patrizia Pinotti, Tra “peplum” e cinema del mito: «Le
Baccanti» di Giorgio Ferroni, in Studi e Materiali per le Baccanti di Euripide. Storia Memorie
Spettacoli, a cura di A. Beltrametti, Pavia, Ibis, 2007, pp. 411-435: «Ferroni inaugura nel 1961
ed esaurisce nel 1964 la sua produzione storico-mitologica. Per l’esordio e per il congedo dal
genere, sceglie due drammi euripidei, le Baccanti, per l’omonimo film del 1961, e l’Elena, per Il
leone di Tebe, del 1964, assegnando allo stesso attore, l’ormai navigatissimo Alberto Lupo, ri-
spettivamente, i ruoli di Penteo e di Menelao. Per la materia degli altri quattro pepla realizzati,
Ferroni batte le piste più consolidate» con La guerra di Troia (1961), Ercole contro Moloch
(1963), Il colosso di Roma e Coriolano, un eroe senza patria (1964).
gia, da Eschilo (Prometeo in special modo) a Sofocle (soprattutto An-
tigone ed Edipo, ma non mancano alcune Elettre), fino al meglio rap-
presentato Euripide (Medea e la coppia Ippolito e Fedra).
Un primo caso: il regista greco Michael Cacoyannis adatta Eu-
ripide, Elettra (1961), Troiane (1971) e Ifigenia (1977), portando in
esterno – e amplificando dunque lo spazio – ciò che normalmente
viene agito nell’area circoscritta della scena, ma anche filmando sezio-
ni che negli originali vengono soltanto narrate dalle lunghe rheseis dei
personaggi20, nel rispetto del canovaccio mitico e con l’utilizzo di co-
stumi e paesaggi (comprese vere rovine greche) che rimandano al
mondo arcaico del mito tragico21. Un ben più cospicuo numero di pro-
dotti si colloca viceversa al confine tra i generi, laddove il teatro “di-
venta” film, vale a dire un testo teatrale viene riscritto, ristrutturato
nella forma di una sceneggiatura con la programmatica rinuncia all’u-
nità di tempo, luogo e azione del dramma antico; si alternano in que-
sto gruppo di pellicole casi di assoluta fedeltà alla tradizione (non più
al testo, alla versione tragica del mito) e prese di distanza con esiti a
volte sorprendentemente autonomi.
4.1. Ippolito e Fedra
Il mito di Ippolito e Fedra conosce un adattamento per il cinema in
Desiderio sotto gli olmi di Delbert Mann (1958, con Sofia Loren, da
un testo teatrale del 1925 di Eugene O’Neill), che ambientandolo in
un’America rurale molto complica l’intreccio del dramma euripideo,
allontanandosi da esso fino ad ammettere il reciproco amore tra matri-
gna e figliastro, coetanei. Accanto ad esso si dovrà ricordare la Phae-
dra di Jules Dassin e Margarita Liberaki (1962): in entrambi i casi al
novello Ippolito presta il proprio volto Anthony Perkins, che contri-
buisce con efebica ambiguità a restituire all’immaginario contempora-
neo l’idea del giovane personaggio del mito. Ancora una volta la
576 Andrea Rodighiero
20 Un solo esempio a proposito di Elettra: «il racconto del messaggero relativo all’uccisione
di Egisto nel corso di un rito in onore delle Ninfe viene tradotto nel film in una sequenza ambien-
tata durante una festa dionisiaca [...] Rispettoso dell’originale euripideo, Cacoyannis rinuncia tut-
tavia a mostrare la violenta morte di Egisto, scannato come un toro, e ne affida la descrizione ai
versi della tragedia», M. Salotti, L’effetto intimidatorio di Euripide nell’«Elettra» di Cacoyannis,
in Il mito classico e il cinema, cit., pp. 27-35, p. 31.
21 Cfr. anche R. Romeo, «Ifigenia» di Michael Cacoyannis, ivi, pp. 41-45.
modernità dell’intreccio antico permette un “riarrangiamento” del plot
ai giorni nostri (sullo sfondo di tragedie collettive – come l’affonda-
mento della nave Phaedra con i suoi lavoratori a bordo – che tradi-
scono l’intento di denuncia sociale della pellicola): Fedra sposa un
ricco armatore greco nella speranza di assicurare al proprio figlio una
cospicua eredità, ma suo malgrado si innamora, ricambiata, del giova-
ne figliastro. Se considerate solo sul piano della meccanica della sto-
ria, tali trasposizioni funzionano, ma risulta evidente che gli aspetti
sacrali e religiosi generalmente legati al mito tragico (e in special mo-
do operanti proprio nell’Ippolito: Afrodite vs Artemide) vengono sacri-
ficati da una inevitabile modernizzazione, che rimpiazza gli elementi
magici con più credibili strumenti della moderna tecnologia. L’Ip-
polito del film di Dassin non incontra infatti un toro marino sul suo
cammino a bordo di un carro, ma ostacolato da un camion precipita da
una scogliera con la sua macchina sportiva.
4.2. Edipo; Antigone
Nel 1967 Pier Paolo Pasolini filma la sua versione dell’Edipo re di
Sofocle, protagonisti
Franco Citti nella parte di Edipo e Silvana
Mangano in quella di Giocasta. Con il superamento della forma chiu-
sa del dramma, il mito tragico viene rinarrato attraverso il dilatarsi dei
tempi del racconto, e molto spazio viene da Pasolini concesso all’an-
tefatto, a ciò che sta prima del testo sofocleo. Prologo ed epilogo sono
inoltre collocati nei contemporanei anni Sessanta, e proprio lì Pasolini
fornisce in parte la chiave di una personale rilettura del mito, riconsi-
derando freudianamente i primi anni di vita del piccolo Edipo nel suo
simbiotico rapporto con la madre (che scatena odio e rivalità erotica
del padre verso il figlioletto: «stringendo convulsamente i piedi del
figlio, il padre proietta la storia, con una transizione giustamente loda-
tissima, nei climi arsi del mito»)22. È significativo che il film si chiu-
da là dove si era aperto, nella Casarsa di Pasolini, il quale in sceneg-
giatura ricorda che Edipo alla ricerca di una moderna Colono va a
morire presso «il sublime angolo folto di salici, argentei, rustici e sel-
vaggi, che lasciano cadere i loro rami sull’acqua che se ne va lenta. Il
Cinema e mito classico 577
22 G. Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Torino,
Einaudi, 1994, p. 206.
luogo dove per la prima volta, gli occhi di Edipo distinsero e riconob-
bero la madre»23.
Oltre a condurre Edipo dalla culla al luogo di morte, dunque, il
poeta-regista – come avverrà per Medea – inserisce sezioni del rac-
conto che non collimano perfettamente con i fatti agiti sulla scena
nella tragedia (dove l’incontro con la Sfinge è solo evocato, così come
la visita al santuario delfico o la morte di Laio, che Pasolini rappre-
senta in una sequenza di lunghezza sproporzionata rispetto alla trama,
«come icona estrema dello scontro fra le generazioni: Edipo attende-
rebbe soltanto “una parola gentile dell’altro, un invito civile a cedere”,
ma gentilezza e civiltà sono impossibili “perché quell’uomo è il pa-
dre”. La figura ieratica di Laio e la sua monumentale corona fissano
perfettamente in termini visivi l’esautorazione sanguinosamente per-
petrata»)24. Sulla ripresa il più delle volte puntuale dei versi sofoclei
Pasolini inserisce circostanze nuove, quali la violentissima reazione di
Edipo, che passa alle mani, dopo il serrato – e fedele alla fonte – dia-
logo con Tiresia (Julian Beck); e viceversa la scoperta dell’assassinio
e dell’incesto assume nel film un tono privato, intimo, privo di quella
dimensione pubblica che caratterizza il dramma: nella riservatezza di
una conversazione durante una passeggiata con Giocasta e nel chiuso
della camera da letto (dove con frequenza inusitata i due si amano nel
corso di tutto il film, un’esagerazione cercata) Edipo raggiunge la con-
sapevolezza delle proprie colpe. Non si può fare a meno di notare
un’assenza importante, quella dei figli, che pure compaiono (le figlie
addirittura sulla scena) nella chiusa dell’Edipo antico. Non sarà Anti-
gone ad accompagnare Edipo fuori Tebe dopo che Giocasta si sarà
impiccata, ma Angelo (angelos, il messaggero: Ninetto Davoli).
Oltre all’Antigone di Yorgos Javellas (1961), tragedia filmata, sarà
da ricordare una riscrittura dell’ultima parte del mito dei Labdacidi che
a pieno titolo si inserisce nella ideologizzazione operata dal cinema di
quegli anni. I cannibali di Liliana Cavani (1971, scritto in collabora-
zione con Italo Moscati) si configura come un tentativo di indurre una
riflessione sui limiti e i rischi del capitalismo e dei poteri forti25 e, in
578 Andrea Rodighiero
23 P.P. Pasolini, Edipo re, ora in Per il cinema, tomo primo, a cura di W. Siti e F. Zabagli,
Milano, Mondadori, 2001, pp. 969-1052 (cit. a p. 1052).
24 G. Paduano, «Edipo re» di Pasolini e la filologia degli opposti, in Il mito greco nell’ope-
ra di Pasolini, a cura di E. Fabbro, Udine, Forum, 2004, pp. 79-98, cit. a p. 84 (le parti virgolet-
tate sono da Edipo re, in Pasolini, Per il cinema, cit., p. 1001).
25 «Lei sa che in ogni società di capitalismo avanzato c’è nei giovani un potenziale rivolu-
una dimensione più privata, sui conflitti tra generazioni, andando per-
ciò al cuore del dibattito: il mito si fa strumento di pensiero, non infi-
ciato da un vocabolario (anche un vocabolario di immagini) stretta-
mente sessantottesco. In una Milano moderna e irreale si vieta la
sepoltura dei morti di una recente rivolta: Antigone, rampolla di una
famiglia borghese e vicina ai militari, assume maggior consapevolez-
za dopo l’incontro con un profetico e cristico Tiresia (si pensi ai sim-
boli del pesce e del pane) che la aiuta a seppellire prima il cadavere del
fratello e poi quanti più cadaveri possibile. Il passaggio dalla ribellio-
ne contro il proprio mondo domestico all’universale valore della tra-
sgressione e dell’utopia in seno a una società succube e spenta26 deter-
mina però il rischio di una più violenta repressione: «la ragazza che ha
osato rubare i corpi al popolo» viene catturata, interrogata e picchiata,
Tiresia mostrato in televisione come un nuovo Mowgli e messo in
manicomio; ma in virtù di tale esito Emone si sottopone suo malgrado
a un’iniziazione che lo induce a contrapporsi al primo ministro, il
padre Creonte («siete un branco di assassini») e a continuare la rivol-
ta. La scelta di assimilarsi ai comportamenti della compagna lo porta
«a negare la socialità e il linguaggio, e a regredire a uno stadio anima-
lesco, che viene comunque sentito come più autentico. Le modalità
espressive della tragedia greca e del film sono ovviamente assai diver-
se, ma in comune c’è l’assimilazione progressiva del giovane figlio di
Creonte alla diversità radicale di Antigone»27, fino alla sua reclusione
in isolamento. Falcidiati da una raffica di mitra in una pubblica esecu-
zione, Antigone e Tiresia sembrano chiudere un imbarazzante capito-
lo: «l’ordine è ristabilito». Ma il loro sacrificio scatena nuovi seppelli-
tori, gli ex ricoverati; sembra perciò suggerire la Cavani, alla fine del
film, che se davvero una rivoluzione è possibile essa sarà affidata ai
portatori di un non-pensiero, di una riflessione disarticolata dalla fol-
lia, agli emarginati di un ospedale psichiatrico28.
Cinema e mito classico 579
zionario che noi esperti cerchiamo di prevedere attraverso indagini statistiche»: sono le parole
che un “tecnico” ministeriale rivolge ad Antigone.
26 In un’atmosfera dittatoriale il cronista del telegiornale recita così: «Le iniziative prese dal
governo si dimostrano efficaci, e trovano il consenso generale dell’opinione pubblica. La legge e
l’ordine si fondano sulla collaborazione di tutte le forze democratiche: sull’efficienza della dife-
sa, sulla magnificenza dei valori civili...».
27 Cfr. M. Fusillo, Antigone sullo schermo, in «Maia», 54, settembre-dicembre 2002, pp.
515-526 (cit. a p. 519).
28 «Si avverte in modo molto tangibile l’eco dell’antipsichiatria contemporanea»: Fusillo,
Antigone sullo schermo, cit., p. 518.
Edipo sindaco (titolo originale: Edipo alcalde) è una versione co-
lombiana e contemporanea dell’Edipo sofocleo, opera del regista Jorge
Alí Triana; autore del soggetto è Gabriel García Márquez (sul como-
dino del protagonista compare anche una copia di Cronaca di una
morte annunciata). Dai titoli di testa si ricava che il film, del 1996, è
«basado en Edipo Rey de Sófocles», e l’adesione alla struttura narrati-
va del dramma greco è effettivamente forte, fino al reimpiego di ampi
inserti testuali (come accade in un teso dialogo tra Edipo e Tiresia, un
cieco e preveggente costruttore di casse da morto: si veda poco sotto).
Mandato tra le montagne dal governo centrale per ridare ordine a una
cittadina devastata dalla guerra civile e dalla politica di faccendieri
locali, Edipo, un prefetto zoppo, combatte contro l’arroganza e la vio-
lenza dei potenti proprietari terrieri e delle loro milizie. Alcune sosti-
tuzioni di cornice, apparentemente
devianti, mirano in realtà a conser-
vare la struttura narrativa dell’originale: in assenza di peste è la guer-
ra a fare strage tra la popolazione; Edipo dopo aver ucciso inconsape-
volmente il più potente dei proprietari terrieri (Laio) diventa il compa-
gno della vedova Giocasta. Rimosso dunque il contorno mitico, la vita
politica costituisce il perno attorno a cui la vicenda si muove: il ruolo
della Chiesa assume un valore di rilievo nelle trattative tra le parti, e
anche con l’aiuto di un sacerdote che verrà assassinato Edipo vuole
ripristinare le garanzie costituzionali, lavora per la pace e tende la
mano ai guerriglieri accusando Creonte del sequestro e della morte di
Laio nonché di una politica che favorisce confusione e violenza.
Creonte gli risponde che solo un figlio avrebbe potuto uccidere Laio
(«a meno che quel figlio non sia lei»): tale è la diceria che si sta dif-
fondendo nelle taverne. Così Tiresia predice a Edipo la sua sventura (si
tratta di una sintesi fedele del discorso dell’indovino nell’Edipo sofo-
cleo: vv. 316-462):
Non temo niente, perché conosco la verità che è potere [...] Dico che l’uomo
che stai cercando vive qui vicino in abominevole incesto, e non si rende conto
del suo obbrobrio, ed è qui, proprio fra noi, e molto presto si saprà che è l’as-
sassino del suo stesso padre, figlio e sposo della donna che lo ha partorito, e
inoltre padre e fratello del figlio che avrà con lei.
Nel precipitare degli eventi, dopo l’autopsia del cadavere di Laio
(che ha lo stesso volto del figlio) e con lo svelamento della verità da
parte di una nutrice il mito edipico viene compattato esclusivamente
sulla vicenda del protagonista: alla morte suicida di Giocasta, che
580 Andrea Rodighiero
porta in grembo il figlio di suo figlio, segue un finale che per pochi
istanti recupera il secondo Edipo: vagando solo come un barbone, nel
traffico di una grande città, l’Edipo colombiano non conosce nemme-
no il sostegno delle figlie, né si possono annunciare – in assenza di
discendenti – guerre fratricide a venire.
4.3. Medea
Alla vicenda della maga di Colchide, più che a ogni altro mito, si è
ispirato il cinema (e non solo) degli ultimi decenni29. Dopo l’Edipo
Pier Paolo Pasolini torna al mondo antico nel 1969 con Medea (la di-
stribuzione è dell’anno successivo), protagonista Maria Callas: andrà
subito ricordato che Carl Theodor Dreyer nel 1962 «aveva pronte 46
cartelle con la sceneggiatura di una Medea da girare in Grecia», mai
realizzata, con la stessa Callas, e «tra le carte del fondo Pasolini è stata
ritrovata la versione inglese dello “scenario” di Dreyer»; non vi è dun-
que dubbio che Pasolini si sia qua e là ispirato al celebrato maestro del
cinema danese30. Il poeta-regista non intende però trasporre senza
mediazione il dramma in pellicola; non mancano sezioni che riprodu-
cono Euripide alla lettera (si ascolti il dialogo tra Medea e Creonte che
le ordina di lasciare Corinto)31, ma Pasolini racconta al pubblico anche
le premesse del testo tragico, partendo da Giasone bambino cresciuto
sotto la guida del Centauro Chirone, il quale gli riapparirà molto dopo
in aspetto di uomo, come a sancire la distanza del protagonista maschi-
le da un’infanzia mitologica in cui ancora dominava l’elemento reli-
gioso sul razionale. Molto spazio viene inoltre concesso alla “fase col-
chica” del racconto, che vede Medea alle prese con gli Argonauti venu-
ti a conquistare il Vello d’oro. Attraverso l’inserto di quella parte della
leggenda conosciuta ma non rappresentata da Euripide, Pasolini ha
Cinema e mito classico 581
29 Ci si permette di rinviare, oltre al saggio di E. Mengaldo nel presente volume, per la parte
cinematografica anche ad A. Rodighiero, «Ne pueros coram populo Medea trucidet»: alcuni
modi dell’infanticidio, in Ricerche euripidee, a cura di O. Vox, Lecce, Edizioni Pensa Multime-
dia, 2003, pp. 115-159.
30 Cfr. M. Rubino, «Medea» di Pier Paolo Pasolini. Un magnifico insuccesso, in Il mito gre-
co nell’opera di Pasolini, cit., pp. 99-108, p. 107. Pasolini tra 1968 e 1969 si era anche recato in
Africa per realizzare una serie di riprese preparatorie per la trasposizione del mito di Oreste, il
cui esito è il film-documentario Appunti per un’Orestiade africana.
31 Per il confronto tra testo di Euripide e scene pasoliniane si veda G. Ieranò, Tre Medee del
Novecento: Alvaro, Pasolini, Wolf, in Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di B. Gentili e F.
Perusino, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 177-197, pp. 183-185.
buon gioco nello strutturare il racconto in un dittico dalle indissolubi-
li connessioni, nonostante la rappresentazione rurale e primitiva del
mondo dei Colchi favorisca l’impressione di un’incolmabile distanza
fra l’universo primitivo di Medea e la Corinto civile e ordinata nella
quale Giasone cerca nuove nozze. A questo proposito Massimo Fusillo
ha giustamente parlato di «modi del doppio» (formale e culturale
insieme) come metodo consueto del regista32. Entro il paesaggio della
Cappadocia – le cui grotte sono affrescate dai segni della chiesa orto-
dossa – si muove nella prima parte del film una Medea-Callas forte-
mente caratterizzata da una sacerdotale ieraticità; il personaggio non
manifesta cedimenti (a differenza del modello euripideo), salvo scate-
nare un’inattesa e violenta crudeltà, oltre che nel sacrificio umano
durante la celebrazione di un rito di fertilità, nell’uccisione del fratel-
lo. Sul crinale di due distinti universi culturali, Medea fa a pezzi
Apsirto33 a colpi d’ascia, ammantata di una furia che lascia attoniti gli
stessi Argonauti. La sacerdotessa-maga sparge per la campagna i pezzi
del corpo sacrificato al suo nuovo amore, permettendo così la fuga di
Giasone e costringendo il padre Eeta alla raccolta dei resti del figlio,
distogliendolo dall’inseguimento. Mircea Eliade e il suo Trattato di
storia delle religioni servono a Pasolini per dipingere una mitologia
dai più vasti confini, che accanto al mondo greco collochi la primitiva
ritualità descritta dalle ricerche antropologiche e storico-religiose34.
Manca però, a segnare una frattura netta rispetto all’idea di “magico”
sviluppata attorno al mito medeico, un reale potere attivo degli ele-
menti simbolici, che assumono il solo valore di oggetti consacrati dal
rituale: si pensi per converso ai prodigi messi in scena in una pellico-
la peplum come Gli Argonauti solo pochi anni prima35. Se il centro
della vicenda medeica e la ragione della sussistenza del suo mito ripo-
sano nell’episodio dell’infanticidio, anche qui Pasolini prende le
582 Andrea Rodighiero
32 Tra tutti, il doppio sogno di Medea, che prefigura anzitempo la fine di Glauce e Creonte;
si veda M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1996,
pp. 127-179.
33 Per la morte di Apsirto Pasolini si attiene a una fonte classica: Ovidio, Tristia, III, 9, vv.
25-34 e Heroides, VI, 129-130.
34 Su cui Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., pp. 20-21 e 158-159.
35 Si tratta di una delle rare produzioni di area inglese, un film del 1963 nel quale Medea
appare come un’eroina positiva, ma cosciente di dover tradire o il suo popolo o l’amore; la pel-
licola risultava particolarmente spettacolare per l’uso di effetti speciali che cercavano di rendere
vividamente l’idea di alcuni personaggi mostruosi, come il gigante di bronzo Talos, le Arpie o
l’Idra.
distanze dal modello tragico per offrirci – accanto alla novità di un rin-
novato interesse erotico di Giasone per la propria donna ripudiata,
come in Dreyer e in Lars von Trier – una figura femminile distaccata
e solenne, che a differenza della Medea originale mai rivela l’inten-
zione di vendicarsi sui figli (in realtà Pasolini aveva in parte inserito
nella sceneggiatura i versi 764-806 del dramma – nei quali viene
annunciata la morte dei piccoli – alla scena 72: la sezione non è però
poi stata inclusa nelle riprese). Contraria
alla rappresentazione di una
Medea veemente, Maria Callas prepara con sacerdotale compostezza il
duplice omicidio, invisibile agli occhi del pubblico – come nel dram-
ma di Euripide – ma metonimicamente rappresentato da una doppia
inquadratura sul coltello. È oramai lontanissima la Medea tragica co-
stretta, per pochi istanti, a non essere più madre (Euripide, Medea, vv.
1244-1250), che sospende la propria maternità per poter allentare la
morsa dei sentimenti ed esercitare la vendetta sopportando un crimine
diventato necessario. Il rito del sacrificio dei figli è compiuto nella più
totale impassibilità: dopo averne lavato i corpi come vittime designate
e mentre una nenia giapponese intonata dal pedagogo sottolinea il
grado di straniamento e di distanza rispetto a qualsiasi coinvolgimen-
to emotivo, solo nella scena ultima Medea-Callas comunica il suo
furore con gesti sregolati e una vocalità rauca, mentre l’incendio av-
volge la casa. Dopo aver vissuto una “conversione alla rovescia”, dopo
essere passata al mondo civilizzato, Medea nel finale torna a essere
semplicemente una maga. Pasolini sceglie di non chiudere la storia con
un epilogo sulla protagonista: non la si vede partire verso l’accoglien-
te Atene (il re Egeo non compare nemmeno)36, e il film termina su un
perentorio «niente è più possibile ormai», urlato da Medea al proprio
sposo, desideroso di seppellire i bambini (si vedano i versi 1402-1404
della Medea di Euripide: «per gli dèi, permettimi di sfiorare la delica-
ta pelle dei miei figli», «non è possibile, sono parole sprecate») men-
tre all’orizzonte il Sole, l’antico progenitore, sorge luminosissimo.
È proprio la ricordata sceneggiatura di Dreyer a costituire il tratto
comune tra Pasolini e il film per la tv dell’allora trentaduenne Lars von
Trier. Nel 1988 il regista danese in 76 minuti condensa le vicende della
tragedia – scegliendo dunque il taglio netto, a differenza di Pasolini,
dei prodromi del mito – in un’atmosfera rarefatta e dai toni cupi. La
Cinema e mito classico 583
36 In realtà alcuni fotogrammi non entrati nella versione definitiva mostrano Medea salire,
come nella tragedia greca, su un carro.
pioggia e la nebbia sono gli eventi atmosferici più frequenti, e nell’ac-
qua Medea sembra essere perfettamente a suo agio: in una sorta di
palude trova anche, e raccoglie, le bacche avvelenate destinate a Glau-
ce. Contro un realismo di maniera Von Trier ambienta dunque il mito
sulle coste della Danimarca in una sorta di Medioevo vichingo, e appli-
ca un mutamento sensibile, nel rapporto spaziale e temporale, rispetto
all’ipotesto di partenza. Prendendo a prestito da Dreyer «la traccia di
un copione possibile»37 per un film rimasto da realizzare, Von Trier
prefigura in Medea un modello di donna vittima e perdente che tende
a replicarsi nella sua filmografia successiva: da Le onde del destino, a
Dancer in the dark fino a Dogville. Già si è visto come Pasolini, sulla
scia di Dreyer, avesse scelto di fare incontrare Giasone e Medea per un
ultimo amplesso prima della catastrofe finale38; alla naturalezza di quei
gesti Von Trier sostituisce i modi violenti di un uomo che schiaffeg-
giando la moglie la definisce «puttana»: il legame di attrazione e di
tensione tra i due fatica a sciogliersi, e sarà la morte del sovrano
Creonte e della promessa sposa a determinare la fuga della donna e a
condurre lo spettatore al momento insieme più luminoso e più tragico
del film. Lars von Trier sceglie infatti per l’infanticidio la soluzione
più agghiacciante tra tutte le riprese teatrali e cinematografiche del
mito, portando alla vista del pubblico ciò che nel dramma euripideo
era agito dietro le quinte. In un’alba dai contorni pacificati Medea
immersa nella campagna illuminata dal sole impicca i figli ai rami di
un albero secco. Fonti antiche o precedenti modelli non potevano far
muovere il regista in questa direzione39, ma è curioso il fatto che Hel,
divinità femminile che nelle saghe nordiche per volontà di Odino pre-
584 Andrea Rodighiero
37 Si rinvia a M. Rubino - C. Degregori, Medea contemporanea (Lars von Trier, Christa Wolf,
scrittori balcanici), Genova, DARFICLET, 2000, pp. 31-79 (alla Giovanna d’Arco di Dreyer, peral-
tro, rinvia esplicitamente l’abbigliamento dell’attrice Kirsten Olesen-Medea).
38 Prima della sceneggiatura di Dreyer e di Pasolini «solo Catulle Mendès [Médée, 1898]
presenta i due ex sposi, dopo l’alterco, ancora attratti fisicamente l’una dall’altro»: A. Caiazza,
Medea: fortuna di un mito (quarta parte), in «Dioniso», 64, 1994, pp. 155-166, p. 156, nota 5.
39 Nella Medea portata sullo schermo da Jules Dassin in A Dream of Passion (presentata a
Cannes nel 1978) il regista «surroga la violenza fisica, viscerale, del comportamento della Medea
di Euripide con una rievocazione della strage dei figli di una crudezza grandguignolesca»: M.
Manciotti, «Cri de femmes» di Jules Dassin. Tra Euripide e Brecht, in Il mito classico e il cine-
ma, cit., pp. 7-10; cfr. anche I. Christie, Between Magic and Realism: Medea on Film, in Medea
in Performance 1500-2000, a cura di E. Hall, F. Macintosh e O. Taplin, Oxford, Legenda, 2000,
pp. 144-165. La protagonista, una vecchia attrice di nome Maia, vuole recitare Medea, e per que-
sto incontra in carcere una Medea contemporanea (una donna che ha ammazzato i figli per i tra-
dimenti del marito) fino ad assorbirne idealmente lo spirito per poter meglio impersonare il per-
sonaggio euripideo nel teatro di Delfi.
siede agli inferi (e ipostasi dell’inferno), uccida con lacci e corda, e
che Odino stesso resti impiccato ai rami di un albero cosmico40: allo
straniamento dei luoghi si accompagna, forse, anche l’adozione di tra-
dizioni mitografiche di differente filiera. In un tempo sproporzionato
rispetto alla durata della pellicola, l’infanticidio per impiccagione
viene descritto con una ricchezza di dettagli che aumenta drammatica-
mente il realismo, offrendo tuttavia l’idea di un dissidio interiore ben
lungi dal dissolversi in ferma determinatezza (una Medea distante
dalla ieraticità pasoliniana); e un elemento nuovo rispetto alla norma-
le funzione narrativa svolta dai personaggi viene inserito proprio per
fare meglio risaltare tale conflitto. Il maggiore dei figli di Medea è
infatti conscio di quanto sta per accadere («io so quello che deve suc-
cedere», e ancora: «aiutami mamma»), e – mentre il montaggio alter-
nato mostra i funerali di Glauce e Creonte, nonché Giasone che si getta
alla ricerca dei figli – sarà lui a organizzare la propria morte, prestan-
do prima aiuto alla madre nella soppressione del fratellino e poi por-
gendo a Medea i lacci che gli stringeranno il collo. L’obbedienza dei
bimbi pasoliniani è un’obbedienza ignara: qui uno dei piccoli viene
investito di una sconcertante consapevolezza, entrando come soggetto
attivo nella costruzione dell’intreccio, diventando egli stesso il motore
dell’azione. Prepara il cappio, sollevato dalle braccia della madre e se
lo infila intorno al collo:
L’omicidio dei figli per impiccagione mi sembrava più efficace e coerente. O
li si uccide o no. Bisogna mostrare l’azione per quello che è. Non c’è nessu-
na ragione per fare in modo che le cose appaiano più innocenti di quello che
sono41.
Del messicano Arturo Ripstein, infine, è Así es la vida (2000) che
come si legge nei titoli di coda è «inspirada en Medea de Séneca». I
personaggi del mito antico vestono panni moderni, e la modifica di no-
mi e luoghi rende difficile un sistematico confronto con l’originale. Ciò
che rimane intatto è lo scheletro della storia: la ripetibilità dello schema
mitico permette a Julia di presentarsi allo spettatore come una moderna
Medea, insediata in un palazzone della periferia di Città del Messico e
tradita da un marito che rinuncia a lei per sposare la figlia di un picco-
Cinema e mito classico 585
40 Cfr. più nel dettaglio Rodighiero, «Ne pueros coram populo», cit., p. 142.
41 Sono parole dello stesso Lars von Trier, ne Il cinema come Dogma. Conversazioni con Stig
Björkman, Milano, Mondadori, 2001 (ed. orig. 1999), pp. 114-124, p. 121.
lo boss locale. Vestendo i panni di una maga dei nostri giorni, la prota-
gonista del film di Ripstein, oltre all’aborto clandestino, pratica la
medicina alternativa su chi richieda il suo servizio. La modernità di
questa Medea si misura nella totale verosimiglianza e plausibilità della
storia: in altre parole, il mito tragico si trasforma in una realtà possibi-
le nella quale sono soprattutto i giochi di relazione, il rinnegamento
degli affetti e il ripudio dei legami a produrre la catastrofe; così Julia,
costretta ad abbandonare lavoro, casa e marito, sconvolta e lasciata sola,
uccide i figli a colpi di coltello42: il maschietto nella vasca da bagno e
la figlia sulla sommità delle scale (il pubblico non vede per intero, ma
scorge confusamente il gesto omicida). Medea-Julia come nella chiusa
del dramma latino consegna i figli al padre lasciandoli giacere dove
sono, e si allontana in taxi, moderno carro del sole.
4.4. Gli Atridi
I miti tragici hanno dunque dato vita, su strutture narrative simili a
quelle del dramma attico, a versioni che si configurano come una com-
pleta rivisitazione di nomi, tempi e luoghi. Un altro buon esempio di
questo genere di riscrittura cinematografica è costituito da Luna rossa
di Antonio Capuano (2001), film efficacemente duro per linguaggio e
immagini. Costruito come un lunghissimo flash-back, esso mette in
scena la storia della famiglia Cammarano – che controlla la camorra
locale – rivisitata dal punto di vista di Oreste, un figlio che si vendi-
cherà di tutti consegnandosi alla polizia dopo aver sterminato la fami-
glia. Assumendo come impianto di base il mito degli Atridi, il film di
Capuano si apre con l’atteso ritorno a casa di Amerigo/Agamennone,
il quale verrà ucciso per volontà di Egidio/Egisto, che con la moglie di
Amerigo intreccia una relazione. Dei tre figli di Amerigo, una – come
Ifigenia – verrà sacrificata dalle violente logiche interne, e tra Ur-
sula/Elettra e Oreste si intreccia una relazione morbosa. Mentre sullo
sfondo sfilano episodi di vita politica nazionale, tra ministri corrotti e
attività mafiose, la famiglia si sfalda lasciando posto a faide intestine
e a vendette personali in una catena ininterrotta di delitti; sarà Oreste,
di ritorno a casa dopo sette anni, a riportare un ordine apparente azze-
586 Andrea Rodighiero
42 In questa sezione il film è molto vicino al dettato senecano: cfr. Rodighiero, «Ne pueros
coram populo», cit., pp. 152-154, e F.J. Tovar Paz, «Medea» de Séneca en «Así es la vida»
(2000), filme de Arturo Ripstein, in «Revista de Estudios Latinos», 2, 2002, pp. 169-195.
rando con l’uso della violenza tutti i contrasti, per poi scoprire, prima
di uccidere la propria madre e di ritrovare l’affetto di Ursula/Elettra, di
essere figlio di Egidio/Egisto (una novità rispetto al dettato tradiziona-
le). Operando solo come matrice, la saga degli Atridi subisce modifi-
che vistose, ma anche l’inserzione di personaggi secondari (come
Elena, detta «la greca») mira a dare l’impressione di vicinanza e affi-
nità tra moderne epopee familiari e mito antico.
5. Tracce, inserti, citazioni
Non saranno infine da escludere da questa breve carrellata le opere
che nell’impianto generale contengono una magari vaga vocazione
mitologica, prendono a prestito sfumati motivi classici o reimpiantano
nel film una storia riverberante le trame antiche, fino ai casi estremi nei
quali il mito, insieme all’utilizzo che ne fece la tragedia, serve solo da
sfondo o da contrappunto: ciò che ad esempio accade con l’impiego
del coro greco ne La dea dell’amore di Woody Allen (del 1995, a cui
si aggiungano l’episodio edipico in New York Stories, del 1989, e i rife-
rimenti a Elettra, Clitemnestra e Edipo in Pallottole su Broadway,
1994). Ma se ci si muove verso quei prodotti nei quali l’interferenza è
meno evidente, ancorché presente in sottotraccia, dovremo distingue-
re tra l’assunzione di valori simbolici forti mutuati dal racconto antico
e casi in cui la citazione e l’inserto sono utili per una più precisa con-
notazione di episodi singoli. Si pensi all’infinità di variazioni possibi-
li sullo schema del viaggio odisseico, da 2001 Odissea nello spazio di
Stanley Kubrick (1968), a Fratello dove sei? di Joel e Ethan Coen
(2000), a Son de mar di Bigas Luna (2001, ma la lista si potrebbe al-
lungare), alle citazioni classiche in molti film di guerra, come in aper-
tura di All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone (1930)43, all’im-
pianto dionisiaco nella caratterizzazione del cantante Jim Morrison in
The Doors di Oliver Stone (del 1991)44, al baccanale mitologico
Cinema e mito classico 587
43 Su cui si veda G. Avezzù, L’impossibile ritorno dal Fronte Occidentale (E.M. Remarque,
L. Milestone e «Odissea» I, v. 1), in «Kleos», 7, 2002, pp. 7-10; più in generale M.M. Winkler,
«Dulce et decorum est pro patria mori»? Classical Culture in the War Film, in «International
Journal of the Classical Tradition», 7, 2, 2000, pp. 177-214.
44 «In The Doors, Oliver Stone, obviously conscious of Nietzsche, characterizes the young
rock-god Jim Morrison as a Dionysiac figure with an Apollonian, i.e. Belvederean, face»: J.D.
Solomon, In the Wake of «Cleopatra»: The Ancient World in the Cinema since 1963, in «The
Classical Journal», 91, 2, 1996, pp. 113-140, pp. 128-129.
accompagnato dalla Pastorale di Beethoven in Fantasia di Walt
Disney, con pegasi, satiri, amorini, centauri, Dioniso, Iride... (1940).
Un caso efficace di doppia inserzione – teatro nel cinema e testo anti-
co nella sceneggiatura moderna, con potente effetto di mise en abîme
– è offerto da Teatro di guerra di Mario Martone (1998), dove l’antico
è qualcosa di più che un semplice contorno. Sull’eco del conflitto nella
ex-Jugoslavia una compagnia napoletana che si riunisce in un magaz-
zino dei quartieri spagnoli prova I sette a Tebe di Eschilo, con l’inten-
zione di portarli in scena a Sarajevo45. Nel complesso e intenso film di
Martone si incrociano tre distinti piani: «l’eco di Sarajevo, la reale
messa in scena dello spettacolo e la vita degli attori; dunque anche tre
distinte cifre si mescolano: la riflessione sul tragico, quella sul ruolo
del teatro e quella autobiografica»46. Il pubblico vede così filmate
prove vere di uno spettacolo vero, assiste a un montaggio del testo
eschileo dentro la cornice filmica, dal lavoro preliminare sull’origina-
le al dibattito intorno alla messinscena, fino agli interrogativi che il
protagonista, il regista Leo, si pone sul senso dell’operazione, indu-
cendo la sensazione che Tebe con i suoi miti di lotte fratricide non sia
così lontana né dalla Bosnia né dal costante assedio nel quale la città
di Napoli viene tenuta dalla criminalità.
Nota bibliografica
Per un inquadramento generale del rapporto tra mondo antico e decima
musa si vedano M.M. Winkler, Classical Mythology and the Western Film, in
«Comparative Literature Studies», 22, 1985, pp. 517-540; V. Attolini, Il cine-
ma, in Lo spazio letterario di Roma antica, a cura di G. Cavallo, P. Fedeli e
A. Giardina, IV, Roma, Salerno editrice, 1991, pp. 431-493 (dedicato in spe-
cial modo a Roma); M.M. Winkler, Cinema and the Fall of Rome, in
«Transactions of the American Philological Association», 125, 1995, pp. 135-
154; J. Solomon, In the Wake of «Cleopatra»: The Ancient World in the
Cinema since 1963, in «The Classical Journal», 91, 2, 1996, pp. 113-140; J.J.
Clauss, A Course on Classical Mythology in Film, in «The Classical Journal»,
91, 3, 1996, pp. 287-295 (con una sintetica lista dei film mitologici e rifles-
588 Andrea Rodighiero
45 Già La recita di Theo Angelopoulos, del 1975, metteva insieme temi politici e teatro, rical-
cando nelle vicende familiari di una compagnia di attori itineranti lo schema del mito degli
Atridi
sullo sfondo della storia di Grecia tra il 1939 e il 1952.
46 A. Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della tragedia greca, premessa di M.
Fusillo, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 86-100, p. 95.
sioni didattiche); M. Wyke, Projecting the past. Ancient Rome, Cinema, and
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tra cinema, modelli classici, politica e opinione pubblica); M.M. Winkler,
«Dulce et decorum est pro patria mori»? Classical Culture in the War Film,
in «International Journal of the Classical Tradition», 7, 2, 2000, pp. 177-214;
J. Solomon, The Ancient World in the Cinema (revised ed.), New Haven, Yale
University Press, 2001 (attualmente, insieme al titolo successivo, il repertorio
più completo, comprendente ampie sezioni sul cinema delle origini, sul
peplum e sul rapporto con la tragedia); M.M. Winkler (ed.), Classical Myth
and Culture in the Cinema (2nd ed.), Oxford, Oxford University Press, 2001;
La nuova musa degli eroi. Dal mythos alla fiction, a cura di A. Camerotto, C.
De Vecchi, C. Favaro, Treviso, Fondazione Cassamarca, 2008; M.M. Winkler,
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L’impossibile ritorno dal Fronte Occidentale (E.M. Remarque, L. Milestone e
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(saggi su Von Trier, Pasolini, il Satyricon di Fellini); M. Salotti, Classici e
cinema, in Atti del XV e XVI congresso internazionale di studi sul dramma
antico, Siracusa 1995 e 1997, a cura di C. Barone, Padova, Esedra, 2002, pp.
33-42; Tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato a Hollywood,
a cura di Laura Cotta Ramosino, Luisa Cotta Ramosino e C. Dognini, Milano,
Bruno Mondadori, 2004; A. Rodighiero, Immagini in movimento. Alcune
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Internazionale, Venezia 26-28 gennaio 2005, a cura di I. Colpo, I. Favaretto,
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capitolo in Solomon, The Ancient World in the Cinema, cit. – S. Bertelli,
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Firenze, Ponte alle Grazie, 1995, pp. 39-79; M. Salotti, Note sul cinema mito-
logico italiano: 1957-1964, in Il mito classico e il cinema, a cura di F. Bertini,
Genova, DARFICLET, 1997, pp. 47-57; Le péplum: l’Antiquité au cinéma, a
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1998; A. Rodighiero, Un americano (o due) a Roma. Storie di moderni gla-
diatori, in «Kleos», 9, 2004, pp. 9-16; M.M. Winkler (ed.), Gladiator: Film
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film di Scott); A. Boschi, A. Bozzato (e altri), I greci al cinema. Dal peplum
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Orfeo e la decima musa, in Orfeo e le sue metamorfosi. Mito arte poesia, a
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rapporti tra cinema e tragedia: M. McDonald, Euripides in cinema. The Heart
made visible, Philadelphia, Centrum, 1983; K. MacKinnon, Greek tragedy
into film, London-Sydney, Croom Helm, 1986; P. Michelakis, The past as a
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Budelmann and P. Michelakis, London, Society for the Promotion of Hellenic
Studies, 2001, pp. 241-257; M. McDonald, L’arte vivente della tragedia
greca, Firenze, Le Monnier, 2004 (ed. orig. 2003); P. Michelakis, Greek
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in Studi e Materiali per le Baccanti di Euripide. Storia Memorie Spettacoli, a
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Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1996 (sag-
gio essenziale, anche per Medea); M. Fusillo, Antigone sullo schermo, in
«Maia», 54, settembre-dicembre 2002, pp. 515-526; G. Paduano, «Edipo re»
di Pasolini e la filologia degli opposti, in Il mito greco nell’opera di Pasolini,
a cura di E. Fabbro, Udine, Forum, 2004, pp. 79-98. Più cospicua la biblio-
grafia medeica: D.-N. Mimoso-Ruiz, La transposition filmique de la tragédie
chez Pasolini, in «Pallas», 38, 1992, pp. 57-67; D.-N. Mimoso-Ruiz, Le mythe
de Médée au cinéma: l’incandescence de la violence à l’image, in Médée et
la violence, in «Pallas», 45, 1996, pp. 251-268; M. Manciotti, «Cri de fem-
mes» di Jules Dassin. Tra Euripide e Brecht, in Il mito classico e il cinema,
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canici), Genova, DARFICLET, 2000 (con la traduzione dei dialoghi del film di
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kman, Milano, Mondadori, 2001 (ed. orig. 1999); C. Croce, La mitopoiesi
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in «Revista de Estudios Latinos», 2, 2002, pp. 169-195; M. Fusillo, La ven-
590 Andrea Rodighiero
detta di Medea, in «Dioniso», 2, 2003 (n.s.), pp. 112-117; A. Rodighiero, «Ne
pueros coram populo Medea trucidet»: alcuni modi dell’infanticidio, in
Ricerche euripidee, a cura di O. Vox, Lecce, Edizioni Pensa Multimedia,
2003, pp. 115-159; M. Rubino, «Medea» di Pier Paolo Pasolini. Un magnifi-
co insuccesso, in Il mito greco nell’opera di Pasolini, cit., pp. 99-108. Su altre
tragedie: R. Romeo, «Ifigenia» di Michael Cacoyannis, in Il mito classico e
il cinema, cit., pp. 41-45; M. Salotti, L’effetto intimidatorio di Euripide nel-
l’«Elettra» di Cacoyannis, ivi, pp. 27-35; M. Fusillo, «I sette contro Tebe»
dalla scena allo schermo. (Su «Teatro di guerra» di Mario Martone), in
«Kleos», 7, 2002, pp. 11-14; R. Lavagnini, Fedra al cinema, in «Dioniso», 2,
2003 (n.s.), pp. 242-245; A. Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista
della tragedia greca, premessa di M. Fusillo, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 86-
100. Sono infine in corso di stampa gli Atti del Convegno Metamorfosi del
mito classico nel cinema, Venezia 22-24 ottobre 2008.
Cinema e mito classico 591
APPENDICE: TESTI
1. Le Baccanti di Giorgio Ferroni (1960)
Il duello verbale tra Dioniso, il dio nuovo, e il sovrano Penteo che rileva nei
riti introdotti da questo Straniero un eccessivo grado di corruzione e lascivia,
è l’«unico segmento testuale del

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