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ANDREA RODIGHIERO CINEMA E MITO CLASSICO 1. Ricognizioni: i tempi e i luoghi In una scena di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (film del 1988), all’arena estiva è in programma l’Ulisse di Mario Camerini: all’improvviso la proiezione en plein air viene interrotta da un temporale che costringe il pubblico a cercare altrove riparo. L’in- serto citazionistico del film di Tornatore costituisce un utile punto di partenza per due distinte ragioni; da un lato l’omaggio alla pellicola di Camerini (su cui avremo modo di tornare) rappresenta e insieme cele- bra i fasti della miglior stagione mai prodottasi nel connubio tra mito e cinema (gli anni Cinquanta-Sessanta). Dall’altro, la pioggia battente che sancisce un anticipato e imprevisto intervallo ci suggerisce che la vitale prosperità di tale appassionata relazione si sarebbe a un certo punto annacquata, per lasciare spazio a più fugaci incontri. Procedendo con ordine, nella sintetica ricostruzione che qui ci si prefigge non andrà dimenticato che fin dalle sue prime e più speri- mentali prove la decima musa è stata attratta da temi e percorsi narra- tivi ispirati all’antico; accanto alle scene di vita quotidiana e ai più moderni miti del progresso e della velocità (il treno in special modo), in mancanza di trame forti per un genere agli albori, i personaggi del mito greco potevano fornire storie narrativamente preordinate, come se esse stesse rappresentassero – insieme alle gesta di grandi personaggi del passato, alle trame di romanzi di successo e ai fatti legati alle ori- gini del cristianesimo – una sorta di canovaccio-sceneggiatura già dis- ponibile e pronto all’uso del mezzo cinematografico. Non mancano perciò, anche solo a sfogliare i repertori, alcuni primi esercizi che ve- dono impegnati i cineasti sui temi più noti. Uno dei padri del cinema, il francese Georges Méliès, si dedica a soggetti classici tra fine Otto- cento e inizio Novecento (come L’isola di Calipso) mentre in Italia Giovanni Pastrone, insieme a Romano Borgnetto, manda in sala nel 1911 un film sontuoso e lungo – mezz’ora – come La caduta di Troia (dello stesso anno è anche L’Odissea di Giuseppe De Liguoro)1. Cinema e mito classico 563 1 Anche la scuola americana di quegli anni, imitando gli Europei, sceglieva temi tratti dal Se è certamente la trasposizione filmica dei grandi eventi storici legati alla romanità repubblicana e imperiale la maniera più consueta e di maggiore successo (vantando il più ampio numero di pellicole) per veicolare verso il moderno l’universo degli antichi, hanno però attrat- to l’interesse dell’industria cinematografica anche gli intrecci del mito, e in special modo quelli della tragedia greca (eletta, come vedremo, in particolare da registi di nicchia in pellicole generalmente di elevata qualità). In effetti la produzione di cinema in costume di ambientazio- ne classica trova il suo punto di partenza ideale in un prodotto di ispi- razione storica – anche se preceduto, come detto, da moltissimo altro materiale: Cabiria di Giovanni Pastrone (1913) non rientra a pieno titolo nella serie delle riprese di mitologemi antichi, ma oltre a segna- re l’inizio della fortuna sullo schermo delle lotte tra Roma e Cartagine (che durò fino alla metà degli anni Venti), offrì il destro a Gabriele d’Annunzio – al quale Pastrone si era rivolto per una consulenza nella stesura delle didascalie – per battezzare un personaggio che ricompa- rirà in anni di là da venire quale emulo dell’eroe greco per eccellenza. Nella figura di Maciste (‘il grandissimo’), che in Cabiria incarna il ruolo dello schiavo fedele, il cinema riconosce infatti un vero prototi- po di prode forzuto e all’occorrenza semidivino che diventerà nel cine- ma degli anni Cinquanta e Sessanta l’alter-ego di Ercole in pellicole di ambientazione classicheggiante. Sono questi gli anni lungo i quali l’Italia, non solo luogo di produzione ma anche nazione eletta a ospi- tare il set di molti film sull’antico (la cinematografia in costume greco- romano, il peplum), si propone come centro propulsore di un’attività di genere senza molte pretese di qualità, che risente della battuta d’ar- resto, subita a livello internazionale e soprattutto nel sontuoso kolossal di marca americana, imposta dalle enormi spese – mai rientrate – sostenute per la Cleopatra di J.L. Mankiewicz (1963). Negli ultimi de- cenni del secolo appena trascorso, viceversa, e proprio a partire dagli anni Sessanta, il mito rivisitato sul grande schermo assume quel grado di autonomia narrativa e di libertà ideologica che permette di farne il tramite per veicolare un messaggio di maggiore complessità, senza costituire soltanto un contenitore destinato a proporre prodotti di in- trattenimento (si pensi a Pasolini, a I cannibali di Liliana Cavani o a 564 Andrea Rodighiero mito; non si citano, qui, che pochi titoli, ma la lista sarebbe lunga: cfr. J. Solomon, The Ancient World in the Cinema, New Haven, Yale University Press, 2001, pp. 3 ss., e pp. 327 ss., oltre che J.J. Clauss, A Course on Classical Mythology in Film, in «The Classical Journal», 91, 3, 1996, pp. 287-295. Edipo alcalde di Jorge Alí Triana, di cui sotto): impressione alla quale è difficile sottrarsi visionando i titoli del periodo peplum. Ciò che maggiormente si palesa in grossa parte della filmografia degli anni Cinquanta e Sessanta è infatti una totale inaffidabilità delle ricostruzioni mitografiche, o per meglio dire la sistematica e intenzio- nale contaminazione di vicende eroiche ritratte in un clima di assoluta infedeltà nei confronti del dettato delle fonti antiche. La patina classi- cheggiante – oltre che da ambientazione e decoro – viene assicurata proprio dalla esemplarità dei personaggi e dalla straordinarietà delle loro imprese: Maciste (insieme a un altro eroe di nuovo conio, Ursus) abbandona il ruolo di spalla dell’eroina e di leale servitore per trasfor- marsi in un novello Ercole protagonista di mirabili avventure. Se in alcuni casi l’Ellade è almeno idealmente vicina – e lo stesso valga per la cinematografia sul figlio di Zeus e Alcmena, a partire dal fortuna- tissimo Le fatiche di Ercole del 1957 – in altri la lontananza dal mondo classico è sancita dall’estravaganza degli incontri e dei luoghi di am- bientazione. A parlare sono i titoli stessi2: Maciste e la regina di Sa- mar, Maciste nella terra dei Ciclopi, ma anche Maciste nell’inferno di Gengis Khan; e ancora Ercole l’invincibile, Ercole contro i tiranni di Babilonia, Ercole e la regina di Lidia, ma anche Ercole contro i figli del sole (gli Incas), Ercole, Sansone, Maciste e Ursus gli Invincibili, e Maciste contro i mongoli (fino alla virata del genere mitologico verso la commedia: Totò contro Maciste, del 1962)3. Ercole e la regina di Lidia di Pietro Francisci (del 1959: a lui si deve anche la regia de Le fatiche di Ercole, entrambi campioni di incassi) è un buon esempio della costanza programmatica con la quale i registi di quegli anni mira- no all’incrocio delle fonti mitiche in funzione di un preteso aumento del grado di avventurosità. Gli ingredienti sono i medesimi di molte altre pellicole a tema: un eroe fortissimo accompagnato da una tenera e dolce compagna (di norma bionda) si fa garante dei valori di giusti- zia e civiltà contro tiranni e mostri; dopo un’immancabile fase di scac- co o prigionia il vigore positivo del protagonista è destinato ad avere Cinema e mito classico 565 2 Molto spesso i titoli erano passibili di variazioni, con libera sovrapponibilità dei nomi degli eroi: Maciste poteva diventare, ad esempio, Sansone (Solomon, The Ancient World in the Cinema, cit., pp. 317-319). 3 Mentre in Italia si ricorre ai muscoli e a effetti speciali per magnificare la forza degli eroi del mito, il kolossal di Hollywood ripiega su temi di ambientazione storica – come Ben Hur, del 1959, o Cleopatra – mirando piuttosto alla pompa spettacolare delle grandi scene di massa e delle ricostruzioni delle architetture classiche, e cercando nella fastosità di costumi e arredi un ele- mento primario di attrattiva. la meglio grazie a una prova di coraggio (sul modello delle canoniche fatiche: molti di questi schemi saranno ereditati dal film western e dal- l’epica di frontiera)4. Non appaia, tale sintetica schematicità, come segno di un approccio riduttivo: al contrario, il successo dell’epic film (in Italia come altrove) era legato proprio alla ripetibilità e riconosci- bilità degli schemi da parte di un pubblico che domandava intratteni- mento e non approfondimento. Nell’infinita varietà tematica e nell’in- ventiva (e divertita) costruzione di una nuova mitologia innestata su un citazionismo iperbolico da episodi noti, esiste un elemento identitario che non viene mai eluso: questi film fabbricano storie a lieto fine, e se il mito insegna che non sempre gli eroi finiscono bene (a partire pro- prio da Eracle/Ercole), per quei medesimi tipi – non particolarmente sfaccettati sul piano psicologico e dal comportamento prevedibile5 – il peplum non contempla fallimenti o sconfitte. Recita la didascalia ini- ziale che Ercole e la regina di Lidia è «liberamente tratto da Pietro Francisci dal mito greco di Ercole e Onfale, dall’Edipo a Colono di Sofocle e da I sette a Tebe di Eschilo». Il soggetto prevede in effetti l’incontro tra Edipo ed Ercole mentre l’antico sovrano di Tebe, cieco e solo ma abbigliato come un Mosè (ed è probabile che operassero in questo senso i modelli iconici provenienti dal filone biblico), si prepa- ra a raggiungere – come nell’Edipo a Colono di Sofocle – le plaghe di sotterra, mentre i figli si contendono il trono a Tebe. Non è un caso che anche per questa ennesima ripresa delle peregrinazioni di Ercole si fosse scelto il divo del cinema in costume di quegli anni, Steve Reeves (oltre che Sylva Koscina nei panni della moglie Iole e l’ex pugile Primo Carnera nella parte del gigante Anteo). Non deve dunque stupi- re la sostanziale incongruenza dei nessi e degli snodi mitici portati in scena: Ercole e Ulisse sbarcano insieme sulle coste dell’Attica dalla nave Argo, che aveva accompagnato in Colchide la missione guidata da Giasone; allo sciogliersi della compagnia degli Argonauti Ercole decide di tornare alla sua città natale, ed è durante una sosta presso il 566 Andrea Rodighiero 4 Non è un caso che un maestro dello spaghetti-western come Sergio Leone abbia firmato anche la regia de Il colosso di Rodi (1961). Si rimanda a M.M. Winkler, Classical Mythology and the Western Film, in «Comparative Literature Studies», 22, 1985, pp. 517-540, M. Salotti, Clas- sici e cinema, in Atti del XV e XVI congresso internazionale di studi sul dramma antico (Siracusa 1995 e 1997), a cura di C. Barone, Padova, Esedra, 2002, pp. 33-42 (p. 35). 5 «Il super-muscolo è un eccesso della natura a relativo basso costo [...] un semplice soste- nitore dell’agire epico piuttosto che un personaggio»: M. Salotti, Note sul cinema mitologico ita- liano: 1957-1964, in Il mito classico e il cinema, a cura di F. Bertini, Genova, DARFICLET, 1997, pp. 47-57 (cit. a p. 51). bosco sacro di Colono che farà il suo fortuito incontro con Edipo, prima che il personaggio sofocleo lasci per sempre il mondo dei vivi («È tempo, Edipo, le porte dell’Averno si aprono per te»: si veda Edipo a Colono, vv. 1627-1628). Nello stratificarsi dei modelli, ora esplici- tati ora semplicemente allusi, trovano posto anche un Eteocle tiranni- co e romanizzato, che invita, in Tebe, i propri cittadini a scendere nel- l’arena a combattere contro le fiere, e una Onfale regina di Lidia che come la Circe odisseica fa subire ai propri amanti una metamorfosi (non in animali ma in statue, tramite le tecniche imbalsamatorie di servi egizi). Tebe vedrà la morte di entrambi i fratelli davanti alle pro- prie mura e il prevalere dei giusti sentimenti dell’eroe, oltre che il suo ritorno tra le braccia di Iole. La vena d’oro del peplum di produzione italiana esce esaurita dagli anni Sessanta: dopo un paio di titoli muscolosi d’oltreoceano, dedica- ti a Eracle e con protagonista il medesimo attore che ha portato in tele- visione L’incredibile Hulk (Lou Ferrigno: 1983 e 1985) nel corso degli anni Novanta sarà proprio il piccolo schermo a riproporre la medesima esagerata eroicità, attraverso una serie di film a episodi con protagoni- sta ancora Ercole (al quale andrà accostata, anch’essa protagonista di una serie tv, Xena, una principessa guerriera dal nome greco parlante, ‘la straniera’). Più complesso e disseminato di spie citazionistiche cinematografiche (da Guerre Stellari a Karate Kid al telefilm Mork e Mindy) oltre che di riferimenti alla mitologia classica estranei alle vicende di Eracle è l’Hercules prodotto dalla Walt Disney nel 1997, che sostituisce con un lieto fine (l’unione terrena con Meg, la Megara del mito antico, complici Pegaso e un buffo satiro di nome Filottete) la tragica morte dell’eroe consumato dalla camicia di Nesso, riuscendo a produrre una disinvolta e divertita mescidanza di generi (a partire dal gospel e dal musical) e di fonti6. Cinema e mito classico 567 6 Accanto ad esso andrà ricordato almeno un altro cartone animato, giapponese, che rielabo- ra episodi delle Metamorfosi ovidiane (Winds of Change, 1978), oltre che Scontro di Titani (1981), che recupera con largo uso di effetti speciali – ma con attori in carne e ossa – i miti di Perseo, Andromeda, Medusa e Pegaso. 2. I miti omerici La Grecia storica, a differenza di quanto accade con le infinite variazioni sul tema alle quali viene sottoposta Roma (in particolare nella figura di Nerone), non viene sfiorata spesso dagli interessi del cinema; ma si dovrà ribadire una volta di più che i film dedicati all’Ellade antica sono nella più parte dei casi ispirati a modelli mitico- eroici: il già ricordato Ercole, Giasone, Achille e in particolare Ulisse sono i nomi più ricorrenti. Il mito di fondazione della romanità, vice- versa, conosce minor fortuna, e può vantare, oltre a qualche cenno alla fuga di Enea nei finali dei film iliadici (come ne La guerra di Troia, del 1961), solo alcuni tentativi di un recupero complessivo delle avventure del futuro conquistatore del Lazio (La leggenda di Enea, 1962: rara la presenza di Didone)7 o la ripresa di singoli episodi più facilmente drammatizzabili, come Il ratto delle Sabine (1961) e Romolo e Remo (1961). Al cinema l’Iliade ha declinato le proprie storie facendo spesso convogliare l’attenzione verso una centralità assunta dalle trame d’a- more8 e dalla protagonista femminile (fin dal titolo: si contano molte Elena di Troia, la più nota è quella di Robert Wise con Rossana Podestà del 1955), oltre che dalla presa di Ilio con il mai obliterato epi- sodio del cavallo di legno – di cui pure nell’Iliade non c’è traccia – quale elemento di sicura spettacolarità oltre che oggetto di scena facil- mente riconoscibile anche da un pubblico non colto. Il prodotto di maggior successo è recente: Troy, di Wolfgang Petersen (del 2004, «inspired by Homer’s “the Iliad”», stando ai titoli di coda). Non ci sof- fermeremo sui non pochi tradimenti del dettato omerico messi in opera dagli sceneggiatori (il mito è, anche al cinema, un elemento per sua stessa natura in costante mutamento), quali le novità delle relazioni parentali – la cuginanza tra Achille e Patroclo – e la morte di Menelao, che cancella del tutto il senso affatto privato della spedizione. Anche l’esito della vicenda, la fine in scena di Achille stesso pianto da una innamorata Briseide (che ha appena ucciso Agamennone), sancisce una sensibile distanza rispetto al modello. Tali innovazioni convivono accanto ai luoghi tipici del poema, come l’uccisione di Patroclo e il 568 Andrea Rodighiero 7 Didone abbandonata (1910), oltre all’Eneide televisiva di Franco Rossi (1971) e alla Didone femminista e napoletana in Didone non è morta di Lina Mangiacapre (1987). 8 Scrive Solomon (The Ancient World in the Cinema, cit., p. 104) che Elena e Paride «con- stantly talk love, eat love, sleep love, and make love». duello tra Achille ed Ettore, a cui fa seguito la visita di Priamo alla tenda dell’eroe greco. Appare più interessante, forse, il fatto che la pel- licola metta in viva luce la natura politico-economica della spedizione, al di sopra degli affetti privati. Un simile elemento di modernità è già evidente nelle didascalie iniziali: Menelao, «stanco di guerreggiare» e contrastando le mire espansionistiche del fratello Agamennone, «cerca di fare la pace con Troia, la rivale più formidabile della emergente potenza greca»9. La didascalia che segue mette già in crisi il filologo che cerchi una qualche congruenza con i miti antichi: «Achille, consi- derato il più grande guerriero mai esistito, combatte nell’esercito greco. Ma il suo disprezzo per il dominio di Agamennone minaccia di spaccare la fragile alleanza». Alleanza di chi e con chi? Non viene spiegato che più tardi: tra Sparta e Troia, e Achille non c’entra; nel rispetto della tradizione sarà infatti il tradimento di Elena a scatenare la guerra; così come l’arroganza di Agamennone, che si impossessa di Briseide, spingerà Achille ad abbandonare la lotta. In seno a questa impresa imperialistica Achille si configura come il difensore dei valo- ri di un individualismo autarchico, che si traduce in un’eccellenza eroi- ca da perseguire attraverso la memoria dei posteri e la fama, contro la dispersione del nome e il conseguente oblio; lui solo, indisciplinato uomo d’armi, è in grado di salvare la vita di migliaia di altri uomini, ma è cosciente del fatto che sarebbe un evento raro (lo sostiene in una delle prime battute del film) vedere un re che combatte le sue battaglie in prima persona. Il mito si allarga dunque, magari sfiorandone soltan- to la superficie, sui grandi e mai limpidi orizzonti della politica inter- nazionale. Proviamo ad assumere, nell’impossibilità di un’analisi più dettagliata, il punto di vista di Agamennone e della ragion di stato attraverso alcune delle sue battute10: Cinema e mito classico 569 9 Interessante ci pare un confronto con le didascalie iniziali del Il gladiatore di Ridley Scott (2000), a cui si deve il merito di aver rilanciato il peplum: «Soltanto l’ultima roccaforte della resi- stenza germanica sbarrava la strada alla vittoria di Roma e alla promessa di pace per tutto l’im- pero» (più nel dettaglio, per Il gladiatore, cfr. A. Rodighiero, Un americano (o due) a Roma. Storie di moderni gladiatori, in «Kleos», 9, 2004, pp. 9-16, p. 10). 10 Dall’altra parte Ettore spiega a Elena che vuole riconsegnarsi ai Greci: «Credi che ad Agamennone interessi il matrimonio del fratello? Qui è in ballo il potere, non l’amore». Proprio alla dissacrazione del medesimo congegno ideologico ha pensato, crediamo, Oliver Stone quan- do ha messo in bocca ad Alessandro Magno (un film del 2004) una tirata che di primo acchito sembrerebbe uscita dallo studio ovale sulla “esportabilità” di cultura e civiltà, attraverso la guer- ra, ai popoli barbari che abitano la selvatichezza del far east: Stone ci insegna però, in più, che nel sogno del guerriero-conquistatore par excellence, Alessandro appunto, non si rivela alcuna volontà di potenza, né una forma di rigenerazione attraverso la violenza, quanto piuttosto uno La pace è per le donne e per i deboli [...] gli imperi si forgiano con la guerra [...] Se Troia cade io controllerò l’Egeo [...] attaccherò con la più devastante forza mai vista [...] io ho costruito il futuro, io: Achille è il passato, un guer- riero senza bandiera [...] La storia si ricorda dai re [...] Ettore combatte per la sua patria, Achille combatte solo per se stesso [...] Ho quasi perso questa guerra a causa della tua tresca amorosa [a Briseide]. Nella sua esemplare e violenta unicità Achille vive lo sconforto della piena coscienza di una predestinazione che lo vedrà cadere a Troia, ma è lì che almeno una volta l’eroe sembra conoscere il gusto del balsamo dell’amore: la sua corsa terrena si compie non prima che egli sia riuscito a dire all’amata Briseide «tu mi hai dato la pace in una vita di guerra». Spentisi i fuochi della devastazione, accesi quelli sotto le pire dei cadaveri, a restare sono i nomi degli eroi giusti e gloriosi, mentre quelli dei sovrani ambiziosi (che pensano solo a un’eroicità da immortalare in una statuaria di propaganda) svaniscono presso i poste- ri, come sanziona la voce di Ulisse fuori campo alla fine del film: «Si dica che ho vissuto al tempo di Ettore, domatore di cavalli, si dica che ho vissuto al tempo di Achille». Proprio a partire dall’epilogo iliadico Ulisse diviene protagonista: è a lui e alla sua Odissea che vanno infatti le preferenze della filmogra- fia di matrice omerica. Il già ricordato Ulisse di Mario Camerini uscì nel 1954, e poteva contare sui finanziamenti di una superproduzione tutta di marca italiana (la Lux, Ponti e De Laurentiis) oltre che su un cast straordinario: Kirk Douglas-Ulisse e Silvana Mangano nel dupli- ce ruolo di Penelope e di Circe11. Una scelta, questa, che sembra me- glio giustificare la lunga sosta dell’eroe presso la dimora della maga, ingannato dalla straordinaria somiglianza di Circe con la moglie. Con l’eliminazione di un intero episodio (Calipso) la narrazione omerica viene così condensata fino a far coincidere nei due personaggi femmi- nili il ruolo attoriale: è difficile non essere indotti al sorriso, quando tra il preoccupato e il sedotto – dopo che Circe l’ha baciato – Ulisse le si rivolge con queste parole: «strano, lo stesso viso fiero, lo stesso sguar- do di Penelope... è strano». E se i titoli di testa mirano alla corrispon- denza rispetto al dettato omerico12, tale fedeltà sarà ben presto smenti- 570 Andrea Rodighiero scomodo e inattuale invito alla reciproca mescolanza fino a giocarsi il rischio della perdita di una presunta, nonché improbabile, purezza. 11 Tra gli altri protagonisti: Anthony Quinn nel ruolo di Antinoo «principe dei Proci», e Rossana Podestà, Nausicaa. 12 Così recitano: «riprese realizzate nei medesimi luoghi che videro il viaggio di Ulisse [...] ta da un sostanziale allontanamento dal modello, a dispetto del fatto che non mancano qua e là, nei dialoghi, testuali citazioni dalle pagine odisseiche13. La sceneggiatura si focalizza sull’uomo, più che sulle ge- sta, e il personaggio si identifica con la sua storia14 fino a divenire sog- getto attivo del proprio destino. Non a caso, dunque, se il film si apre con il canto di Femio, aedo alla corte di Itaca, già dall’episodio del cavallo di legno Ulisse appare superbamente ardimentoso, tanto da spingersi ad abbattere la statua di Nettuno. A fare da volano all’intera vicenda è però l’arrivo di un Ulisse completamente smemorato alla corte dei Feaci: grazie anche all’aiuto di un’innamorata Nausicaa, egli ritroverà la propria identità (non più celata, dunque, come nel poema omerico, ma perduta). Nel recuperare alla propria incerta memoria gli episodi del passato, Ulisse permette alla narrazione filmica di fare un balzo indietro, fino alla grotta del Ciclope e all’inganno tramato per fuggire dall’antro; l’opposizione civiltà/barbarie, oltre che nei modi dell’alimentazione (da un lato il cannibalismo, dall’altro la conoscen- za di sia pur rudimentali tecniche di vinificazione) si traduce fin nel contrasto tra il petto irsuto del Ciclope e i torsi depilati e lisci di Ulisse e i suoi (tratto tipico degli eroi del peplum: così sarà lo stesso Douglas nello Spartacus di Stanley Kubrick, 1960). Ciò che maggiormente col- pisce è ancora una volta la malcelata sicumera dell’eroe, insuperbito per aver sconfitto il mostruoso figlio di Posidone. Ma la meditazione che l’eroe fa ad alta voce una volta che la sua nave è fuori pericolo dà segno del tentativo, da parte degli sceneggiatori (tra i quali Franco Brusati, Ennio De Concini e Ivo Perilli), di mettere in opera, magari inconsapevolmente, un sincretismo diretto a conciliare due percorsi interpretativi che hanno diviso l’occidente: ovvero da un lato l’Odisseo omerico – l’eroe del nostos che non ha altro in mente se non di torna- re a casa – e dall’altro l’Ulisse dantesco, spinto ad abbandonare moglie e famiglia pur di seguire «virtute e canoscenza» e pronto a volgere ancora la poppa nel mattino. Una forza centripeta, che lo spinge a Itaca, lotta costantemente contro suggestioni di fuga: l’ignoto, il nuo- Cinema e mito classico 571 Questa è una storia di Dei e di Eroi mitici. È la storia di un mondo favoloso nel quale la realtà e il soprannaturale si confondono e gli uomini e le divinità lottano fra loro. È il poema dell’eroe Ulisse, che Omero, il più antico e il più grande poeta del mondo, ha cantato tremila anni fa». 13 Un esempio: durante l’evocazione dei morti (la Nekyia del libro XI dell’Odissea) Achille pronuncia parole simili all’originale: «Preferirei essere uno schiavo di gente senza patria, piutto- sto che il re di tutti i morti» (cfr. Odissea, XI, vv. 489-491). 14 Decurtata di non pochi episodi: oltre a Calipso, non trova ad esempio spazio la cosiddet- ta Telemachia, il viaggio di Telemaco alla ricerca del padre. vo, l’avventura. Questo Ulisse a tratti baldanzoso e spaccone, che sa essere crudele ma conosce la commozione, si sforza di tradurre in im- magini l’ampio spettro di emozioni e comportamenti che fanno dell’e- roe omerico un personaggio moderno, umano nelle sue fragilità, mostrandoci così senza veli mitologizzanti, ma con un pizzico di enfa- si eroica, le sue due opposte nature: Ci sono due diverse nature in me: una che ama la casa, la famiglia, il focola- re... e un’altra invece che ama i viaggi, il mare aperto, le strane forme di isole sconosciute, demoni, giganti. Eh sì, Euriloco, quante volte soffro di nostalgia per quello che non ho mai visto. Sulla medesima linea si colloca la rappresentazione dell’episodio delle Sirene: in Omero Odisseo viene indotto alla sosta presso i loro scogli dal fatto che le Sirene sanno tutto ciò che accadde sulla piana di Troia (è il «sentirsi raccontare», il sentire narrare le proprie gesta ad attirare l’eroe, e sentire che qualcuno lo celebra), e conoscono quello che capita «sulla terra feconda»; nel film di Camerini Ulisse riceve l’invito a fermarsi dalla voce di Penelope – e crede quindi di essere a Itaca – e poi ode parole pronunciate dal figlio. Come a dire che il suo nemico peggiore è l’angoscia che si porta dentro, un male tutto inter- no, quel richiamo alle virtù e alle responsabilità domestiche alle quali in verità non si sottrae con troppo dispiacere («férmati alla tua casa», gli sussurrano le Sirene, ed egli chiuderà l’episodio dicendo: «com’è lontana Itaca adesso»; ma un attimo dopo l’eroe fila veloce verso nuove avventure: «scoprirlo sarà interessante», afferma). Pur trattandosi di una fiction televisiva, andrà menzionata l’eccel- lente Odissea di Franco Rossi, del 1969, che si avvaleva del supporto per la sceneggiatura di un antichista quale Giampiero Bona e che van- tava – oltre a una premessa di inquadramento storico-archeologico – un’altissima fedeltà al dettato del testo omerico e una forte e riuscita psicologizzazione del personaggio, animato da dissidi interiori ignoti all’Ulisse di Camerini15. All’Odissea si ispira anche un poetico lungo- metraggio di Franco Piavoli, Nostos-il ritorno (1990). Il protagonista, 572 Andrea Rodighiero 15 Meno interessante, sia pure ricca di effetti speciali, ci pare l’Odissea di Andrei Kon- chalovsky, del 1997: icona del cinema sull’antico di tono impegnato rimane, ormai da mezzo secolo, l’attrice greca Irene Papas, da questa Odissea (Anticlea) a quella di Rossi (Penelope), al Banchetto da Platone di Ferreri (Diotima, 1988) all’Ifigenia e alle Troiane di Cacoyannis (Cli- temnestra ed Elena), all’Antigone di Javellas (Antigone). l’attore Luigi Mezzanotte – dal nome parlante non di Ulisse ma di Nostos16, ha le caratteristiche e l’abbigliamento dell’eroe omerico: muove dopo una guerra verso casa con i compagni. Molti sono i peri- coli e soprattutto i piacevoli richiami dei sensi (dall’amore alla grade- volezza del vivere in angoli di natura stupenda e mirabilmente foto- grafata), ma Nostos ritroverà la sua casa. 3. Orfeo Il mito di Orfeo ed Euridice gode di una fortuna cinematografica di buon livello. Da sempre letteratura e musica hanno prodotto variazio- ni sulla vicenda virgiliana del poeta che perde la propria amata e tenta di recuperarla scendendo agli inferi, facendo assumere al racconto una valenza sovratemporale che ha permesso anche al cinema di riappro- priarsene senza cedere alle limitazioni dell’ambientazione in costume. Sono gli anni Cinquanta a offrire nello spazio di un decennio i due tito- li di maggior interesse. L’Orfeo di Jean Cocteau (1950, protagonista Jean Marais) è una libera versione cinematografica di una pièce tea- trale del 1926. Anticipando i tempi (incontreremo analoghi procedi- menti attualizzanti in anni a noi più vicini) Cocteau ambienta la pelli- cola nella contemporanea Parigi esistenzialista, e le Baccanti destina- te come nel mito antico a fare a pezzi il corpo di Orfeo sono incarnate da un gruppo di femministe contrariate e deluse dal comportamento del poeta. «Al centro del dramma non è più la coppia Orfeo-Euridice, ma due coppie impossibili e due tragici amori: quello della Morte per Orfeo e quello di Heurtebise, servitore e chauffeur della Morte, per Euridice»17. In questo gioco di reciproci sentimenti mancati e nel tota- le narcisismo del protagonista18, che a scapito dell’affetto della moglie Cinema e mito classico 573 16 Così la didascalia iniziale: «I dialoghi del film sono ispirati a suoni di antiche lingue medi- terranee». 17 Cfr. M. Di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo ed Euridice tra pas- sato e presente, Firenze, Libriliberi, 2003, p. 120. 18 «Quando nel film Orfeo vede la Morte attraversare lo specchio, tenta invano di seguirla, e sviene quasi abbracciando la sua immagine riflessa nello specchio per lui impenetrabile. A que- sto punto c’è una dissolvenza, e nella sequenza successiva ritroviamo Orfeo svenuto, ma stavol- ta disteso presso una pozza d’acqua che riflette il suo volto [...] Per qualche fotogramma Orfeo è colto nella posa classica di Narciso alla fonte»: G. Pucci, Orfeo e la decima musa, in Orfeo e le sue metamorfosi. Mito arte poesia, a cura di G. Guidorizzi e M. Melotti, Roma, Carocci, 2005, pp. 168-178, pp. 171-172. ritrova un’ispirazione perduta negli strani messaggi provenienti da un’autoradio, si consuma il rito del viaggio agli inferi, dove Orfeo va in realtà a cercare la Morte. Riportando a casa Euridice, promette che mai si volterà a guardarla; ma uno specchietto retrovisore – gli spec- chi nel film sono simbolo e luogo di passaggio tra vita e morte – fa sì che gli sguardi dei due sposi si incrocino, e Orfeo perde nuovamente la moglie prima di venire straziato dalle Baccanti. Sulla trama classica però Cocteau incastona a questo punto un finale a sorpresa. Andando incontro al tremendo giudizio infero, la Morte innamorata ridarà vita a entrambi: Orfeo ed Euridice potranno tornare a una loro tranquilla quotidianità, con la promessa anche di un bambino in arrivo («biso- gnava rimetterli nella loro acqua sporca», afferma Heurtebise nella chiusa). Il francese Marcel Camus nel 1958 ambienta il suo Orfeu negro durante i giorni del carnevale di Rio de Janeiro, circondando il mito di un’atmosfera parossistica e costantemente scatenata; la musi- ca di Antonio Carlos Jobim accompagna questo moderno protagonista (un autista di autobus suonatore di chitarra) in un’avventura d’amore e morte che lo condurrà a cercare il corpo della sua Euridice, venuta a Rio per visitare una parente, lungo i corridoi di un Ade metropolitano (un palazzone spettrale dai tratti kafkiani in cui la burocrazia disperde nomi e storie in ammassi di faldoni e in frammenti cartacei irrecupe- rabili e confusi). Ma pur riuscendo a ricondurre il corpo morto dell’a- mata nelle favelas, subisce la vendetta della sua ex amante morendo in modo accidentale, mentre l’alba si leva sulla città e alcuni bambini sembrano raccogliere la sua eredità pizzicando le corde della chitarra rimasta a terra fracassata (il canto di Orfeo dunque continua, come nella quarta delle Georgiche virgiliane e nella scena della morte del cantore narrata da Ovidio in apertura del libro XI delle Metamorfosi, dove la testa mozzata e la lira, scivolando lungo le acque dell’Ebro, intonano un flebile lamento). In entrambi i casi, Cocteau e Camus, ci troviamo di fronte al tentativo serio – estraneo alla contemporanea fil- mografia italiana – di offrire dei miti antichi una più complessa lettu- ra. Rinunciando del tutto alla spettacolarizzazione e scegliendo di ricondurre all’età contemporanea il plot, i registi francesi ottengono ciò che altrove non era perseguito: fornire, attraverso una più sottile e psicologizzante lettura di quelle antiche storie, motivo di riflessione di carattere universale, dal ruolo dell’intellettuale famoso e engagé all’i- spirazione poetica, dalla spettacolarizzazione della cultura ai primi se- gni del femminismo, dalla fascinazione dell’aldilà all’anonimato me- 574 Andrea Rodighiero tropolitano (in vita e in morte) a cui l’uomo contemporaneo non riesce a sottrarsi. 4. I miti tragici La tragedia greca ha ispirato non poche rivisitazioni filmiche man- tenendo il più delle volte intatto il canovaccio drammatico offerto dal testo classico, ma ha anche dimostrato, di contro ai kolossal fintamen- te antichizzanti, una straordinaria abilità di adattamento e di camuffa- mento del mito in contesti contemporanei (segno, da un lato, della natura universale e moderna degli intrecci, e dall’altro della facilità, fin dalle origini, di adattare il teatro per il cinema). Rimane isolato il caso de Le Baccanti di Giorgio Ferroni, del 1960, un film che allontanandosi sensibilmente dalla trama euripidea si in- quadra in pieno nella stagione di fioritura del peplum, concedendo al pubblico un Dioniso, dio respinto da Penteo, dagli inequivocabili tratti cristianeggianti e contaminando la trama con intrecci amorosi e politi- ci che condurranno, alla fine, Penteo alla morte (non per smembramen- to, come nel dramma del poeta greco, ma in duello); nella metamorfo- si operata dalla sceneggiatura, le stesse protagoniste femminili «diven- tano tutte nobili di cuore e castamente innamorate, secondo il modello delle pagane e delle ebree convertite dei pepla storico-evangelici»19. Sono proprio gli anni Sessanta-Settanta a palesare lo sforzo di una riappropriazione del mito con un impegno intellettuale e politico igno- to al decennio precedente, per opera di autori riconosciuti come mae- stri. Non si tratta dunque solo di una ricollocazione nell’assetto del pensiero contemporaneo di storie classiche note: mito e tragedia, con- tenuto e genere che lo veicola, appaiono, anche nell’adozione fattane dalla decima musa, come un blocco unico e inseparabile ma capace di produrre infinite diffrazioni, dalla politica alla psicanalisi alla sociolo- Cinema e mito classico 575 19 Si veda ora l’acuta lettura offerta da Patrizia Pinotti, Tra “peplum” e cinema del mito: «Le Baccanti» di Giorgio Ferroni, in Studi e Materiali per le Baccanti di Euripide. Storia Memorie Spettacoli, a cura di A. Beltrametti, Pavia, Ibis, 2007, pp. 411-435: «Ferroni inaugura nel 1961 ed esaurisce nel 1964 la sua produzione storico-mitologica. Per l’esordio e per il congedo dal genere, sceglie due drammi euripidei, le Baccanti, per l’omonimo film del 1961, e l’Elena, per Il leone di Tebe, del 1964, assegnando allo stesso attore, l’ormai navigatissimo Alberto Lupo, ri- spettivamente, i ruoli di Penteo e di Menelao. Per la materia degli altri quattro pepla realizzati, Ferroni batte le piste più consolidate» con La guerra di Troia (1961), Ercole contro Moloch (1963), Il colosso di Roma e Coriolano, un eroe senza patria (1964). gia, da Eschilo (Prometeo in special modo) a Sofocle (soprattutto An- tigone ed Edipo, ma non mancano alcune Elettre), fino al meglio rap- presentato Euripide (Medea e la coppia Ippolito e Fedra). Un primo caso: il regista greco Michael Cacoyannis adatta Eu- ripide, Elettra (1961), Troiane (1971) e Ifigenia (1977), portando in esterno – e amplificando dunque lo spazio – ciò che normalmente viene agito nell’area circoscritta della scena, ma anche filmando sezio- ni che negli originali vengono soltanto narrate dalle lunghe rheseis dei personaggi20, nel rispetto del canovaccio mitico e con l’utilizzo di co- stumi e paesaggi (comprese vere rovine greche) che rimandano al mondo arcaico del mito tragico21. Un ben più cospicuo numero di pro- dotti si colloca viceversa al confine tra i generi, laddove il teatro “di- venta” film, vale a dire un testo teatrale viene riscritto, ristrutturato nella forma di una sceneggiatura con la programmatica rinuncia all’u- nità di tempo, luogo e azione del dramma antico; si alternano in que- sto gruppo di pellicole casi di assoluta fedeltà alla tradizione (non più al testo, alla versione tragica del mito) e prese di distanza con esiti a volte sorprendentemente autonomi. 4.1. Ippolito e Fedra Il mito di Ippolito e Fedra conosce un adattamento per il cinema in Desiderio sotto gli olmi di Delbert Mann (1958, con Sofia Loren, da un testo teatrale del 1925 di Eugene O’Neill), che ambientandolo in un’America rurale molto complica l’intreccio del dramma euripideo, allontanandosi da esso fino ad ammettere il reciproco amore tra matri- gna e figliastro, coetanei. Accanto ad esso si dovrà ricordare la Phae- dra di Jules Dassin e Margarita Liberaki (1962): in entrambi i casi al novello Ippolito presta il proprio volto Anthony Perkins, che contri- buisce con efebica ambiguità a restituire all’immaginario contempora- neo l’idea del giovane personaggio del mito. Ancora una volta la 576 Andrea Rodighiero 20 Un solo esempio a proposito di Elettra: «il racconto del messaggero relativo all’uccisione di Egisto nel corso di un rito in onore delle Ninfe viene tradotto nel film in una sequenza ambien- tata durante una festa dionisiaca [...] Rispettoso dell’originale euripideo, Cacoyannis rinuncia tut- tavia a mostrare la violenta morte di Egisto, scannato come un toro, e ne affida la descrizione ai versi della tragedia», M. Salotti, L’effetto intimidatorio di Euripide nell’«Elettra» di Cacoyannis, in Il mito classico e il cinema, cit., pp. 27-35, p. 31. 21 Cfr. anche R. Romeo, «Ifigenia» di Michael Cacoyannis, ivi, pp. 41-45. modernità dell’intreccio antico permette un “riarrangiamento” del plot ai giorni nostri (sullo sfondo di tragedie collettive – come l’affonda- mento della nave Phaedra con i suoi lavoratori a bordo – che tradi- scono l’intento di denuncia sociale della pellicola): Fedra sposa un ricco armatore greco nella speranza di assicurare al proprio figlio una cospicua eredità, ma suo malgrado si innamora, ricambiata, del giova- ne figliastro. Se considerate solo sul piano della meccanica della sto- ria, tali trasposizioni funzionano, ma risulta evidente che gli aspetti sacrali e religiosi generalmente legati al mito tragico (e in special mo- do operanti proprio nell’Ippolito: Afrodite vs Artemide) vengono sacri- ficati da una inevitabile modernizzazione, che rimpiazza gli elementi magici con più credibili strumenti della moderna tecnologia. L’Ip- polito del film di Dassin non incontra infatti un toro marino sul suo cammino a bordo di un carro, ma ostacolato da un camion precipita da una scogliera con la sua macchina sportiva. 4.2. Edipo; Antigone Nel 1967 Pier Paolo Pasolini filma la sua versione dell’Edipo re di Sofocle, protagonisti Franco Citti nella parte di Edipo e Silvana Mangano in quella di Giocasta. Con il superamento della forma chiu- sa del dramma, il mito tragico viene rinarrato attraverso il dilatarsi dei tempi del racconto, e molto spazio viene da Pasolini concesso all’an- tefatto, a ciò che sta prima del testo sofocleo. Prologo ed epilogo sono inoltre collocati nei contemporanei anni Sessanta, e proprio lì Pasolini fornisce in parte la chiave di una personale rilettura del mito, riconsi- derando freudianamente i primi anni di vita del piccolo Edipo nel suo simbiotico rapporto con la madre (che scatena odio e rivalità erotica del padre verso il figlioletto: «stringendo convulsamente i piedi del figlio, il padre proietta la storia, con una transizione giustamente loda- tissima, nei climi arsi del mito»)22. È significativo che il film si chiu- da là dove si era aperto, nella Casarsa di Pasolini, il quale in sceneg- giatura ricorda che Edipo alla ricerca di una moderna Colono va a morire presso «il sublime angolo folto di salici, argentei, rustici e sel- vaggi, che lasciano cadere i loro rami sull’acqua che se ne va lenta. Il Cinema e mito classico 577 22 G. Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Torino, Einaudi, 1994, p. 206. luogo dove per la prima volta, gli occhi di Edipo distinsero e riconob- bero la madre»23. Oltre a condurre Edipo dalla culla al luogo di morte, dunque, il poeta-regista – come avverrà per Medea – inserisce sezioni del rac- conto che non collimano perfettamente con i fatti agiti sulla scena nella tragedia (dove l’incontro con la Sfinge è solo evocato, così come la visita al santuario delfico o la morte di Laio, che Pasolini rappre- senta in una sequenza di lunghezza sproporzionata rispetto alla trama, «come icona estrema dello scontro fra le generazioni: Edipo attende- rebbe soltanto “una parola gentile dell’altro, un invito civile a cedere”, ma gentilezza e civiltà sono impossibili “perché quell’uomo è il pa- dre”. La figura ieratica di Laio e la sua monumentale corona fissano perfettamente in termini visivi l’esautorazione sanguinosamente per- petrata»)24. Sulla ripresa il più delle volte puntuale dei versi sofoclei Pasolini inserisce circostanze nuove, quali la violentissima reazione di Edipo, che passa alle mani, dopo il serrato – e fedele alla fonte – dia- logo con Tiresia (Julian Beck); e viceversa la scoperta dell’assassinio e dell’incesto assume nel film un tono privato, intimo, privo di quella dimensione pubblica che caratterizza il dramma: nella riservatezza di una conversazione durante una passeggiata con Giocasta e nel chiuso della camera da letto (dove con frequenza inusitata i due si amano nel corso di tutto il film, un’esagerazione cercata) Edipo raggiunge la con- sapevolezza delle proprie colpe. Non si può fare a meno di notare un’assenza importante, quella dei figli, che pure compaiono (le figlie addirittura sulla scena) nella chiusa dell’Edipo antico. Non sarà Anti- gone ad accompagnare Edipo fuori Tebe dopo che Giocasta si sarà impiccata, ma Angelo (angelos, il messaggero: Ninetto Davoli). Oltre all’Antigone di Yorgos Javellas (1961), tragedia filmata, sarà da ricordare una riscrittura dell’ultima parte del mito dei Labdacidi che a pieno titolo si inserisce nella ideologizzazione operata dal cinema di quegli anni. I cannibali di Liliana Cavani (1971, scritto in collabora- zione con Italo Moscati) si configura come un tentativo di indurre una riflessione sui limiti e i rischi del capitalismo e dei poteri forti25 e, in 578 Andrea Rodighiero 23 P.P. Pasolini, Edipo re, ora in Per il cinema, tomo primo, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, pp. 969-1052 (cit. a p. 1052). 24 G. Paduano, «Edipo re» di Pasolini e la filologia degli opposti, in Il mito greco nell’ope- ra di Pasolini, a cura di E. Fabbro, Udine, Forum, 2004, pp. 79-98, cit. a p. 84 (le parti virgolet- tate sono da Edipo re, in Pasolini, Per il cinema, cit., p. 1001). 25 «Lei sa che in ogni società di capitalismo avanzato c’è nei giovani un potenziale rivolu- una dimensione più privata, sui conflitti tra generazioni, andando per- ciò al cuore del dibattito: il mito si fa strumento di pensiero, non infi- ciato da un vocabolario (anche un vocabolario di immagini) stretta- mente sessantottesco. In una Milano moderna e irreale si vieta la sepoltura dei morti di una recente rivolta: Antigone, rampolla di una famiglia borghese e vicina ai militari, assume maggior consapevolez- za dopo l’incontro con un profetico e cristico Tiresia (si pensi ai sim- boli del pesce e del pane) che la aiuta a seppellire prima il cadavere del fratello e poi quanti più cadaveri possibile. Il passaggio dalla ribellio- ne contro il proprio mondo domestico all’universale valore della tra- sgressione e dell’utopia in seno a una società succube e spenta26 deter- mina però il rischio di una più violenta repressione: «la ragazza che ha osato rubare i corpi al popolo» viene catturata, interrogata e picchiata, Tiresia mostrato in televisione come un nuovo Mowgli e messo in manicomio; ma in virtù di tale esito Emone si sottopone suo malgrado a un’iniziazione che lo induce a contrapporsi al primo ministro, il padre Creonte («siete un branco di assassini») e a continuare la rivol- ta. La scelta di assimilarsi ai comportamenti della compagna lo porta «a negare la socialità e il linguaggio, e a regredire a uno stadio anima- lesco, che viene comunque sentito come più autentico. Le modalità espressive della tragedia greca e del film sono ovviamente assai diver- se, ma in comune c’è l’assimilazione progressiva del giovane figlio di Creonte alla diversità radicale di Antigone»27, fino alla sua reclusione in isolamento. Falcidiati da una raffica di mitra in una pubblica esecu- zione, Antigone e Tiresia sembrano chiudere un imbarazzante capito- lo: «l’ordine è ristabilito». Ma il loro sacrificio scatena nuovi seppelli- tori, gli ex ricoverati; sembra perciò suggerire la Cavani, alla fine del film, che se davvero una rivoluzione è possibile essa sarà affidata ai portatori di un non-pensiero, di una riflessione disarticolata dalla fol- lia, agli emarginati di un ospedale psichiatrico28. Cinema e mito classico 579 zionario che noi esperti cerchiamo di prevedere attraverso indagini statistiche»: sono le parole che un “tecnico” ministeriale rivolge ad Antigone. 26 In un’atmosfera dittatoriale il cronista del telegiornale recita così: «Le iniziative prese dal governo si dimostrano efficaci, e trovano il consenso generale dell’opinione pubblica. La legge e l’ordine si fondano sulla collaborazione di tutte le forze democratiche: sull’efficienza della dife- sa, sulla magnificenza dei valori civili...». 27 Cfr. M. Fusillo, Antigone sullo schermo, in «Maia», 54, settembre-dicembre 2002, pp. 515-526 (cit. a p. 519). 28 «Si avverte in modo molto tangibile l’eco dell’antipsichiatria contemporanea»: Fusillo, Antigone sullo schermo, cit., p. 518. Edipo sindaco (titolo originale: Edipo alcalde) è una versione co- lombiana e contemporanea dell’Edipo sofocleo, opera del regista Jorge Alí Triana; autore del soggetto è Gabriel García Márquez (sul como- dino del protagonista compare anche una copia di Cronaca di una morte annunciata). Dai titoli di testa si ricava che il film, del 1996, è «basado en Edipo Rey de Sófocles», e l’adesione alla struttura narrati- va del dramma greco è effettivamente forte, fino al reimpiego di ampi inserti testuali (come accade in un teso dialogo tra Edipo e Tiresia, un cieco e preveggente costruttore di casse da morto: si veda poco sotto). Mandato tra le montagne dal governo centrale per ridare ordine a una cittadina devastata dalla guerra civile e dalla politica di faccendieri locali, Edipo, un prefetto zoppo, combatte contro l’arroganza e la vio- lenza dei potenti proprietari terrieri e delle loro milizie. Alcune sosti- tuzioni di cornice, apparentemente devianti, mirano in realtà a conser- vare la struttura narrativa dell’originale: in assenza di peste è la guer- ra a fare strage tra la popolazione; Edipo dopo aver ucciso inconsape- volmente il più potente dei proprietari terrieri (Laio) diventa il compa- gno della vedova Giocasta. Rimosso dunque il contorno mitico, la vita politica costituisce il perno attorno a cui la vicenda si muove: il ruolo della Chiesa assume un valore di rilievo nelle trattative tra le parti, e anche con l’aiuto di un sacerdote che verrà assassinato Edipo vuole ripristinare le garanzie costituzionali, lavora per la pace e tende la mano ai guerriglieri accusando Creonte del sequestro e della morte di Laio nonché di una politica che favorisce confusione e violenza. Creonte gli risponde che solo un figlio avrebbe potuto uccidere Laio («a meno che quel figlio non sia lei»): tale è la diceria che si sta dif- fondendo nelle taverne. Così Tiresia predice a Edipo la sua sventura (si tratta di una sintesi fedele del discorso dell’indovino nell’Edipo sofo- cleo: vv. 316-462): Non temo niente, perché conosco la verità che è potere [...] Dico che l’uomo che stai cercando vive qui vicino in abominevole incesto, e non si rende conto del suo obbrobrio, ed è qui, proprio fra noi, e molto presto si saprà che è l’as- sassino del suo stesso padre, figlio e sposo della donna che lo ha partorito, e inoltre padre e fratello del figlio che avrà con lei. Nel precipitare degli eventi, dopo l’autopsia del cadavere di Laio (che ha lo stesso volto del figlio) e con lo svelamento della verità da parte di una nutrice il mito edipico viene compattato esclusivamente sulla vicenda del protagonista: alla morte suicida di Giocasta, che 580 Andrea Rodighiero porta in grembo il figlio di suo figlio, segue un finale che per pochi istanti recupera il secondo Edipo: vagando solo come un barbone, nel traffico di una grande città, l’Edipo colombiano non conosce nemme- no il sostegno delle figlie, né si possono annunciare – in assenza di discendenti – guerre fratricide a venire. 4.3. Medea Alla vicenda della maga di Colchide, più che a ogni altro mito, si è ispirato il cinema (e non solo) degli ultimi decenni29. Dopo l’Edipo Pier Paolo Pasolini torna al mondo antico nel 1969 con Medea (la di- stribuzione è dell’anno successivo), protagonista Maria Callas: andrà subito ricordato che Carl Theodor Dreyer nel 1962 «aveva pronte 46 cartelle con la sceneggiatura di una Medea da girare in Grecia», mai realizzata, con la stessa Callas, e «tra le carte del fondo Pasolini è stata ritrovata la versione inglese dello “scenario” di Dreyer»; non vi è dun- que dubbio che Pasolini si sia qua e là ispirato al celebrato maestro del cinema danese30. Il poeta-regista non intende però trasporre senza mediazione il dramma in pellicola; non mancano sezioni che riprodu- cono Euripide alla lettera (si ascolti il dialogo tra Medea e Creonte che le ordina di lasciare Corinto)31, ma Pasolini racconta al pubblico anche le premesse del testo tragico, partendo da Giasone bambino cresciuto sotto la guida del Centauro Chirone, il quale gli riapparirà molto dopo in aspetto di uomo, come a sancire la distanza del protagonista maschi- le da un’infanzia mitologica in cui ancora dominava l’elemento reli- gioso sul razionale. Molto spazio viene inoltre concesso alla “fase col- chica” del racconto, che vede Medea alle prese con gli Argonauti venu- ti a conquistare il Vello d’oro. Attraverso l’inserto di quella parte della leggenda conosciuta ma non rappresentata da Euripide, Pasolini ha Cinema e mito classico 581 29 Ci si permette di rinviare, oltre al saggio di E. Mengaldo nel presente volume, per la parte cinematografica anche ad A. Rodighiero, «Ne pueros coram populo Medea trucidet»: alcuni modi dell’infanticidio, in Ricerche euripidee, a cura di O. Vox, Lecce, Edizioni Pensa Multime- dia, 2003, pp. 115-159. 30 Cfr. M. Rubino, «Medea» di Pier Paolo Pasolini. Un magnifico insuccesso, in Il mito gre- co nell’opera di Pasolini, cit., pp. 99-108, p. 107. Pasolini tra 1968 e 1969 si era anche recato in Africa per realizzare una serie di riprese preparatorie per la trasposizione del mito di Oreste, il cui esito è il film-documentario Appunti per un’Orestiade africana. 31 Per il confronto tra testo di Euripide e scene pasoliniane si veda G. Ieranò, Tre Medee del Novecento: Alvaro, Pasolini, Wolf, in Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di B. Gentili e F. Perusino, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 177-197, pp. 183-185. buon gioco nello strutturare il racconto in un dittico dalle indissolubi- li connessioni, nonostante la rappresentazione rurale e primitiva del mondo dei Colchi favorisca l’impressione di un’incolmabile distanza fra l’universo primitivo di Medea e la Corinto civile e ordinata nella quale Giasone cerca nuove nozze. A questo proposito Massimo Fusillo ha giustamente parlato di «modi del doppio» (formale e culturale insieme) come metodo consueto del regista32. Entro il paesaggio della Cappadocia – le cui grotte sono affrescate dai segni della chiesa orto- dossa – si muove nella prima parte del film una Medea-Callas forte- mente caratterizzata da una sacerdotale ieraticità; il personaggio non manifesta cedimenti (a differenza del modello euripideo), salvo scate- nare un’inattesa e violenta crudeltà, oltre che nel sacrificio umano durante la celebrazione di un rito di fertilità, nell’uccisione del fratel- lo. Sul crinale di due distinti universi culturali, Medea fa a pezzi Apsirto33 a colpi d’ascia, ammantata di una furia che lascia attoniti gli stessi Argonauti. La sacerdotessa-maga sparge per la campagna i pezzi del corpo sacrificato al suo nuovo amore, permettendo così la fuga di Giasone e costringendo il padre Eeta alla raccolta dei resti del figlio, distogliendolo dall’inseguimento. Mircea Eliade e il suo Trattato di storia delle religioni servono a Pasolini per dipingere una mitologia dai più vasti confini, che accanto al mondo greco collochi la primitiva ritualità descritta dalle ricerche antropologiche e storico-religiose34. Manca però, a segnare una frattura netta rispetto all’idea di “magico” sviluppata attorno al mito medeico, un reale potere attivo degli ele- menti simbolici, che assumono il solo valore di oggetti consacrati dal rituale: si pensi per converso ai prodigi messi in scena in una pellico- la peplum come Gli Argonauti solo pochi anni prima35. Se il centro della vicenda medeica e la ragione della sussistenza del suo mito ripo- sano nell’episodio dell’infanticidio, anche qui Pasolini prende le 582 Andrea Rodighiero 32 Tra tutti, il doppio sogno di Medea, che prefigura anzitempo la fine di Glauce e Creonte; si veda M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 127-179. 33 Per la morte di Apsirto Pasolini si attiene a una fonte classica: Ovidio, Tristia, III, 9, vv. 25-34 e Heroides, VI, 129-130. 34 Su cui Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., pp. 20-21 e 158-159. 35 Si tratta di una delle rare produzioni di area inglese, un film del 1963 nel quale Medea appare come un’eroina positiva, ma cosciente di dover tradire o il suo popolo o l’amore; la pel- licola risultava particolarmente spettacolare per l’uso di effetti speciali che cercavano di rendere vividamente l’idea di alcuni personaggi mostruosi, come il gigante di bronzo Talos, le Arpie o l’Idra. distanze dal modello tragico per offrirci – accanto alla novità di un rin- novato interesse erotico di Giasone per la propria donna ripudiata, come in Dreyer e in Lars von Trier – una figura femminile distaccata e solenne, che a differenza della Medea originale mai rivela l’inten- zione di vendicarsi sui figli (in realtà Pasolini aveva in parte inserito nella sceneggiatura i versi 764-806 del dramma – nei quali viene annunciata la morte dei piccoli – alla scena 72: la sezione non è però poi stata inclusa nelle riprese). Contraria alla rappresentazione di una Medea veemente, Maria Callas prepara con sacerdotale compostezza il duplice omicidio, invisibile agli occhi del pubblico – come nel dram- ma di Euripide – ma metonimicamente rappresentato da una doppia inquadratura sul coltello. È oramai lontanissima la Medea tragica co- stretta, per pochi istanti, a non essere più madre (Euripide, Medea, vv. 1244-1250), che sospende la propria maternità per poter allentare la morsa dei sentimenti ed esercitare la vendetta sopportando un crimine diventato necessario. Il rito del sacrificio dei figli è compiuto nella più totale impassibilità: dopo averne lavato i corpi come vittime designate e mentre una nenia giapponese intonata dal pedagogo sottolinea il grado di straniamento e di distanza rispetto a qualsiasi coinvolgimen- to emotivo, solo nella scena ultima Medea-Callas comunica il suo furore con gesti sregolati e una vocalità rauca, mentre l’incendio av- volge la casa. Dopo aver vissuto una “conversione alla rovescia”, dopo essere passata al mondo civilizzato, Medea nel finale torna a essere semplicemente una maga. Pasolini sceglie di non chiudere la storia con un epilogo sulla protagonista: non la si vede partire verso l’accoglien- te Atene (il re Egeo non compare nemmeno)36, e il film termina su un perentorio «niente è più possibile ormai», urlato da Medea al proprio sposo, desideroso di seppellire i bambini (si vedano i versi 1402-1404 della Medea di Euripide: «per gli dèi, permettimi di sfiorare la delica- ta pelle dei miei figli», «non è possibile, sono parole sprecate») men- tre all’orizzonte il Sole, l’antico progenitore, sorge luminosissimo. È proprio la ricordata sceneggiatura di Dreyer a costituire il tratto comune tra Pasolini e il film per la tv dell’allora trentaduenne Lars von Trier. Nel 1988 il regista danese in 76 minuti condensa le vicende della tragedia – scegliendo dunque il taglio netto, a differenza di Pasolini, dei prodromi del mito – in un’atmosfera rarefatta e dai toni cupi. La Cinema e mito classico 583 36 In realtà alcuni fotogrammi non entrati nella versione definitiva mostrano Medea salire, come nella tragedia greca, su un carro. pioggia e la nebbia sono gli eventi atmosferici più frequenti, e nell’ac- qua Medea sembra essere perfettamente a suo agio: in una sorta di palude trova anche, e raccoglie, le bacche avvelenate destinate a Glau- ce. Contro un realismo di maniera Von Trier ambienta dunque il mito sulle coste della Danimarca in una sorta di Medioevo vichingo, e appli- ca un mutamento sensibile, nel rapporto spaziale e temporale, rispetto all’ipotesto di partenza. Prendendo a prestito da Dreyer «la traccia di un copione possibile»37 per un film rimasto da realizzare, Von Trier prefigura in Medea un modello di donna vittima e perdente che tende a replicarsi nella sua filmografia successiva: da Le onde del destino, a Dancer in the dark fino a Dogville. Già si è visto come Pasolini, sulla scia di Dreyer, avesse scelto di fare incontrare Giasone e Medea per un ultimo amplesso prima della catastrofe finale38; alla naturalezza di quei gesti Von Trier sostituisce i modi violenti di un uomo che schiaffeg- giando la moglie la definisce «puttana»: il legame di attrazione e di tensione tra i due fatica a sciogliersi, e sarà la morte del sovrano Creonte e della promessa sposa a determinare la fuga della donna e a condurre lo spettatore al momento insieme più luminoso e più tragico del film. Lars von Trier sceglie infatti per l’infanticidio la soluzione più agghiacciante tra tutte le riprese teatrali e cinematografiche del mito, portando alla vista del pubblico ciò che nel dramma euripideo era agito dietro le quinte. In un’alba dai contorni pacificati Medea immersa nella campagna illuminata dal sole impicca i figli ai rami di un albero secco. Fonti antiche o precedenti modelli non potevano far muovere il regista in questa direzione39, ma è curioso il fatto che Hel, divinità femminile che nelle saghe nordiche per volontà di Odino pre- 584 Andrea Rodighiero 37 Si rinvia a M. Rubino - C. Degregori, Medea contemporanea (Lars von Trier, Christa Wolf, scrittori balcanici), Genova, DARFICLET, 2000, pp. 31-79 (alla Giovanna d’Arco di Dreyer, peral- tro, rinvia esplicitamente l’abbigliamento dell’attrice Kirsten Olesen-Medea). 38 Prima della sceneggiatura di Dreyer e di Pasolini «solo Catulle Mendès [Médée, 1898] presenta i due ex sposi, dopo l’alterco, ancora attratti fisicamente l’una dall’altro»: A. Caiazza, Medea: fortuna di un mito (quarta parte), in «Dioniso», 64, 1994, pp. 155-166, p. 156, nota 5. 39 Nella Medea portata sullo schermo da Jules Dassin in A Dream of Passion (presentata a Cannes nel 1978) il regista «surroga la violenza fisica, viscerale, del comportamento della Medea di Euripide con una rievocazione della strage dei figli di una crudezza grandguignolesca»: M. Manciotti, «Cri de femmes» di Jules Dassin. Tra Euripide e Brecht, in Il mito classico e il cine- ma, cit., pp. 7-10; cfr. anche I. Christie, Between Magic and Realism: Medea on Film, in Medea in Performance 1500-2000, a cura di E. Hall, F. Macintosh e O. Taplin, Oxford, Legenda, 2000, pp. 144-165. La protagonista, una vecchia attrice di nome Maia, vuole recitare Medea, e per que- sto incontra in carcere una Medea contemporanea (una donna che ha ammazzato i figli per i tra- dimenti del marito) fino ad assorbirne idealmente lo spirito per poter meglio impersonare il per- sonaggio euripideo nel teatro di Delfi. siede agli inferi (e ipostasi dell’inferno), uccida con lacci e corda, e che Odino stesso resti impiccato ai rami di un albero cosmico40: allo straniamento dei luoghi si accompagna, forse, anche l’adozione di tra- dizioni mitografiche di differente filiera. In un tempo sproporzionato rispetto alla durata della pellicola, l’infanticidio per impiccagione viene descritto con una ricchezza di dettagli che aumenta drammatica- mente il realismo, offrendo tuttavia l’idea di un dissidio interiore ben lungi dal dissolversi in ferma determinatezza (una Medea distante dalla ieraticità pasoliniana); e un elemento nuovo rispetto alla norma- le funzione narrativa svolta dai personaggi viene inserito proprio per fare meglio risaltare tale conflitto. Il maggiore dei figli di Medea è infatti conscio di quanto sta per accadere («io so quello che deve suc- cedere», e ancora: «aiutami mamma»), e – mentre il montaggio alter- nato mostra i funerali di Glauce e Creonte, nonché Giasone che si getta alla ricerca dei figli – sarà lui a organizzare la propria morte, prestan- do prima aiuto alla madre nella soppressione del fratellino e poi por- gendo a Medea i lacci che gli stringeranno il collo. L’obbedienza dei bimbi pasoliniani è un’obbedienza ignara: qui uno dei piccoli viene investito di una sconcertante consapevolezza, entrando come soggetto attivo nella costruzione dell’intreccio, diventando egli stesso il motore dell’azione. Prepara il cappio, sollevato dalle braccia della madre e se lo infila intorno al collo: L’omicidio dei figli per impiccagione mi sembrava più efficace e coerente. O li si uccide o no. Bisogna mostrare l’azione per quello che è. Non c’è nessu- na ragione per fare in modo che le cose appaiano più innocenti di quello che sono41. Del messicano Arturo Ripstein, infine, è Así es la vida (2000) che come si legge nei titoli di coda è «inspirada en Medea de Séneca». I personaggi del mito antico vestono panni moderni, e la modifica di no- mi e luoghi rende difficile un sistematico confronto con l’originale. Ciò che rimane intatto è lo scheletro della storia: la ripetibilità dello schema mitico permette a Julia di presentarsi allo spettatore come una moderna Medea, insediata in un palazzone della periferia di Città del Messico e tradita da un marito che rinuncia a lei per sposare la figlia di un picco- Cinema e mito classico 585 40 Cfr. più nel dettaglio Rodighiero, «Ne pueros coram populo», cit., p. 142. 41 Sono parole dello stesso Lars von Trier, ne Il cinema come Dogma. Conversazioni con Stig Björkman, Milano, Mondadori, 2001 (ed. orig. 1999), pp. 114-124, p. 121. lo boss locale. Vestendo i panni di una maga dei nostri giorni, la prota- gonista del film di Ripstein, oltre all’aborto clandestino, pratica la medicina alternativa su chi richieda il suo servizio. La modernità di questa Medea si misura nella totale verosimiglianza e plausibilità della storia: in altre parole, il mito tragico si trasforma in una realtà possibi- le nella quale sono soprattutto i giochi di relazione, il rinnegamento degli affetti e il ripudio dei legami a produrre la catastrofe; così Julia, costretta ad abbandonare lavoro, casa e marito, sconvolta e lasciata sola, uccide i figli a colpi di coltello42: il maschietto nella vasca da bagno e la figlia sulla sommità delle scale (il pubblico non vede per intero, ma scorge confusamente il gesto omicida). Medea-Julia come nella chiusa del dramma latino consegna i figli al padre lasciandoli giacere dove sono, e si allontana in taxi, moderno carro del sole. 4.4. Gli Atridi I miti tragici hanno dunque dato vita, su strutture narrative simili a quelle del dramma attico, a versioni che si configurano come una com- pleta rivisitazione di nomi, tempi e luoghi. Un altro buon esempio di questo genere di riscrittura cinematografica è costituito da Luna rossa di Antonio Capuano (2001), film efficacemente duro per linguaggio e immagini. Costruito come un lunghissimo flash-back, esso mette in scena la storia della famiglia Cammarano – che controlla la camorra locale – rivisitata dal punto di vista di Oreste, un figlio che si vendi- cherà di tutti consegnandosi alla polizia dopo aver sterminato la fami- glia. Assumendo come impianto di base il mito degli Atridi, il film di Capuano si apre con l’atteso ritorno a casa di Amerigo/Agamennone, il quale verrà ucciso per volontà di Egidio/Egisto, che con la moglie di Amerigo intreccia una relazione. Dei tre figli di Amerigo, una – come Ifigenia – verrà sacrificata dalle violente logiche interne, e tra Ur- sula/Elettra e Oreste si intreccia una relazione morbosa. Mentre sullo sfondo sfilano episodi di vita politica nazionale, tra ministri corrotti e attività mafiose, la famiglia si sfalda lasciando posto a faide intestine e a vendette personali in una catena ininterrotta di delitti; sarà Oreste, di ritorno a casa dopo sette anni, a riportare un ordine apparente azze- 586 Andrea Rodighiero 42 In questa sezione il film è molto vicino al dettato senecano: cfr. Rodighiero, «Ne pueros coram populo», cit., pp. 152-154, e F.J. Tovar Paz, «Medea» de Séneca en «Así es la vida» (2000), filme de Arturo Ripstein, in «Revista de Estudios Latinos», 2, 2002, pp. 169-195. rando con l’uso della violenza tutti i contrasti, per poi scoprire, prima di uccidere la propria madre e di ritrovare l’affetto di Ursula/Elettra, di essere figlio di Egidio/Egisto (una novità rispetto al dettato tradiziona- le). Operando solo come matrice, la saga degli Atridi subisce modifi- che vistose, ma anche l’inserzione di personaggi secondari (come Elena, detta «la greca») mira a dare l’impressione di vicinanza e affi- nità tra moderne epopee familiari e mito antico. 5. Tracce, inserti, citazioni Non saranno infine da escludere da questa breve carrellata le opere che nell’impianto generale contengono una magari vaga vocazione mitologica, prendono a prestito sfumati motivi classici o reimpiantano nel film una storia riverberante le trame antiche, fino ai casi estremi nei quali il mito, insieme all’utilizzo che ne fece la tragedia, serve solo da sfondo o da contrappunto: ciò che ad esempio accade con l’impiego del coro greco ne La dea dell’amore di Woody Allen (del 1995, a cui si aggiungano l’episodio edipico in New York Stories, del 1989, e i rife- rimenti a Elettra, Clitemnestra e Edipo in Pallottole su Broadway, 1994). Ma se ci si muove verso quei prodotti nei quali l’interferenza è meno evidente, ancorché presente in sottotraccia, dovremo distingue- re tra l’assunzione di valori simbolici forti mutuati dal racconto antico e casi in cui la citazione e l’inserto sono utili per una più precisa con- notazione di episodi singoli. Si pensi all’infinità di variazioni possibi- li sullo schema del viaggio odisseico, da 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968), a Fratello dove sei? di Joel e Ethan Coen (2000), a Son de mar di Bigas Luna (2001, ma la lista si potrebbe al- lungare), alle citazioni classiche in molti film di guerra, come in aper- tura di All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone (1930)43, all’im- pianto dionisiaco nella caratterizzazione del cantante Jim Morrison in The Doors di Oliver Stone (del 1991)44, al baccanale mitologico Cinema e mito classico 587 43 Su cui si veda G. Avezzù, L’impossibile ritorno dal Fronte Occidentale (E.M. Remarque, L. Milestone e «Odissea» I, v. 1), in «Kleos», 7, 2002, pp. 7-10; più in generale M.M. Winkler, «Dulce et decorum est pro patria mori»? Classical Culture in the War Film, in «International Journal of the Classical Tradition», 7, 2, 2000, pp. 177-214. 44 «In The Doors, Oliver Stone, obviously conscious of Nietzsche, characterizes the young rock-god Jim Morrison as a Dionysiac figure with an Apollonian, i.e. Belvederean, face»: J.D. Solomon, In the Wake of «Cleopatra»: The Ancient World in the Cinema since 1963, in «The Classical Journal», 91, 2, 1996, pp. 113-140, pp. 128-129. accompagnato dalla Pastorale di Beethoven in Fantasia di Walt Disney, con pegasi, satiri, amorini, centauri, Dioniso, Iride... (1940). Un caso efficace di doppia inserzione – teatro nel cinema e testo anti- co nella sceneggiatura moderna, con potente effetto di mise en abîme – è offerto da Teatro di guerra di Mario Martone (1998), dove l’antico è qualcosa di più che un semplice contorno. Sull’eco del conflitto nella ex-Jugoslavia una compagnia napoletana che si riunisce in un magaz- zino dei quartieri spagnoli prova I sette a Tebe di Eschilo, con l’inten- zione di portarli in scena a Sarajevo45. Nel complesso e intenso film di Martone si incrociano tre distinti piani: «l’eco di Sarajevo, la reale messa in scena dello spettacolo e la vita degli attori; dunque anche tre distinte cifre si mescolano: la riflessione sul tragico, quella sul ruolo del teatro e quella autobiografica»46. Il pubblico vede così filmate prove vere di uno spettacolo vero, assiste a un montaggio del testo eschileo dentro la cornice filmica, dal lavoro preliminare sull’origina- le al dibattito intorno alla messinscena, fino agli interrogativi che il protagonista, il regista Leo, si pone sul senso dell’operazione, indu- cendo la sensazione che Tebe con i suoi miti di lotte fratricide non sia così lontana né dalla Bosnia né dal costante assedio nel quale la città di Napoli viene tenuta dalla criminalità. Nota bibliografica Per un inquadramento generale del rapporto tra mondo antico e decima musa si vedano M.M. Winkler, Classical Mythology and the Western Film, in «Comparative Literature Studies», 22, 1985, pp. 517-540; V. Attolini, Il cine- ma, in Lo spazio letterario di Roma antica, a cura di G. Cavallo, P. Fedeli e A. Giardina, IV, Roma, Salerno editrice, 1991, pp. 431-493 (dedicato in spe- cial modo a Roma); M.M. Winkler, Cinema and the Fall of Rome, in «Transactions of the American Philological Association», 125, 1995, pp. 135- 154; J. Solomon, In the Wake of «Cleopatra»: The Ancient World in the Cinema since 1963, in «The Classical Journal», 91, 2, 1996, pp. 113-140; J.J. Clauss, A Course on Classical Mythology in Film, in «The Classical Journal», 91, 3, 1996, pp. 287-295 (con una sintetica lista dei film mitologici e rifles- 588 Andrea Rodighiero 45 Già La recita di Theo Angelopoulos, del 1975, metteva insieme temi politici e teatro, rical- cando nelle vicende familiari di una compagnia di attori itineranti lo schema del mito degli Atridi sullo sfondo della storia di Grecia tra il 1939 e il 1952. 46 A. Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della tragedia greca, premessa di M. Fusillo, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 86-100, p. 95. sioni didattiche); M. Wyke, Projecting the past. Ancient Rome, Cinema, and History, New York-London, Routledge, 1997 (con acute analisi del rapporto tra cinema, modelli classici, politica e opinione pubblica); M.M. Winkler, «Dulce et decorum est pro patria mori»? Classical Culture in the War Film, in «International Journal of the Classical Tradition», 7, 2, 2000, pp. 177-214; J. Solomon, The Ancient World in the Cinema (revised ed.), New Haven, Yale University Press, 2001 (attualmente, insieme al titolo successivo, il repertorio più completo, comprendente ampie sezioni sul cinema delle origini, sul peplum e sul rapporto con la tragedia); M.M. Winkler (ed.), Classical Myth and Culture in the Cinema (2nd ed.), Oxford, Oxford University Press, 2001; La nuova musa degli eroi. Dal mythos alla fiction, a cura di A. Camerotto, C. De Vecchi, C. Favaro, Treviso, Fondazione Cassamarca, 2008; M.M. Winkler, Cinema and Classical Texts. Apollo’s New Light, Cambridge; G. Avezzù, L’impossibile ritorno dal Fronte Occidentale (E.M. Remarque, L. Milestone e «Odissea» I, v. 1), in «Kleos», 7, 2002, pp. 7-10; U. Eigler (ed.), Bewegte Antike. Antike Themen im modernen Film, Stuttgart-Weimar, Metzler, 2002 (saggi su Von Trier, Pasolini, il Satyricon di Fellini); M. Salotti, Classici e cinema, in Atti del XV e XVI congresso internazionale di studi sul dramma antico, Siracusa 1995 e 1997, a cura di C. Barone, Padova, Esedra, 2002, pp. 33-42; Tutto quello che sappiamo su Roma l’abbiamo imparato a Hollywood, a cura di Laura Cotta Ramosino, Luisa Cotta Ramosino e C. Dognini, Milano, Bruno Mondadori, 2004; A. Rodighiero, Immagini in movimento. Alcune riappropriazioni cinematografiche, in Iconografia 2005, Atti del Convegno Internazionale, Venezia 26-28 gennaio 2005, a cura di I. Colpo, I. Favaretto, F. Ghedini, Roma, Quasar, 2006, pp. 373-381. Sul peplum si vedano – oltre al capitolo in Solomon, The Ancient World in the Cinema, cit. – S. Bertelli, Peplomania, in Id., Corsari del tempo. Quando il cinema inventa la Storia, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995, pp. 39-79; M. Salotti, Note sul cinema mito- logico italiano: 1957-1964, in Il mito classico e il cinema, a cura di F. Bertini, Genova, DARFICLET, 1997, pp. 47-57; Le péplum: l’Antiquité au cinéma, a cura di C. Aziza, numero monografico di «CinémAction», 89, 4e trimestre, 1998; R. De España, El peplum. La Antigüedad en el cine, Barcelona, Glénat, 1998; A. Rodighiero, Un americano (o due) a Roma. Storie di moderni gla- diatori, in «Kleos», 9, 2004, pp. 9-16; M.M. Winkler (ed.), Gladiator: Film and History, Malden, Blackwell Publishing, 2004 (specificamente dedicato al film di Scott); A. Boschi, A. Bozzato (e altri), I greci al cinema. Dal peplum ‘d’autore’ alla grafica computerizzata, Bologna, Digital University Press, 2005; G. Casadio, I mitici eroi. Il cinema “peplum’ nel cinema italiano dal- l’avvento del sonoro ad oggi (1930-1993), Ravenna, Longo, 2007. Sul mito di Orfeo al cinema: M. Di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo ed Euridice tra passato e presente, Firenze, Libriliberi, 2003; G. Pucci, Orfeo e la decima musa, in Orfeo e le sue metamorfosi. Mito arte poesia, a Cinema e mito classico 589 cura di G. Guidorizzi e M. Melotti, Roma, Carocci, 2005, pp. 168-178. Sui rapporti tra cinema e tragedia: M. McDonald, Euripides in cinema. The Heart made visible, Philadelphia, Centrum, 1983; K. MacKinnon, Greek tragedy into film, London-Sydney, Croom Helm, 1986; P. Michelakis, The past as a foreign country? Greek tragedy, cinema and the politics of space, in Homer, Tragedy and Beyond, Essays in honour of P.E. Easterling, edited by F. Budelmann and P. Michelakis, London, Society for the Promotion of Hellenic Studies, 2001, pp. 241-257; M. McDonald, L’arte vivente della tragedia greca, Firenze, Le Monnier, 2004 (ed. orig. 2003); P. Michelakis, Greek Tragedy in Cinema: Theatre, Politics, History, in Dionysus Since 69. Greek Tragedy at the Dawn of the Third Millennium, edited by E. Hall, F. Macintosh, A. Wrigley, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 199-218. Sulle Baccanti – e più in generale sul rapporto tra cinema e tragedia – si veda P. Pinotti, Tra “peplum” e cinema del mito: «Le Baccanti» di Giorgio Ferroni, in Studi e Materiali per le Baccanti di Euripide. Storia Memorie Spettacoli, a cura di A. Beltrametti, Pavia, Ibis, 2007, pp. 411-435. Sui miti di Edipo e Antigone: G. Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Torino, Einaudi, 1994 (su Pasolini pp. 204-216); M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1996 (sag- gio essenziale, anche per Medea); M. Fusillo, Antigone sullo schermo, in «Maia», 54, settembre-dicembre 2002, pp. 515-526; G. Paduano, «Edipo re» di Pasolini e la filologia degli opposti, in Il mito greco nell’opera di Pasolini, a cura di E. Fabbro, Udine, Forum, 2004, pp. 79-98. Più cospicua la biblio- grafia medeica: D.-N. Mimoso-Ruiz, La transposition filmique de la tragédie chez Pasolini, in «Pallas», 38, 1992, pp. 57-67; D.-N. Mimoso-Ruiz, Le mythe de Médée au cinéma: l’incandescence de la violence à l’image, in Médée et la violence, in «Pallas», 45, 1996, pp. 251-268; M. Manciotti, «Cri de fem- mes» di Jules Dassin. Tra Euripide e Brecht, in Il mito classico e il cinema, cit., pp. 7-10; I. Christie, Between Magic and Realism: Medea on Film, in Medea in Performance 1500-2000, a cura di E. Hall, F. Macintosh e O. Taplin, Oxford, Legenda, 2000, pp. 144-165; G. Ieranò, Tre Medee del Novecento: Alvaro, Pasolini, Wolf, in Medea nella letteratura e nell’arte, a cura di B. Gentili e F. Perusino, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 177-197; M. Rubino - C. Degregori, Medea contemporanea (Lars von Trier, Christa Wolf, scrittori bal- canici), Genova, DARFICLET, 2000 (con la traduzione dei dialoghi del film di von Trier); L. von Trier, Il cinema come Dogma. Conversazioni con Stig Björ- kman, Milano, Mondadori, 2001 (ed. orig. 1999); C. Croce, La mitopoiesi novecentesca di Medea: Lars Von Trier, in «Kleos», 7, 2002, pp. 55-74; A. Forst, Leidende Rächerin: Lars von Triers «Medea», in U. Eigler (ed.), Be- wegte Antike. Antike Themen im modernen Film, cit., pp. 67-79; F.J. Tovar Paz, «Medea» de Séneca en «Así es la vida» (2000), filme de Arturo Ripstein, in «Revista de Estudios Latinos», 2, 2002, pp. 169-195; M. Fusillo, La ven- 590 Andrea Rodighiero detta di Medea, in «Dioniso», 2, 2003 (n.s.), pp. 112-117; A. Rodighiero, «Ne pueros coram populo Medea trucidet»: alcuni modi dell’infanticidio, in Ricerche euripidee, a cura di O. Vox, Lecce, Edizioni Pensa Multimedia, 2003, pp. 115-159; M. Rubino, «Medea» di Pier Paolo Pasolini. Un magnifi- co insuccesso, in Il mito greco nell’opera di Pasolini, cit., pp. 99-108. Su altre tragedie: R. Romeo, «Ifigenia» di Michael Cacoyannis, in Il mito classico e il cinema, cit., pp. 41-45; M. Salotti, L’effetto intimidatorio di Euripide nel- l’«Elettra» di Cacoyannis, ivi, pp. 27-35; M. Fusillo, «I sette contro Tebe» dalla scena allo schermo. (Su «Teatro di guerra» di Mario Martone), in «Kleos», 7, 2002, pp. 11-14; R. Lavagnini, Fedra al cinema, in «Dioniso», 2, 2003 (n.s.), pp. 242-245; A. Orsini, Città e conflitto. Mario Martone regista della tragedia greca, premessa di M. Fusillo, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 86- 100. Sono infine in corso di stampa gli Atti del Convegno Metamorfosi del mito classico nel cinema, Venezia 22-24 ottobre 2008. Cinema e mito classico 591 APPENDICE: TESTI 1. Le Baccanti di Giorgio Ferroni (1960) Il duello verbale tra Dioniso, il dio nuovo, e il sovrano Penteo che rileva nei riti introdotti da questo Straniero un eccessivo grado di corruzione e lascivia, è l’«unico segmento testuale del
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