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Non_smetto_mai_«Non smetto mai di scriverlo» Furio Jesi tra saggistica e narrativadi_scriverlo_Furio_Jesi

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3INTERSEZIONI / a. XXX, n. 3, dicembre 2010
«Non smetto mai di scriverlo»: 
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
di Carlo Tenuta
1. Gli inizi: le indagini di Furio Jesi
Occuparsi di Furio Jesi significa spesso tentare di restituirne il 
profilo: quali idiosincrasie abbiano alimentato la circolazione margina-
le dei suoi lavori non si può dire, ma è certo il fatto che se poco ge-
neroso in verità appare Giorgio Agamben quando bolla come «magro 
[il] bilancio della saggistica italiana del novecento»1, di contro non è 
possibile dissentire dal suo giudizio sull’opera di Jesi. Un’opera nella 
quale «l’autore riesce di volta in volta a far saltare le categorie sulla 
cui opposizione si fondavano le fragili certezze dell’ideologia italiana 
del dopoguerra: razionalismo/irrazionalismo, mito/storia, laicismo/
religiosità, sinistra/destra»2. Ma occuparsene significa dare, poi, atto 
agli interessi jesiani di una mescolanza originalissima che ne deter-
mina la cifra: le interferenze in Jesi si producono tanto all’altezza dei 
generi sperimentati, dalla saggistica alla poesia alla narrativa, quanto 
nell’amalgama di composizione delle sue pagine critiche; tanto all’al-
tezza delle discipline frequentate, dall’archeologia alla scienza della 
religione alla germanistica alla riflessione sul mito, quanto nell’inter-
rogazione di un lasso di tempo che copre uno spazio dall’antichità 
egizia sino al pieno contemporaneo.
Parva jesiana: per ridare alla sua storia il senso di un capitolo tra i 
più importanti della cultura italiana del secondo Novecento conviene 
partire dalle origini.
Datata 30 maggio 1964, la prima lettera di Jesi a Károly Kerényi 
è una richiesta d’ascolto:
1 G. Agamben, Il talismano di Furio Jesi, in F. Jesi, Lettura del «Bateau ivre» di Rimbaud, 
Macerata, Quodlibet, 1996, p. 5.
2 Ibidem.
Carlo Tenuta
4
 Egregio Professore,
 […] mi permetto di inviarle gli estratti di alcuni miei articoli sulla religione egi-
zia e sulla religione greca […] Ciò mi dà occasione di scriverLe, e Le assicuro che 
per me tale rapporto epistolare è molto importante, poiché i Suoi studi mi sono 
serviti da guida fin dai primi tempi in cui ho affrontato questo genere di ricerche. 
In particolare il volume Suo e di C.G. Jung, Introduzione allo studio scientifico della 
mitologia, è stato il primo libro scientifico sull’argomento che lessi quasi ragazzo, 
e che mi fece intendere sotto quali prospettive si poteva osservare – e poi tentare 
di accostare – il fatto mitologico. […] Se Ella avrà la pazienza di leggere i miei 
articoli vedrà che almeno il Suo insegnamento mi ha condotto a raccogliere qualche 
documento […] Se Ella troverà qualcosa di interessante nei miei lavori, Le sarò 
riconoscente d’un giudizio3.
Jesi nasce a Torino nel 1941; scrive per la prima volta a colui che 
sente come il più significativo tra i suoi maestri a ventitre anni. Il 
plico per Kerényi raccoglie scritti risalenti al 1958: pubblicati da uno 
studioso diciassettenne, gli articoli del ’58 portano titoli stentorei, 
come Le connessioni archetipiche; Rapport sur les recherches relatives 
à quelques figuratiòns du sacrificie humain dans l’Égypte pharaonique; 
Bès initiateur; Studi cosmogonici4: se procacità è sfrontatezza, non 
deve stupire il fatto che la sua giovanissima età si concili da subito 
con questo impegnativo cimento: abbandonato il liceo, Jesi prende 
la strada delle più autorevoli collezioni museali d’Europa, come 
ricorda la moglie Marta, il quale «ad un certo punto ha deciso di 
abbandonare la scuola e andarsene in giro a cercare i suoi maestri 
[…] in quel periodo si interessava di egittologia, poi è passato alla 
storia delle religioni…lui andava nei grandi musei europei e in questo 
modo ha conosciuto…le persone che lo interessavano come indirizzo 
culturale […] L’ultimo è stato Kerényi e da lì si è dato al tipo di 
ricerca che gli è stata propria sino alla fine»5. Come per Rilke, si 
potrebbe parlare anche per Jesi di Heimatlosigkeit, di erranza per 
l’Europa e per il mondo come scelta di conoscenza.
Jesi aveva pubblicato scritti quindicenne, nel ’566, e la sua prima 
opera è del 1958: quella La ceramica egizia. Dalle origini al termine 
dell’età tinita che, alla fine della prefazione allo studio, permetteva 
a Boris de Rachewiltz di affermare: «L’analisi delle teorie di altri 
studiosi e l’abbondanza delle note attestano […] la preparazione 
3 F. Jesi, K. Kerényi, Demone e mito. Carteggio 1964-1968 (a cura di M. Kerényi e A. 
Cavalletti), Macerata, Quodlibet, 1999, pp. 13-14. 
4 Per segnalazioni di ordine cronologico in riferimento all’originaria produzione jesiana 
rinvio alla bibliografia approntata in Risalire il Nilo. Mito fiaba allegoria (a cura di F. Masini 
e G. Schiavoni), Palermo, Sellerio, 1983, pp. 383-393 (bibliografia naturalmente manchevole 
quanto a titoli inediti di recente pubblicazione e alle ripubblicazioni).
5 Ricordo di M. Rossi Jesi, in Faraqàt. Quaderni di storia e antropologia delle immagini 
(Firenze), n. 1, La casa Usher, 1991, p. 61.
6 Si vedano gli scritti del 1956: Notes sur l’édit dionysiaque de Ptolémés IV Philopator (in 
«Journal of Near Eastern Studies», vol. XV, n. 4, U.S.A., pp. 236-240) e, con Vanna Chirone, 
Racconti e leggende dell’antica Roma (Torino, S.A.I.E.).
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
5
dell’Autore»7. D’altra parte, quello che de Rachewiltz intuisce del 
giovane Jesi troverà conferma due decenni più tardi, nel giudizio di 
Cases alla «produzione gigantesca (se commisurata alla brevità della 
vita)»8 di uno studioso «di antropologia, di mitologia, di letteratura 
e poesia esoterica e di mille altre cose»9 che, «data l’onniscenza»10, 
quando scrive si serve di una materia che «può darsi benissimo […] 
si trovi in qualche libro cabalistico. Ma può darsi altrettanto bene 
che sia un parto della sua sbrigliata fantasia»11, a riprova della com-
mistione delle espressioni jesiane.
La seconda lettera a Kerényi porta la data del 21 settembre: il 
1964 è l’anno della svolta jesiana in direzione dell’interesse critico 
rivolto alla letteratura, come si evince dallo spoglio bibliografico, ma 
prima ancora dalla traccia contenuta nella lettera di settembre appena 
citata. Scrive Jesi: «Le sarei gratissimo se Ella mi consentisse di do-
mandarLe qualche consiglio circa un lavoro che ho ora intrapreso, e 
precisamente uno studio sui rapporti fra lo scrittore Cesare Pavese e 
le ricerche etnologiche e storico-religiose»12. Questa lettera è la prima 
testimonianza del laboratorio jesiano. I tempi sono maturi: Pavese e 
Rilke rappresentano il campo di una iniziale applicazione di un me-
todo di confronto con il prodotto letterario che in Jesi era andato 
profilandosi lungo un decennio di peregrinazioni. Primo esempio di 
contaminazione tra differenti interessi, Rilke e l’Egitto. (Considerazioni 
sulla X Elegia di Duino) e Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, 
apparsi nel 1964, aprono l’esperienza jesiana al lavoro critico-lette-
rario imperniato sulla relazione tra letteratura e mito. Una relazione 
che molto risentirà dei raggiungimenti cui era arrivata la peculiare 
scienza della mitologia dello Jesi, una scienza anche politica - «E il 
problema del mito non è certo di modesta portata, anche sul piano 
dell’attività politica»13, appunta Jesi – rispetto alla quale «chi [ci] si 
dedica […] chi si propone agli altri come mitologo, deve cercare la 
giustificazione della propria qualifica, oggettiva e soggettiva, nel punto 
in cui la propria vicenda personale interferisce con la vicenda degli 
altri»14, come si legge nel suo Scienza del mito e critica letteraria.
Ma Rilke e Pavese segneranno, ancora, un ambito di intervento 
che risulterà costante sino e oltre la metà dei Settanta: appaiati una 
7 B. de Rachewiltz, Prefazione, in F. Jesi, La ceramica egizia. Dalle origini alla fine dell’eta 
tinita, Torino, S.A.I.E., 1958, p. 13. 
8 C. Cases, Tempi bui per i vampiri, recensione al romanzo jesiano L’ultima notte (Genova, 
Marietti, 1987), in «L’Indice deilibri del mese», fascicolo speciale dedicato a Cases, maggio 
2008, p. 19.
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 F. Jesi, K. Kerènyi, Demone e mito, cit., p. 16.
13 F. Jesi, Mito, Milano, ISEDI, 1973, p. 107.
14 F. Jesi, Scienza del mito e critica letteraria, in Id., Esoterismo e linguaggio mitologico. Sudi 
su Rainer Maria Rilke, Macerata, Quodlibet, 2002, p. 19.
Carlo Tenuta
6
volta di nuovo nel 1976, l’esito delle interrogazioni jesiane si riassume 
in uno «degli esempi più alti e non a caso meno noti della saggisti-
ca italiana contemporanea»15 – con Cavalletti – ovvero Esoterismo 
e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke e, per ciò che 
concerne i temi pavesiani, nel fondamentale articolo Cesare Pavese e 
il mito: dix ans plus tard (Appunti per una lezione) che, con Venturi, 
«rappresenta un bilancio, una meditazione sul mito a dieci anni dal-
le grandi prove sulle possibilità del mito in Pavese»16. Un bilancio, 
quello lasciato nell’ultimo articolo, tutto all’insegna dell’inframmet-
tenza, a testimonianza di un preciso orientamento critico che parte 
dalla necessità di pensare cooperanti diversi approcci provenienti da 
differenti discipline che, nella relazione tra creare letterario e imma-
gini mitiche, nella tensione tra portato delle sopravvivenze e delle 
attualizzazioni del materiale mitologico e poetica, riescono efficace-
mente ad aprire l’interpretazione ad un cospicuo, necessario altro sin 
qui rimasto silenzioso: «Jesi metteva in guardia il lettore dal pericolo 
d’interpretare la ricerca “mitica” di Pavese con l’uso delle sole ca-
tegorie letterarie poiché sussisteva la possibilità di distorcere […] il 
senso profondo della disperata moralità pavesiana»17 – afferma ancora 
Venturi, memore poi del pegno di un’amicizia «veramente mitica»18 
con Jesi, artefice della rivoluzione critica che coinvolge Pavese tra 
metà Sessanta e metà Settanta e punto di riferimento per le indagini 
sul rapporto, in Pavese, tra attività di scrittore, ruolo dell’intellettuale 
e ricerca sul mito (prima che un problema siffatto, in relazione a 
Pavese, venisse «accantonato e trasformato in occasione di esercita-
zioni più o meno accademiche»19), a partire dalla destrutturazione 
di un modello critico di corto respiro e latentemente tecnicizzato per 
motivi di ordine ideologico, sino qui in grado di proporre non tanto 
lo scavo sul mito in Pavese ma, soltanto, il mito-Pavese: e – ça va 
sans dire – il complesso ordine di problemi legato alla tecnicizzazione 
del mito, come da lezione kerenjiana, rimarrà d’ora in avanti focale 
nell’elaborazione jesiana, poiché «Demone è ciò che nasce dall’intor-
bidirsi dello sguardo posato sul mito; il mito osservato attraverso la 
lente deformante del demonismo non è più il mito genuino»20.
«Certo, Pavese ha subito la tentazione di calarsi nell’extra-tempo-
rale; ma direi che l’originalità della sua esperienza consiste proprio 
nell’aver riconosciuto l’impossibilità di farlo, e la consapevolezza di 
15 A. Cavalletti, Avvertenza, in F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico, cit.
16 G. Venturi, Cesare Pavese a trent’anni dalla morte: ipotesi critiche, in F. Masini e G. 
Schiavoni (a cura di), Risalire il Nilo, cit., p. 320.
17 Ibidem.
18 Ibidem.
19 F. Jesi, Cesare Pavese e il mito: dix ans plus tard (Appunti per una lezione), in «Il lettore 
di provincia» (Ravenna), nn. 25-26, 1976, p. 17. 
20 F. Jesi, Parodia e mito nella poesia di Ezra Pound, in Id., Letteratura e mito, Torino, 
Einaudi, 2002, p. 212.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
7
crederlo possibile»21, scrive Jesi a Schiavoni, suggerendo quali gli 
spazi critici, e come connotati, che ne avevano condizionato l’attività. 
Spazi determinati dall’influenza profonda di domande che lo studioso 
mediava dai primigeni interessi storico-religiosi ed etno-antropologici, 
incentrati in particolare sulla vicenda del mito:
 Io credo che la speciale fortuna degli studi su Pavese e il mito dieci anni fa sia 
stata soprattutto dovuta alle seguenti ragioni. Da un lato, certo, si è visto allora in 
quegli studi un’apprezzabile comparsa anche sulla scena italiana di strumenti critici 
collegati alle cosiddette scienze umane, in special modo all’antropologia culturale. 
Questo era già di per sé nuovo, era attraente, era perfino à la page […] Ma, a parte 
questo aspetto più superficiale, che pure ebbe il suo peso, mi sembra che si sia visto 
allora in quegli studi uno strumento per liberare la figura di Pavese dall’etichetta 
di “poeta decadente”, senza sacrificare aspetti oggettivi e palesemente importanti 
della sua opera. Per riconoscere insomma, legittimità morale alle caratteristiche 
dell’opera pavesiana più suscettibili dell’accusa di decadentismo. Per chi avvertiva il 
rigore morale dell’opera di Pavese […] si offriva l’occasione di battere l’avversario 
sul suo stesso terreno: di dimostrargli che proprio là dove si era trovato più vicino 
alle posizioni “decadenti”, proprio sul terreno del mito, della scienza del mito, 
dei presunti compiacimenti irrazionalistici, proprio là Pavese non era stato affatto 
“decadente”22.
– scrive Jesi, ora convinto che l’operazione critica consista «per lo 
storico di un’attività intellettuale [nel] riconoscere e conoscere con-
tinuamente la vita di qualcosa che è vivo. E questo qualcosa che è 
vivo, cioè l’opera dello scrittore, offre al critico non un punto di 
arrivo, ma infiniti punti d’arrivo diversi». E a punti di arrivo diversi 
e liberi da pregiudizio Jesi giunge ponendo al centro del proprio 
producimento Pavese, esempio che finirà col ricordare quello jesiano, 
di cui qui si intende trattare ponendo l’accento sull’attività saggistica 
e narrativa del mitologo torinese:
 Alla percezione di quell’obbligo morale (che coincideva con la fiducia nella pro-
pria attività di narratore quale partecipe di miti) corrisponde in Pavese il rifiuto della 
narrativa apertamente fantastica e la volontà di coinvolgere nella sfera del mito le 
vicende e le presenze dell’oggi. La dialettica fra il Pavese autore di saggi dai quali 
traspare la fede nella qualità mitologica del narrare, e il Pavese narratore che di volta 
in volta verifica come nella sua collettività e nel suo tempo i grandi simboli mitici 
abbiano perso il loro valore festivo, trova equilibrio appunto nella volontà di non 
fuggire all’oggi e neppure di limitarsi al rimpianto sull’oggi sconsacrato […] la poe-
tica di Pavese, di cui è prima garanzia l’originalità del suo stile, è innanzitutto la te-
orizzazione morale della necessità di agire e di vivere anche se la città è sconsacrata 
e i tesori sacri della campagna non sono più accessibili […] l’aspetto più personale 
e profondo del rapporto di Pavese col mito ci sembra consistere nell’immagine del 
sacrificio: nella necessità morale di vivere nell’oggi, anche se così l’«eterno ritorno» 
al tempo primordiale del mito è reso possibile solo più dal riconoscere nel mito un 
21 Lettera a Schiavoni datata 25 novembre 1969. In G. Schiavoni, «Scegliere secondo giu-
stizia». A proposito di alcune lettere di Furio Jesi, in «Cultura tedesca» (Roma), n. 12 (numero 
dedicato a Jesi, a cura di G. Agamben e A. Cavalletti), Donzelli, dicembre 1999, p. 171. 
22 F. Jesi, Cesare Pavese e il mito: dix ans plus tard, cit., p. 17. 
Carlo Tenuta
8
simbolo etico, la legge cifrata di una virtù dalla quale, quando ci si sottopone alla 
sua legge, si può ottenere la morte […] Morte, nei termini di quella morale, significa 
sacrificio23.
Jesi continua:
 Il critico non solo non deve lasciarsi ipnotizzare dall’apparente vicenda dei suoi 
strumenti, in sé e per sé, e dall’illusione di progresso che può scaturirne, ma deve 
riconoscere che, in sé e per sé, quella vicenda è una pura astrazione, non possiede 
esistenza storica; ed egli deve sforzarsi di ricercare le ragioni della genesi e delle tra-
sformazioni degli strumenti critici nei processi di interazione fra l’opera di ciascuno 
scrittore e la storia di coloro che la riconoscono e la conoscono come cosa viva; laloro storia collettiva, e anche la loro storia individuale. Per questo, parlare “dieci 
anni dopo” di Pavese e il mito significherà per me innanzitutto esporre alcune rifles-
sioni sulle possibili ragioni intrinseche sia all’opera pavesiana, sia alla nostra storia, 
e alla mia storia, per cui la figura di Pavese continua a riproporsi non meno viva, 
dunque non meno enigmatica che il primo giorno, alla critica – così che questa sua 
enigmaticità appare un valore prezioso, se non ci si vuole limitare a costruire un 
monumento sulla sua tomba, e questa critica si presenta come una sorta di collettivo 
work in progress. Work in progress eterogeneo, in cui anche i monumenti funebri 
hanno il loro posto, ma nella cui complessità eterogenea devono avere il posto che 
attribuisce loro la storia, la quale è appunto la strada e la norma che ci permette di 
addentrarci da critici nella critica24.
La critica, dunque, è l’approdo finale di una lunga navigazione 
all’insegna di quel vagare che è «forse l’azione intellettuale che più 
si addice alla sua riflessione»25, una riflessione intenta a sondare, 
adoperando il Ginzburg di Spie. Radici di un paradigma indiziario, 
«un metodo interpretativo imperniato sugli scarti, sui dati margina-
li, considerati come rivelatori»26 (ciò che dalla metà del Settecento 
avrebbe d’ora in avanti preso il nome di serendipity27). Meglio, la 
critica è il punto d’arrivo cui Jesi giunge, evidentemente non più 
solo attratto dal «fascino nei confronti dell’antico o del preistorico, 
da cui ha preso le mosse la sua riflessione, ma [piuttosto da] ciò 
che l’antico sembra evocare [anche se] il suo sguardo […] non è 
fondato sull’ingenua percezione che antico e moderno coincidano, 
bensì sul continuo scarto – meglio sullo stridìo – che essi continua-
mente ripresentano. Al meccanismo della facile illusione […] egli 
dunque fa costantemente seguire il senso della riflessione critica»28: 
la critica è l’esito naturale di un cabotaggio la meta del quale Jesi 
aveva da molto tempo presente, se vogliamo credere alla confessione 
23 F. Jesi, Cesare Pavese dal mito della festa al mito del sacrificio, in Id., Letteratura e mito, 
cit., pp. 168-170.
24 F. Jesi, Cesare Pavese e il mito, cit., p. 17. 
25 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia. Su Furio Jesi, in F. Jesi, L’ac-
cusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo, Brescia, Morcelliana, 1993, p. 94.
26 C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Id., Miti emblemi spie. Morfologia 
e storia, Torino, Einaudi, 1986, p. 164.
27 Ibidem, p. 182. 
28 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 95.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
9
secondo cui: «Se […] si prenderà la briga di andare a vedere la mia 
bibliografia, scoprirà che dai 15 ai 24 anni ho pubblicato unicamente 
articoli di egittologia. Scrivevo anche ‘saggi’ […] ma non potendo 
pubblicarli avevo scoperto la via per fare accettare i propri scritti a 
riviste autorevolmente accademiche: fingere di infangarsi, come dice 
Pound, nelle paludi della filologia»29.
Nel 1970, all’altezza di questa confessione, «l’enfant prodige che 
aveva attraversato quindicenne gli impervi sentieri dell’egittologia – 
scrive Agamben –, si era ormai imposto come il più intelligente stu-
dioso italiano di mitologia e scienza delle religioni e, insieme, come 
una delle personalità più originali della cultura di quegli anni, difficile 
da rubricare nei limiti di una disciplina accademica»30. «Niente era 
meno congeniale a Furio Jesi, e niente è più sterile per i suoi lettori, 
che collocare i suoi interessi in un tassello disciplinare preciso. Men-
te inquieta e lucida, Jesi aveva la capacità di saper creare metafore 
intellettuali, ossia di lavorare intorno a una intuizione aforismatica»31, 
ricorda Bidussa.
In una rubrica disciplinare Jesi in effetti non finì mai: traduttore e 
mitologo, Jesi in un appunto risalente al biennio ’76-’77, scrive:
 Traduzione e mitologia: queste due parole hanno in comune una oscillazione se-
mantica che può essere descritta nel modo più semplice così: esse significano tanto 
un prodotto quanto un’attività produttiva. È un prodotto la traduzione tedesca della 
Bibbia eseguita da Lutero, ed è un prodotto la mitologia dionisiaca di Euripide 
nelle Baccanti. Ma la parola «traduzione» significa anche l’attività – produttiva – del 
tradurre, così come la «mitologia» significa anche l’attività – egualmente produttiva 
– del mitologizzare32.
2. Accenni al racconto critico jesiano: coincidenze tra critica, saggistica 
e narrativa
 L’approccio di ciascun osservatore o ricercatore al fenomeno […] può essere 
descritto come la genesi di un determinato modello gnoseologico, cioè dello sche-
ma determinato in cui di volta in volta s’è attuata l’esperienza conoscitiva. Ciascun 
modello gnoseologico coincide con un conoscere in atto fin tanto che dura la sua 
fase genetica. Una volta conclusa tale fase, definitosi compiutamente il modello, è 
più esatto parlare di conoscenza riflessa, cioè dell’alone di sopravvivenza che sussiste 
intorno al modello stesso, ormai schema irrigidito, formula data anziché conoscere in 
fieri. Ciascun conoscere in fieri, ciascun approccio non riflesso al fenomeno umano 
osservato, ciascun modello gnoseologico nella sua fase genetica, è caratterizzato e 
delimitato dall’interazione fra quanto vi è di permeabile nel fenomeno e quanto vi 
29 Lettera a Schiavoni datata 4 agosto 1970. In G. Schiavoni, «Scegliere secondo giustizia», 
cit., p. 177.
30 G. Agamben, Il talismano di Furio Jesi, cit., p. 5.
31 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 93.
32 F. Jesi, Traduzione e mitologia, dattiloscritto reperito da A. Cavalletti, ora in «Cultura 
tedesca», cit., p. 147.
Carlo Tenuta
10
è di permeabile nell’osservatore: conoscenza, in questa accezione, è incontro di due 
permeabilità33.
La critica instaura un rapporto a due ed è su questo rapporto 
che si articola, che si sviluppa ulteriormente: Jesi è un costruttore di 
modelli gnoseologici e, insieme, da questi modelli prende nel tem-
po le distanze. Delle giuste distanze, necessarie, perché necessario 
è verificare le possibilità di negazione e riformulazione di ciò che, 
altrimenti, apparirebbe come sistematico, universale e perenne; il 
modello jesiano, dunque, compone risultati sempre provvisori, prov-
visori raggiungimenti.
 L’io che è «sicuro» intreccia adesso il suo discorso […] con l’io che non solo 
adesso non è sicuro, ma dubita molto di poterlo essere mai. Alla base della tecnica 
di conoscenza per composizione sta questo intreccio di due voci, che non po’ essere 
detto dialettico se non nella misura in cui “dialettico” significa puramente e sem-
plicemente «drammatico». L’operazione gnoseologica che si compie […] è dunque, 
nelle intenzioni dell’autore – che valgono quello che valgono, ma che è opportuno 
siano chiarite –, di natura paradossale, scientifica e artistica. Alla domanda: Non le 
viene voglia di scrivere un romanzo? L’autore di questo libro può solo rispondere: 
Non smetto mai di scriverlo34
– annota Jesi in chiusura della Prefazione al lavoro che più tardi sa-
rebbe divenuto Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura 
mitteleuropea.
 Nominare oggi Furio Jesi implica affrontare preliminarmente un’operazione di 
rimemorizzazione […] il [suo] nome sembra uscito dalla memoria per collocarsi 
nel tempo delle cose, in uno «scaffale riservato e prezioso» di alcune biblioteche 
private, dove il circolo dei suoi amici e quello ristretto dei suoi lettori appassionati 
si incontrano complici. Ma è un incontro silente dove il «vuoto» si accompagna alla 
consapevolezza che appropinquarsi ai suoi scritti si trasformi costantemente nella 
sensazione di un continuo scarto tra la capacità creativa e l’imprevedibilità della sua 
riflessione35
– sintetizza Bidussa. Ciò che più colpisce nell’appunto di Bidussa è 
il rinvio ad un incontro silente con l’opera di Jesi: non si può dire 
se Bidussaqui intenda rimandare alla chiusura dell’Ultimo canto di 
Saffo nei cui versi, seguendo il Leopardi della Premessa, riecheggia 
«Il grande spazio frapposto tra Saffo e noi, [che] confonde le imma-
gini, e dà luogo a quel vago ed incerto che favorisce sommamente la 
poesia»36, ovvero quello spazio fertilissimo quanto ad epifanie mitiche 
33 F. Jesi, La festa e la macchina mitologica, in Id., La festa. Antropologia etnologia folklore, 
Torino, Rosemberg & Sellier, 1977, p. 175.
34 F. Jesi, Prefazione, in Id., Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleu-
ropea, Torino, Einaudi, 2001, pp. 355-356.
35 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 94. 
36 G. Leopardi, Premessa all’ultimo canto di Saffo, in Id., Poesie e prose (a cura di M.A. 
Rigoni), Milano, Mondadori, 1987 (qui 1990), volume primo, p. 681.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
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prodotte dalla macchina mitologica elaborata da Jesi il cui frutto, 
il fatto mitologico, «concentra in un sol punto, extra temporale, 
extraspaziale, le luci che provengono dal passato e dal fututo»37 (e 
d’altra parte, il rimando a passato e futuro è colto efficacemente da 
Bidussa quando questi appunta: «La letteratura, il testo letterario, 
la dimensione del mito e gli ambiti del sacro non sono spie di un 
immaginario letterario, ma costituiscono la strategia narrativa che 
contemporaneamente fornisce l’assetto razionale del passato e pre-
scrive le norme per il futuro»38). Più semplice, invece, è il fatto che 
semanticamente quel silente rimandi ad una sospensione dell’ordina-
rio, ad un vuoto, alla notte, ad un luogo temporale ove infine si dia 
occasione «di contrapposizioni drammatiche fra luce e tenebra»39, 
dove opposti interferiscono inscenando un dramma che ha per prota-
gonista il tempo (ed il tempo, nella scrittura saggistica, è il problema 
da risolvere perché, chiaramente, il tempo della saggistica è un tempo 
non lineare, alternativo, diversamente ritmato). Riferendosi all’approc-
cio jesiano al mito, scrive ancora Bidussa: «non è solo un cammino 
impervio, ma un avventurarsi per sentieri oscuri dove il richiamo 
fascinatorio del “notturno” può continuamente prevalere»40. È in 
queste condizioni che Jesi affronta il funzionamento della macchina 
mitologica antisemita, «l’argomento su cui Furio Jesi ha lavorato per 
anni e che trova nel saggio L’accusa del sangue una prima sistema-
zione teorica per poi costruire in forma strutturata la categoria di 
“macchina mitologica”»41.
In questo senso, la notte jesiana pare segnare un rito di passag-
gio per lo studioso che ora sempre più assomiglia ad uno di quegli 
«adolescenti che si avventurano nella notte [uno] dei topoi ricor-
renti della letteratura orale, della favolistica, dell’epica, per i quali 
le sopravvivenze degli istituti iniziatici valgono come giustificazione 
di permanenza e di coesione»42, seguendo uno scritto dedicato al 
Rhesos pseudo-euripideo. E la notte, dunque, funge da pretesto per 
introdurre un capitolo significativo della sua produzione quanto ad 
implicazioni in riferimento alla molteplicità delle scritture del mito-
logo, scritture sempre all’insegna del metodo per composizione ove 
echeggiano «una pluralità di voci, di soggetti e di maschere»43.
37 F. Jesi, Il processo agli ebrei di Damasco, in Id., L’accusa del sangue. Mitologie dell’anti-
semitismo, cit., p. 27. 
38 D. Bidussa, Retorica e grammatica dell’antisemitismo, in F. Jesi, L’accusa del sangue. La 
macchina mitologica antisemita, Torino, Bollati Boringhieri, 2007 p. VIII.
39 F. Jesi, Notte mitica e notte di un mito, in Id., Materiali mitologici, cit., p. 148.
40 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 110. 
41 D. Bidussa, Retorica e grammatica dell’antisemitismo, cit., p. XXVI. 
42 F. Jesi, Notte mitica e notte di un mito, cit., p. 155.
43 D. Bidussa, Sull’impossibilità di dire Io, in «Cultura tedesca», cit., p. 15.
Carlo Tenuta
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 Nel gennaio del 1960 io stesso tentai la rappresentazione in una cantina di Tori-
no dei Tamburi della notte di Brecht [...] Nella cantina di via Silvio Pellico n. 6, la 
notte del 29 gennaio 1960 ebbe luogo la rappresentazione dei Tamburi della notte 
[...] Il dramma venne realizzato secondo i dettami più rigorosi della poetica espres-
sionista […] I «tamburi nella notte» risuonaron ancora una volta in Torino, ricoperta 
di neve, che era scenario stesso del dramma, con le sue strade, i suoi palazzi, le sue 
inferriate, riconoscibili negli acquarelli di Grosz44.
Jesi ricostruisce così la sua esperienza – l’unica – di regista: dalla 
lettura dei Tamburi brechtiani nascerà, alla fine del decennio Ses-
santa (nella notte tra l’11 e il 12 dicembre 1969, in una lettera, Jesi 
scriveva: «Ti annuncio gloriosamente d’aver terminato un’ora fa la 
riletura del dattiloscritto di Spartakus […]. È finito. È […] comple-
tamente fuori tema […] È finito ed ha assorbito l’essenziale di tutto 
il tessuto connettivo del mio fronte di lavoro, dal trattato mitologico 
agli articoli sindacali, alle poesie, al romanzo vampirico. Per questo, 
tutte le sue pagine sono il risultato di una contesa ai ferri corti con il 
tema; i temi piovevano da tutte le parti ed erano tutti “fatidici”»45), 
l’importante lettura delle vicende dell’insurrezione spartachista di 
Spartakus. Simbologia della rivolta. Sono questi gli anni del suo mag-
gior impegno nella militanza sindacale, anni dei quali si testimonia 
in una lettera a Schiavoni:
 Il mio lavoro è qualcosa di simile alla ricognizione circa i particolari di un cam-
po di battaglia: nella battaglia siamo coinvolti tutti (e dobbiamo sapere di esserlo), 
e l’atteggiamento che assumiamo o assumeremo nella battaglia trascende di gran 
lunga la nostra abilità di ricognitori […] In sostanza: il lavoro di ricognizione (i 
miei scritti, per esempio) è fondamentalmente secondario rispetto al combattimento. 
Certo, prima di combattere, è necessario conoscere il terreno; ma una volta indagato 
il terreno, si tratta poi di combattere. E questo lo si fa […] nella ‘strada’ e nella 
‘fabbrica’, non certo scrivendo su Rilke46.
La sua attività politica e la posizione assunta nei confronti del 
mito in Pavese, origineranno la frattura definitiva con Kerényi che 
imputava a Jesi di rispecchiare posizioni italo-comuniste. Jesi scrive 
– nel maggio 1968 – all’ungherese:
 Se il mio discorso rispecchia davvero l’ideologia “italo-comunista”, non vi è da 
parte mia alcuna mascheratura, poiché […] io svolgo funzioni pubbliche, palesi, 
nell’ambito del sindacato marxista (CGIL) dei lavoratori poligrafici e cartai, e in 
ogni discorso politico mi sono sempre espresso a favore del comunismo. Ciò non 
significa, naturalmente, che io accetti in ogni suo aspetto la linea politica del par-
tito comunista italiano o di quello russo; ma significa che il mio voto politico va 
44 F. Jesi, L’espressionismo a Torino, in Faraqàt, cit., p. 24.
45 In A. Cavalletti, Leggere «Spartakus», in F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Torino, 
Bollati Boringhieri, 2000, p. VII.
46 Lettera a Schiavoni datata 26 giugno 1972, in Carteggio Jesi/Schiavoni (a cura di G. 
Schiavoni), in «Immediati dintorni» (Bergamo), n. 1, pp. 330-331. Qui in D. Bidussa, La 
macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 109.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
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da tempo, comunque e pubblicamente al partito comunista […] nei limiti in cui io 
posso valutare il mio stesso discorso, su Pavese, l’ideologia comunista vi interferisce 
in quanto paradigma di valutazione morale di determinati atteggiamenti e compor-
tamenti altrui. Replicando alla sua obiezione, sono costretto a dire che la risposta 
a una critica non può consistere nell’attribuire un’etichetta al critico, ma dovrebbe 
essere fondata su argomenti tali da contestare la veridicità della critica stessa […] 
Se la sorte vuole che io sia costretto a rivolgere queste parole alla persona che ho 
considerato maestro dall’adolescenza, ciò significa che i tempi sonoparticolarmente 
oscuri. Dubito, d’altronde, che essi possano rischiarirsi senza prima divenire ancora 
più oscuri: senza cioè che sia raggiunto il culmine della crisi. E probabilmente sarà 
una crisi che si dispiegherà nelle vie e che si combatterà con le armi; una crisi in cui 
anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, 
nell’una e nell’altra schiera47.
Nella testimonianza dello Jesi brechtiano si percepisce la fascina-
zione per il tema notturno, per la notte della città; un tema, poetica-
mente valido che, seguendo Pulce, risulta tra i più frequentati dalla 
saggistica, dove questa avverte, tra i problemi più sentiti, «quello, 
squisitamente gnoseologico, dell’unicum, che si incarna via via nel 
mostruoso, nell’inquietante, nel patologico eccetera, ma che viene a 
rifrangersi in una serie coerente di figure allegoriche: il doppio, la 
prigione, la notte»48.
Jesi ricorderà l’esperimento brechtiano in una lettera a Calvino: 
«Lei probabilmente non sa che, nel 1960, io avevo curato la regia di 
un ‘visionario’ Tamburi nella notte di Brecht: «notte di battaglia. E 
[…] io confido proprio nell’essere per me il tema notturno “visiona-
riamente produttivo”»49. La corrispondenza Jesi-Calvino è incentrata 
sulla vicenda dell’unico romanzo jesiano, L’ultima notte: il lavoro, 
frutto di un progetto lungo più di un decennio (Jesi ci si dedica tra 
il 1960 e il 1972, a conferma che i saggisti «compongono libri dei 
loro saggi e articoli sparsi senza suturarne gli estremi […] Libri non-
libri che esibiscono eterogeneità di tempi e di argomenti, […] che 
si sottraggono alle classiche unità ma in cui una forma di unitarietà 
pure viene colta. È un’unitarietà che il lettore è chiamato a rinvenire 
in prima persona: è il lettore a rintracciare il senso più generale del 
discorso che i vari pezzi vanno articolando e che a loro volta altri, 
lettori-scrittori, hanno percorso»50), apparirà postumo nel 1987, mo-
strando «lo stesso ‘sapiente’ e divertito interesse [che] traspare nel 
libro per bambini-adulti: La casa incantata, uscito anch’esso postumo 
nel 1982»51. Significativo lo scambio epistolare con Calvino, perché il 
47 F. Jesi, K. Kerényi, Demone e mito, cit., pp. 116-117.
48 G. Pulce, Elogio della discontinuità. Di alcuni tratti della scrittura saggistica nella lettera-
tura italiana novecentesca, in Il saggio. Forme e funzioni di un genere letterario (a cura di G. 
Cantarutti, L. Avellini, S. Albertazzi), Bologna, Il Mulino, 2007, p. 119.
49 Lettera datata 12 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 101.
50 G. Pulce, cit., p. 132.
51 M. Cottone, Furio Jesi: Vampirismo e didattica. Le lezioni su: «Il vampiro e l’Automa nella 
cultura tedesca dal XVIII al XX secolo», in «Cultura tedesca», cit., p. 44.
Carlo Tenuta
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ligure è a sua volta autore di uno scritto vampirico, compreso in Il 
castello dei destini incrociati, ovvero una Storia del regno dei vampiri 
dedicata a quelle creature dell’immaginario del patrimonio folclorico, 
culturale e letterario che rappresentano, a detta dello stesso Calvino, 
«un fatto religioso-storico-sociale serio»52. Jesi, pienamente convin-
to dell’affermazione calviniana, risponderà infatti «forse li ho presi 
troppo sul serio, e quindi me ne sono difeso con giochetti della più 
spicciola parodia»53: i vampiri, «i quali suscitano poche avventure, 
lungo dolore»54, entrano così a pieno titolo nel cuore dei problemi 
indagati dal mitologo.
Prima di riprendere il romanzo jesiano, seguo di nuovo le tracce 
lasciate da Jesi nelle lettere: lo studioso scrive come a suo avviso 
«forse non è casuale il fatto che, insieme con Spartakus, sia finito an-
che il citato romanzo vampirico»55. L’ultima notte, le poesie dell’unica 
raccolta L’esilio: tutto ciò che accompagnava la sua attività critico-
saggistica converge ora intorno a questo lavoro dedicato alla vicenda 
di Luxemburg e Liebknecht, certo, ma anche a Brecht e a Mann, 
alla simbologia della rivolta, al tempo che le è proprio:
 In questi termini […] la scrittura rivela insieme al proprio condizionamento il 
tenore politico che le compete. Nelle giornate dell’inverno 1918-19, nel pieno della 
battaglia per le strade di Berlino, “ogni gesto valeva per se stesso” e gli uomini 
combattevano negli altri uomini il volto disumano, mitico-demoniaco del potere. 
Mentre l’analisi si dispiega seguendo la fascinazione che i “demoni della città” eser-
citavano proprio su chi si votava senza riserve alla distruzione delle loro forme, ogni 
riga, ogni parola vale di per se stessa nella battaglia che si prolunga come scrittura 
di Spartakus. Non sono forse poesia, propaganda, opera narrativa, entità separate e 
già sospese? Il gesto autonomo di chi scrive, non corrisponde al fallimento politico 
della rivolta, e il fallimento non resta solo entro un gesto determinato? Niente come 
un libro può imprigionare definitivamente quel tempo inconsueto, consegnarlo alla 
normalità quotidiana. Può invece darsi una scrittura che non intrattenga un rapporto 
di esteriorità con la rivolta? Può, in altre parole, una scrittura non essere per altri, 
ma eversiva nel bagliore della sua unicità? Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht sono 
stati assassinati, l’insurrezione ha subito una sconfitta effettiva, incontestabile sul 
piano storiografico…Ma appunto questo effetto e questo piano sono ancora in gioco 
in un libro di cui l’autore ha detto: Non è la storia del movimento spartachista.
 Ogni riga di Spartakus diviene un campo di battaglia poiché questa si continua a 
combattere spingendosi fin dove ha luogo la genesi dei simboli del potere e si deci-
de pertanto la sorte di ogni simbolo, nel cuore del linguaggio. Benjamin ha scritto 
di un fondamentale contrasto che percorre l’intero dominio della lingua, “poiché la 
lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del 
non-comunicabile”. Rivendicare questa potenza e attenersi ad essa è forse il tenta-
tivo ultimo del “monologo” di Jesi. Forse questo termine nomina Spartakus come 
un movimento immanente: tenersi nella scrittura all’interno della rivolta, fedele al 
parlare dell’anima perché l’epifania di novità non si richiuda nel tempo ordinario, 
ma coincida con una sua trasformazione integrale. Scrivere Spartakus non per farne 
52 Lettera di Calvino a Jesi, datata 8 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 100.
53 Lettera datata 12 gennaio 1969. Cit., p. 102.
54 Ibidem.
55 Lettera datata 11 dicembre 1969. In A. Cavalletti, Leggere «Spartakus», cit., p. VII.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
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la storia, ma per fare della scrittura il tempo puro della rivolta, qualcosa che non ha 
nulla da comunicare oltre sé; che si rischia davvero in una lotta ai ferri corti con i 
temi, poiché in quei temi ne va della scrittura stessa, e attinge, parola genuina, alla 
vita di cui i simboli vivono56
– appunta Cavalletti. Nella scrittura di Spartakus, la fisionomia della 
rivoluzionaria polacca viene restituita in maniera inedita, così come 
viene restituita la città invernale popolata dai volti demoniaci del 
potere, e restituito il tempo, preciso, entro il quale si possono dare, 
si danno sue epifanie e insieme la rivolta che, a differenza della 
sollevazione rivoluzionaria organizzata, riflette l’immanenza puntuale 
dell’esistere. Di più, Spartakus è uno dei vetrini tra i più vistosi del 
caleidoscopio jesiano sulla soglia del passaggio tra Sessanta e Settanta, 
nell’epoca della maggiore sovrapposizione dei suoi interessi e delle 
sue attività. Il disegno interno di questo caleidoscopio muta così per 
piccoli scarti originandosi da una medesima posizione di specchi, 
e nella rotazione che lo attiva e permette immagini sempre diverse 
distingueremo, e legheremo, i temi della notte e della battaglia; la 
fatalità del confronto; l’alternarsi della pratica della scrittura scientifica 
(ma à la Pound!) con il racconto; l’intervento sul mito e la militanza 
politica; Heine e il suggersi del poeta; gli ebrei di Damasco, vittime 
del funzionamentodella macchina mitologica antisemita e i miti 
del sangue e del suolo negli esegeti della mistica nazista; i vampiri, 
accumunati dalla stessa sorte esiliaca, connotata dal dolore e dalla 
propensione alla liberazione, e la Luxemburg, che «non a caso ‘diede 
del tu’ alla morte [ed era] un’ebrea di zona ‘hassidica’. E – scrive di 
seguito Jesi – non voglio dire affatto che la Luxemburg applicasse 
sempre consapevolmente lo hassidismo o addirittura il frankismo. Ma, 
certo, il suo non timore della morte si congiungeva con il suo sapere 
la non morte»57: siamo già sulle quinte di un romanzo possibile, ef-
ficacemente capace di contenere le funzioni dell’autore e del lettore 
che lo interrogherà, nel quale «leggere e scrivere risultano allora 
stretti in un nodo stretto, che mette in moto e induce a continuare 
il gioco»58, seguendo la formula di Pulce.
3. Romanzo vampirico e saggio vampirico
Fuori dalla pretesa di entrare in modo esaustivo nel romanzo 
L’ultima notte, anche per il fatto che «i riferimenti colti in questo 
romanzo sono talmente tanti, e tutti così fitti e polisemici, che risulta 
estremamente difficile controllarli, come è arduo controllare del resto 
56 Ibidem, pp. VII-VIII.
57 Lettera a Schiavoni datata 24 gennaio 1972. In «Cultura tedesca», cit., p. 179.
58 G. Pulce, cit., p. 132.
Carlo Tenuta
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la eclettica erudizione che emerge dai suoi scritti scientifici»59, per 
dirla con Andreotti, la storia raccontata da Jesi ha per protagonista 
lo scontro tra gli uomini e i vampiri.
 Millenni fa il mondo apparteneva ai vampiri. Poi Nostro Signore decretò che 
dovevano regnare gli uomini e i vampiri si ritirarono nelle latebre del sottosuolo, 
vicino alla terra da cui traggono le forze e che è la porta del mondo senza luce. 
Si cibano di sangue umano, ma di quello dei morti perché dopo la sconfitta è loro 
interdetto quello dei vivi […] Ma l’ora degli umani pare volgere alla fine, Jesi ci 
presenta case fatiscenti che sembrano essere solo malferme coperture del mondo 
vampirico. Infatti i vampiri ritengono giunta l’ora della riscossa e si riuniscono a 
concilio, senza il loro capo supremo, il conte Dracula, che il cattivo stato di salute 
costringe a restare nel suo castello dei Carpazi. Tuttavia egli firma la petizione che il 
concilio vuol sottoporre a Nostro Signore affinché dia il suo consenso a una nuova 
era vampirica. Un’ambasciata giunge in Paradiso, il consenso è dato. L’esercito dei 
vampiri procede allora vittorioso [...] Nella città che resiste più a lungo (sapremo poi 
da qualche connotazione topografica che è Torino) si cerca di mobilitare per la dife-
sa un Grande Poeta, che merita l’appellativo perché quando scrive versi sono presi 
dalla Divina Commedia. Costui non si scalda molto – i poeti sono oggettivi, quindi 
neutrali – ma evoca l’angelo Samaèl che consiglia di fare organizzare dal burattinaio 
Faraqàt una cerimonia propiziatoria, cioè una rappresentazione del teatro delle om-
bre [...] Il poeta per conto suo defeziona, poiché le celesti autorità gli impongono 
di abdicare alla Gorgone, che egli ha visto in volto acquisendo l’immortalità, e lui 
preferisce far domanda – subito accolta – per diventare vampiro. Sembra che non 
lo resti a lungo, perché la morte viene a prenderlo, lui la respinge ma poi cammina 
solo finché non giunge al trono di Nostro Signore. Il quale sta mancando di parola 
ai vampiri in seguito alla morte improvvisa del conte Dracula, cui si sentiva legato 
personalmente. Per ciò aggiunge che si sentirà liberato dalla promessa se i vampiri 
non avranno conquistato tutta la terra entro l’alba. Faraqàt si muove per la città 
per preparare lo spettacolo propiziatorio, ma non riuscirà mai ad eseguirlo perché si 
smarrisce nella battaglia che continua […] per tutta la notte. Le luci si riaccendono 
ma poi si spengono definitivamente mentre sorge l’alba che annuncia la fine60
– questa la trama ricostruita da Cases.
Il tema vampirico è al centro di un lavoro apparso originariamente 
nel 1973 in «Comunità»61, intitolato L’accusa del sangue e si propone 
come una riconsiderazione dell’intero dossier dell’omicidio rituale. 
Saggio diviso in due scritti distinti, è composto da un capitolo dedi-
cato al processo per omicidio rituale di cui si sarebbero resi colpe-
voli gli ebrei di Damasco e di una densa ricostruzione della figura 
del vampiro in ambito culturale e letterario tedesco. Se nel primo 
capitolo, dedicato al processo di Damasco del 1840, Jesi giunge a 
dimostrare come i documenti relativi all’accusa del sangue permettano 
di osservare lo specifico funzionamento della macchina mitologica, 
«nella seconda parte di codesto studio – scrive – ci proponiamo 
[…] di esaminare il funzionamento della “macchina mitologica” in 
relazione con altri, paralleli o intrecciati, aspetti della mitologia del 
59 A. Andreottii, Mito, arte, ermeneutica in Furio Jesi, in «Faraqàt», cit., 13.
60 C. Cases, Tempi bui per i vampiri, cit., p. 19.
61 «Comunità» (Milano), XXVII, n. 170, ottobre 1973, pp. 260-302.
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sangue – e precisamente in un’area di cultura (quella tedesca) ove 
in tempi recenti le accezioni antisemite della mitologia del sangue 
hanno avuto attuazione pratica di eccezionale portata»62. Il processo 
agli ebrei di Damasco si conclude così:
 I documenti relativi all’«accusa del sangue» permettono di osservare uno specifico 
funzionamento della “macchina miologica”: la reversione del mito è deliberata e si 
compie parallelamente alla conservazione a livello sacrale del mito stesso. I cristiani 
continuano a rievocare sacralmente il sacrificio eucaristico, ma al tempo stesso lo 
ribaltano in senso negativo e ne attribuiscono l’inversione ai “diversi” – agli ebrei. 
Di là dall’«accusa del sangue» è possibile scorgere la «macchina mitologica» che 
funziona in rapporto con due elementi: 1) l’esperienza del «diverso» (dell’uomo 
diverso), risolta nella configurazione di una differenza che è contrapposizione simme-
trica, quale esiste fra il Bene e il Male: il «diverso» non è soltanto diverso, ma è il 
contrario; 2) lo sfogo dell’impulso di reversione nei confronti del mistero eucaristico 
e del sacrificio della Croce: non attuato, né attuabile, nella pratica religiosa, codesto 
impulso è attuato per vero e proprio transfert – è imposto ad altri, e punito sugli 
altri; dal punto di vista psicologico, l’«accusa del sangue» e i massacri punitivi che 
la seguirono sono presumibilmente il risultato del ribaltamento sugli ebrei dei fattori 
di decadimento della mitologia cristiana e dell’angoscia di colpa che essi provoca-
vano precisamente nei cristiani. Ciò non significa, naturalmente […], che in tutte 
le coscienze cristiane e fin dal medioevo il mito del sangue di Cristo fosse in via di 
accentuato decadimento. Significa piuttosto che – essendo tale mito suscettibile di 
decadimento come ogni altro – una parte dei cristiani fu meno capace di opporre 
alle reazioni della propria psiche dinanzi a quel decadimento latente la saldezza di 
coscienza religiosa indispensabile per bloccarle in modo drastico e lasciò loro via 
libera nel momento in cui le trasferì sugli ebrei, provvedendo poi scrupolosamente 
a punirle (sugli ebrei)63.
La seconda parte del saggio ha invece per protagonisti gli spettri, 
i non-morti, delle opere della tradizione letteraria europea inglese e 
tedesca, dalla Lenore di Bürger ai personaggi di Voß, sino al Dracula 
stokeriano. Ed è il vampiro di Stoker quello sul quale si concentra 
maggiormente l’attenzione di Jesi:
 Nato da un substrato esoterico e da un retroterra culturale non meno ricchi 
ed enigmatici di quelli dei vampiri germanici (e in certa misura loro affini), il 
personaggio di Stoker può servire a comprendere o almeno a circoscrivere alcune 
caratteristiche salienti dei suoi omologhi. Il conte Dracula di Stoker raccoglie in sé 
tutti gli elementi del vampirismo destinati a sopravvivere con particolare fortuna 
[…] Suggere il sangue di un vivo, e in particolare di una donna viva,significa 
per lui reintegrare la sua esistenza al livello di una durata che, in mancanza di 
giustificazioni metafisiche o religiose [...] rappresenta una singolare coincidenza di 
materialismo e magia. Il sangue vivo, il sangue che scorre nelle vene, è simbolo di 
vita tanto per un materialista quanto per un cultore di magia. Materialismo e magia 
sono, del resto, ambedue reazioni contro la mistica: l’uno rifiuta come moralmente 
e gnoseologicamente erroneo l’abbandono all’entità irrazionale, extraumana, in base 
alla quale l’essere si pone come divenire mosso dal trascendente che coincide con 
62 F. Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologia antisemita, Torino, Bollati Boringhieri, 
cit., p. 42. D’ora in avanti si citerà da questa edizione.
63 Ibidem, pp. 40-42.
Carlo Tenuta
18
quella stessa entità o ne è ipostasi; l’altra, la magia, è pratica e teoria della violenza 
da operare entro e contro codesto «tutto scorre» mistico64
– appunta Jesi, che continua:
 Il conte Dracula di Stoker è, in termini di processo similare, sintomo di una 
rinascita della violenza magica sull’abbandono mistico. Quella violenza è tipica delle 
esperienze tra esoteriche e religiose che trovano l’occasione di sostituirsi entro certi 
limiti alle grandi religioni istituzionalizzate e al loro patrimonio mistico. È violenza 
che, nel suo contrapporsi alla mistica, si congiunge alla violenza del materialismo e 
della tecnica intesa come accezione legittima della scienza. Ed è violenza che con-
trappone, a livello metafisico, l’immobilità al «tutto scorre». Il sangue che alimenta le 
forze del vampiro è garanzia di immobilità, di durata immobile, talvolta mascherate 
dalle sembianze dell’eterno ritorno. In questi termini, il simbolo del «tutto scorre» 
per eccellenza – il sangue – trova corrispondenza con gli emblemi della conoscenza 
«positiva» e del progresso tecnico scientifico, nell’Inghilterra vittoriana. Ché quel 
progresso è, di fatto, garanzia di immobilità esistenziale e sociale, e quella conoscen-
za «positiva» fornisce le quinte dottrinali al palcoscenico in cui un dato modo di 
vivere, una data società, si presentano come eterni immobili. È ancora il rapporto 
tra illuminati e illuministi, là dove gli illuminati sono «old gentlemen» rosacrociani 
e gli illuministi sono tecnici-scienziati à la Spencer (tecnici, oltre che scienziati, nella 
misura in cui i loro «First Principles» fondano l’etica e la «inevitabile» dinamica so-
ciale/immobilità borghese, su norme ne varientur usate come strumenti gnoseologici 
sui selvaggi, i primitivi, i diversi)65.
Diversi sono, a questo punto, anche gli ebrei. E diversi sono gli 
artisti, che condividono la sorte degli esclusi «maledetti», dei vampiri 
dunque, che ai vampiri in fondo coincidono. L’esempio per Jesi è 
in primo luogo Hoffmann, alla base della cui opera «c’è un inquie-
tante auto vampirismo che corrisponde alla scissione tra io-artista 
e io-uomo: la prima vittima dei vampiri di Hoffmann è Hoffmann 
stesso, nella misura in cui egli si pone come vampiro che sugge la 
vita – e il sangue – a se stesso. In questo senso, essere vampiri è 
essere maledetti-privilegiati, ed essere morti-viventi»66. La disamina 
di Jesi giunge ora a Heine:
ciò che prevale in Heine è precisamente l’autovampirismo – di cui già parlavamo 
per Hoffmann –; auto vampirismo singolare: dai Traumbilder a Für die Mouche, la 
categoria «morto» (che è quella cui appartiene di necessità il vampiro) è dapprima 
la categoria della donna, dell’amata (e si può parlare di vampirismo e di necrofilia 
del poeta), per divenire poi la categoria dell’uomo, del poeta stesso [...] La chiave, o 
almeno una chiave, delle metamorfosi subite dall’autovampirismo di Heine si trova a 
nostro parere in uno dei testi heiniani che restano […] di più ardua interpretazione: 
il romanzo Der Rabbi von Bacherach67.
64 F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., pp. 51-52.
65 Ibidem.
66 F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., p. 54.
67 Ibidem, pp. 55-56.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
19
Il romanzo heiniano salda qui i due capitoli del saggio di Jesi, 
il quale adopera Heine per legare l’accusa di omicidio rituale al 
tema vampirico: «L’accusa di vampirismo rituale […] è una delle 
più antiche calunnie antisemite […] L’ebreo è il succhiatore di san-
gue, il vampiro per eccellenza, secondo una tradizione antisemita 
che fa coincidere vampirismo rituale con “vampirismo economico”: 
l’usurai ebreo succhia sangue ai cristiani, così come i rabbini ucci-
dono per Pesach un bambino cristiano al fine di suggere il sangue 
ritualmente»68 – afferma Jesi, che continua:
 In termini cronologici, Der Rabbi von Bacherach segna, paradossalmente, nella 
vicenda di Heine il momento prossimo al distacco dall’ebraismo […] La lacerazione 
di Heine tra ebreo e cristiano, tra vittima e privilegiato, si traduce a livello sociale 
nell’accusa di vampirismo che egli rivolta contro i cristiani [...]: è consapevole della 
differenza tra il vampirismo di cui sono accusati gli ebrei e il vampirismo che prati-
cano i poeti […] «Vampiri» del resto, in termini economico-sociali, non sono soltan-
to i cristiani rispetto agli ebrei, ma anche gli ebrei ricchi rispetto agli ebrei miserabili 
[...] Da un lato egli ha riconosciuto dei «vampiri» negli ebrei ricchi, dall’altro ha 
sempre nutrito ripugnanza verso gli ebrei poveri. La lacerazione del poeta non è 
quindi soltanto tra ebreo e cristiano: egli sa che i ricchi sono «vampiri», sa anche 
che tra gli ebrei vi sono dei «vampiri» (in questa accezione); da un alto egli accusa 
di «vampirismo» i ricchi, cristiani ed ebrei, dall’altro è costretto a congiungere la 
sua ripugnanza verso le vittime dei «vampiri» (gli ebrei poveri, i poveri) con il suo 
vampirismo di poeta. Rispetto alle vittime dei «vampiri» egli sta dall’altra parte; ma 
il suo vampirismo, che lo rende omologo e affine agli sfruttatori, è vampirismo di 
poeta e quindi implica la propria punizione: è auto vampirismo. La prima vittima 
del «vampiro» Heine è se stesso. Heine è «vampiro» in quanto poeta e anche in 
quanto estraneo, per ripugnanza, alle vittime dei «vampiri» economico-sociali; ma la 
vittima per eccellenza del suo vampirismo è egli stesso69.
Il saggio L’accusa del sangue, ed il suo capitolo Metamorfosi 
del vampiro in Germania, si concludono su Heine, nel cui caso il 
vampirismo è specialmente ossessivo poiché collegato alle accuse di 
vampirismo rituale rivolte contro gli ebrei. Di più:
è anche vero che tale ossessione si sarebbe difficilmente tradotta in tematica fonda-
mentale dell’operazione poetica se non ve ne fossero stati i presupposti, la vera e 
propria forma in cavo, nella situazione e nella coscienza del poeta in quanto tale. Il 
punto chiave è dunque, di nuovo, la configurazione del poeta – innanzitutto: auto-
configurazione – come manipolatore della materia vivente, della sostanza vitale per 
eccellenza […] Poiché il vampiro di Heine è solitamente anche necrofilia, e poiché 
esso è innanzitutto auto vampirismo, possiamo supporre che per Heine il vampiri-
smo e la mitologia del sangue fossero la formula emblematica, il cristallo simbolico, 
in cui la dicotomia […] poteva conchiudersi in una paradossale unità. Il vampiro 
tradizionale è un morto-vivente, un cadavere vivente […] Se di auto vampirismo si 
tratta, il morto vivente ha innanzitutto per vittima un morto: vampirismo e necrofilia 
si identificano […] Il vampiro necrofilo, l’autovampiro che di necessità è necrofilo, 
il morto che vittima ha se stesso, si autopunisce nell’istante in cui non accede al 
68 Ibidem, p. 56.
69 Ibidem, pp. 56-58.
Carlo Tenuta
20
sangue vivo [...] e in tal modo, anche, si salva dall’accusa di vampirismo rituale 
rivolta all’ebreo. La sua necessità di alibi (egli non sugge il sangue dei viventi) è 
replica dell’accusa millenaria contro gli ebrei; la sua autopunizione (egli, morto, è 
vampiro di se stesso, morto) è replica al potere di manipolare l’elemento vitale, del 
quale potere egli dispone come poeta70.
Autovampirismodell’artista; manipolazione dell’elemento vitale; 
sperimentazione di una strategia atta a dimostrare l’infondatezza 
storica dell’accusa del sangue e efficacemente capace di smontare la 
macchina al cuore della quale lavorava la mitologica equazione ebrei-
vampiri: lo studio di Jesi riordina in questo modo le accezioni di un 
funzionamento mitologico, alludendo continuamente all’aspetto politi-
co delle funzioni – e delle trasformazioni – della figura del vampiro, 
sino all’impiego tutto novecentesco della mistica del sangue:
 Ciò che accadde dopo, la mistica del sangue prenazista e nazista, è solo un 
volgare miscuglio di materiali mitologici, manipolati in vista di un obiettivo preciso 
[…] La mitologia vampirica è scarsissima nella letteratura nazista, che pure privilegia 
l’esoterismo del sangue. Per gli scrittori nazisti, non solo non esistono censure e 
autopunizioni, ma non esiste neppure la figura del manipolatore del sangue: egli, il 
manipolatore del sangue, era concretamente, storicamente presente dinanzi a loro, e 
ogni coincidenza dell’ambito del mito con l’ambito della storia è una trivializzazione 
del mito, oppure una sublimazione del mito a ontologia trascendente. L’eroe mitico 
– in questo caso, l’eroe negativo: il vampiro – cede il passo a chi governa o crede 
di governare la centrale del mito, la macchina mitologica71.
Calvino quanto a L’ultima notte scrive al mitologo torinese: «Ho 
letto L’ultima notte con tutto l’interesse che il tema mi ispirava. La 
situazione cosmica – processo di disgregazione della terra, regno dei 
Vampiri, che succede al regno degli uomini – e tutto quello che ad 
essa si riferisce come atmosfera lirica, m’hanno subito preso»72 e Cal-
vino, sul resto, predilige le scene della battaglia notturna, «nella notte 
della città»73. Questo tema viene magistralmente affrontato da Jesi 
nel già citato Spartakus, e in modo particolare nel capitolo dedicato 
a quel Tamburi nella notte ove si mescolano eco espressionista (il 
personaggio centrale, Klagler è un reduce, ed «Il ritorno del reduce 
è motivo tipico del teatro espressionista; [e] la sua frequenza consiste 
nella volontà di denunciare gli orrori della guerra che proseguono 
nella disperata condizione di chi ne ritorna, in qualche modo me-
nomato anche se magari con il corpo intatto»74) e suggestioni dello 
scontro sulla scena di una città notturna e demoniaca, connotata 
dai tratti dei simboli del potere, conoscibile soltanto attraverso la 
rivolta, circostanza che muta lo statuto da ordinario a non ordinario 
70 Ibidem, pp. 60-61.
71 Ibidem, pp. 61-62.
72 Lettera datata 8 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 99.
73 Ibidem.
74 F. Jesi, Spartakus, cit., p. 61.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
21
(«Usiamo la parola rivolta per designare un movimento insurrezio-
nale diverso dalla rivoluzione. La differenza […] non va ricercata 
negli scopi […] Ciò che maggiormente [le] distingue […] è invece 
una diversa esperienza del tempo»75, scrive Jesi in Saprtakus, mentre 
nella Lettura del “Bateau ivre” di Rimbaud appunta: «Il fascino della 
rivolta consiste innanzitutto nella sua immediata inevitabilità: essa 
deve ineluttabilmente accadere. Il tempo è sospeso: ciò che è, è una 
volta per tutte […] La rivoluzione può esercitare fascino assai minore 
proprio perché è estremamente arduo ed incerto stabilire quale sia 
il suo giusto tempo»76) del tempo sperimentato e vissuto nella città, 
come Jesi aveva già avuto modo di indicare in Germania segreta. Miti 
nella cultura tedesca del ’900, dove si legge «La natura mitica, e cioè 
profondamente umana, dell’immagine della città determinò, inoltre, 
il suo affiorare anche nell’opera di artisti estranei al mondo borghese 
e in aperta polemica con esso. Le sue apparizioni […] proprio per-
ché epifanie di un’immagine mitica, suscitarono commozione, amore 
e turbamento pure nell’animo degli artisti dell’espressionismo […] 
La città evocata da quegli artisti non è più il microcosmo borghese 
cinto da mura e popolato da un’aristocrazia ben difesa, oltre che da 
sbiadite immagini delle classi popolari. La loro città non è Lubecca, 
ma specialmente Berlino: la città dalle grandi periferie, popolata […] 
da un proletariato in miseria e in rivolta. Arnolt Bronnen racconta il 
suo arrivo a Berlino nell’inverno 1921-1922: “Che nomi avevano le 
strade! Lì erano i sogni di vacanza di un’intera generazione di bor-
ghesucci […] I nomi però ingannavano come i sogni: di reale non 
c’era che il vento gelido[…]” Berlino era ormai soltanto più la città 
dei poveri e dei rivoltosi: “di reale non c’era che il vento gelido”, 
le parole di Bronnen riecheggiano la condanna finale delle città bor-
ghesi pronunciata da Brecht: “di queste città resterà – il vento che le 
attraversa»77. Ancora sulla città notturna e spettrale della sollevazione 
spartachista, scrive Jesi:
 Durante i primi quindici giorni del gennaio del 1919 a Berlino cambiò l’espe-
rienza del tempo. Per quattro anni la guerra aveva sospeso il ritmo consueto della 
vita […] Nei primi giorni di gennaio del 1919 quell’attesa maturata per quattro 
anni parve colmata dall’apparizione subitanea e brevissima di un tempo di qualità 
inconsueta, in cui tutto ciò che avveniva – con estrema rapidità – sembrava avve-
nire per sempre. Non si trattava più di vivere e di agire nel quadro della tattica e 
della strategia […] Si trattava di agire una volta per tutte, e il frutto dell’azione era 
contenuto nell’azione stessa. Ogni scelta decisiva, ogni azione irrevocabile, significava 
essere in accordo col tempo; ogni indugio, essere fuori dal tempo […] Ogni rivolta 
è battaglia, ma una battaglia cui si è scelto deliberatamente di partecipare […] Ogni 
75 Ibidem, p. 19.
76 F. Jesi, Lettura del «Bateau ivre», cit., p. 30.
77 F. Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900, Milano, Feltrinelli, 1995, 
pp. 94-95.
Carlo Tenuta
22
rivolta è circoscritta da precisi confini nel tempo storico e nello spazio storico. Pri-
ma di essa e dopo di essa si stendono la terra di nessuno e la durata della vita di 
ognuno nelle quali si compiono ininterrotte battaglie individuali […] Si può amare 
una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote 
o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come 
la propria città […] propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è 
sospeso e n cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente 
immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle 
cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più 
tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città78.
In questi passaggi si riconosce la cifra della scrittura jesiana: son-
daggio scientifico, autobiografismo, scarto necessario in direzione di 
un respiro narrativo dell’operazione critica, e storico-culturale.
Calvino, sempre a proposito di L’ultima notte, risponde allo Jesi 
(il quale rivendicava «proprio [per] la consuetudine con le esperienze 
mitiche e simboliche vissute dal di dentro [che] mi ha portato, nella 
saggistica, a correttivi o barriere difensive di obiettività scientifica, e 
nella narrativa a un correttivo o a una difesa più pesante»79 ): «dietro 
il narratore si sente la competenza del saggista che parla di cose che 
sa»80: Calvino ha ben presente che L’ultima notte «Così com’è […] 
dà l’impressione di pagine di possibili libri diversi (diversi sia come 
modello di struttura letteraria sia come stile di scrittura) che gravita-
no attorno a quel misterioso nucleo lirico-onirico che è la notte della 
battaglia»81 e Jesi, per parte sua, si affretta a rispondere che «La […] 
osservazione sui possibili libri diversi, le cui pagine sparse gravitano 
attorno alla battaglia notturna, corrisponde esattamente all’impressio-
ne che io stesso ricavo da L’ultima notte […] Tengo [poi] in partico-
lare ad alcune dissonanze, o stridori, nello stile:dovrebbero garantire 
la qualità paradossale della “esperienza vampirica”»82.
Recensendo il romanzo, Cases ravvisava molti dei tratti di diffi-
coltà nella comprensione piena dei rimandi jesiani («Che cosa signi-
ficano i muggiti della Gorgone al telefono [...]? Vattelapesca. Data 
l’onniscienza di Jesi, può darsi benissimo che tutto si trovi in qualche 
libro cabalistico. Ma può darsi altrettanto bene che sia un parto della 
sua sbrigliata fantasia»83), una problematicità di confronto riflesso, 
evidentemente, del tasso di mestiere accordato da Jesi all’operazione 
narrativa, sebbene questo avvenga senza inficiare il risultato comples-
sivo cui l’opera perviene. Con buona ragione Teti appunta: «Dobbia-
mo a Furio Jesi, […] figura […] capace di muoversi in territori di 
confine poco esplorati, che vanno dal mito alla letteratura, dall’an-
78 F. Jesi, Spartakus, cit., pp. 20-25.
79 Lettera di Jesi a Calvino datata 12 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 101.
80 Lettera di Calvino a Jesi datata 2 aprile 1970. Ibidem, p. 103.
81 Ibidem, p. 104.
82 Lettera datata 7 aprile 1970. Ibidem, p. 105.
83 C. Cases, Tempi bui per i vampiri, cit., p. 19.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
23
tropologia alla germanistica e alla storia delle religioni, il merito di 
avere restituito al vampiro la centralità che occupa nella mitologia e 
nella cultura occidentale»84.
I vampiri di Jesi, dice Tardiola, arrivano «da altre dimensioni, 
da antiche mitologie lunari e sanguigne, dal repertorio archetipico 
ed iconografico delle società precristiane, da antropologie magio-
misteriche»85, giungono all’autore dunque come sopravvivenze nette, 
chiaramente distinguibili, del patrimonio che Jesi era andato sag-
giando sin da giovanissimo. I vampiri di Jesi sono un’alternativa agli 
uomini, al loro potere sulla terra, nel mondo, dentro al secolo, e non 
sono relitti della morte, esseri mostruosi ad essa sopravvissuti, ma 
demiurghi di fertilità, paladini di una terra «da loro difesa [che] non 
era soltanto un feudo miserabile, ma la terra tutta, le mirabili zolle 
di putrefazione e di nascita su cui goccia il sangue»86 e dunque sono 
portatori di rinascita, «Portatori di nuova vita, che si sono da sempre 
contrapposti agli uomini, visti come oppressori e dominatori»87: «Si 
racconta di loro che erano uomini morti sopravvissuti alla morte, i 
quali si nutrivano di sangue umano per alimentare la loro durata pal-
lida e notturna di fantasmi corporei. Ma non era vero. Forse avevano 
volto di uomo, ma non erano mai stati uomini. Di sangue umano 
s’erano sempre nutriti per vivere giacché vita e non morte si sarebbe 
dovuta chiamare la loro durata, e valutavano l’uomo alla stregua di 
un animale da macello»88, racconta Jesi.
Dopo una storia lunghissima di segregazione e di esistenza al mar-
gine, nella società attuale, desacralizzata dagli uomini che ne hanno 
conquistato il possesso «attraverso inenarrabili orrori»89, i vampiri 
non vogliono altro, finalmente, che sostituirsi agli uomini «[che] 
hanno ormai ben poco da vivere»90, i quali sono venuti meno ai suoi 
compiti di «signore della terra»91:
 Dopo secoli di silenzi, oppressione […] ritornano i vampiri per reclamare […] 
il possesso della terra, usurpato dagli uomini. Escono dagli scantinati, dalle case 
abbandonate, dalle rovine, dai sotterranei, dalle caverne sui monti, dagli spazi deserti 
e abbandonano il «loro doloroso esilio». Cominciano la loro riscossa guidati da Dra-
cula […] demone cadaverico e notturno, ma è, col suo corpo, principio di vita e di 
rinascita, «flusso di ininterrotte generazioni». I vampiri […] decidono di rivolgersi al 
Signore per affermare il «principio vampirico della libertà e della tolleranza» contro 
lo sfruttamento e le vergogne degli uomini92
84 V. Teti, La melanconia del vampiro, Roma, Manifestolibri, pp. 183-184.
85 G. Tardiola, Il vampiro nella letteratura italiana, Anzio, De Rubeis, 1991, p. 54.
86 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 20.
87 V. Teti, cit., p. 185.
88 F. Jesi, L’ultima notte, cit., pp. 5-6.
89 Ibidem, p. 10.
90 Ibidem, p. 20.
91 Si veda Teti, cit., p. 185.
92 Ibidem, pp. 185-186.
Carlo Tenuta
24
– segnala Teti. Questi vampiri si aggirano sullo scenario obsoleto del-
le rovine, nello spazio sfigurato da una catastrofe finale, tra i ruderi, 
e si muovono tra oggetti desueti di orlandiana memoria93: «Un tem-
po avevano dominato la terra. Ora, ridotti a mangiatori di carogne, 
popolavano timorosi e furtivi gli spazi deserti, le caverne sui monti, 
i sotterranei e le rovine [e] solo in una remota gola dei Carpazi uno 
di loro, il più grande di loro, viveva indisturbato e solitario entro 
un grande castello fortificato»94 (sul tema dei castelli vampirici si è 
recentemente soffermato Giovannoli, indagando sotto la lente vam-
pirologica il Castello kafkiano95).
Usciti dalle loro tane, i vampiri a gruppi conquistano le città 
del pianeta (anche se «Molte città duravano quasi intatte […] Gli 
strateghi vampiri usavano carte molto antiquate, su cui certi grandi 
e recenti agglomerati urbani erano segnati come modesti villaggi [ra-
gion per cui] la maggior parte delle metropoli umane erano rimaste 
indisturbate, oppure avevano visto gli squadroni vampirici avventarsi 
soltanto su qualche loro esiguo ed antico quartiere […] A Parigi 
era stata subitaneamente occupata solo la chiesa di Saint-Jaques-la-
Boucherie, a damasco solo la moschea degli Omayyadi. Ma i vampiri 
s’erano impossessati subito di tutta Nimega, di tuta Gnesen, di tutta 
Novgorod, di tuta Erivan»96, scrive Jesi: i vampiri dapprima espu-
gnano le città antiche, quelle cioè in più intimo contatto con le più 
remote e arcaiche verità) e in esse ingaggiano lo scontro definitivo, 
così che uno spettatore poteva accorgersi che «le montagne lontane al 
limite della via serravano la battaglia imminente in un cerchi di nevi 
appena più vasto della città. Si sarebbero disselciate le vie, frantumati 
i ponti sul fiume, abbattuti alberi per sbarrare i crocicchi»97, nella 
«Notte alta; [con] le strade del centro, [che] a cagione dell’imminen-
te battaglia, erano quasi deserte. Solo nelle piazze si intravvedevano 
uomini che costruivano barricate»98: avviene allora, nelle città dalle 
periferie buie, attraversate – brechtianamente – dal vento sulle «poz-
zanghere nell’asfalto […] continuamente agitate», l’ultimo e decisivo 
scontro. «La battaglia era giunta al culmine: poteva durare mesi o 
anni, ma ormai non avrebbe più consentito riposo. Fra poche ore, 
già ora forse, si lottava nel centro della città: nulla arrestava i vam-
piri, se non le pietre, le spranghe, i bastoni ricavati dalle staccionate 
divelte»99: adesso tutto è silenzioso, per le strade si muovono attenti, 
in piccoli gruppi, gli ultimi resistenti, «nell’ultima notte, qualcuno 
93 Ibidem, p. 142.
94 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 6.
95 R. Giovannoli, Il vampiro innominato, Milano, Medusa, 2008.
96 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 30.
97 Ibidem, p. 32.
98 Ibidem, p. 45.
99 Ibidem, p. 57.
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
25
che probabilmente non sapeva dei vampiri si esercitava al pianoforte. 
Molta neve bagnata, quasi intatta, copriva i marciapiedi più ci si al-
lontanava dai corsi»100. Si consuma così uno scontro che Jesi sembra 
narrare, affatto dissimile, nel saggio sulla simbologia della rivolta – in 
Spartakus. Se per esempio nel romanzo scrive: «Il freddo sembrava 
aumentare di ora in ora […] Quando [Faraqàt] giunse nelle zone 
del lungofiume all’estremità dei giardini pubblici, si unì a una piccola 
folla – qualche centinaio di persone, molte delle quali indossavano 
‘uniforme dei gruppi anti-vampiri – che avanzava vociando verso gli 
edifici dei giornali. I vampiri, gli dissero, avevano occupato i palazzi 
dei grandi quotidiani che già apparivano al fondo della strada […] 
D’improvviso […] udì vicinissimo il crepitio tonante delle armi 
da fuoco […] Qualcuno sparava. Il martellare delle mitragliatrici 
riempiva assordante le orecchie e l’aria s’era riempita di fumo», inSpartakus invece scrive:
 Al termine della dimostrazione a favore di Eichhorn, gruppi di operai avevano 
occupato le sedi e le tipografie del giornale socialdemocratico «Vorwärts» e di 
tutti i quotidiani importanti della capitale […] Testimonianze attendibili provano 
che l’iniziativa dell’occupazione dei giornali e delle tipografie fu favorita da agenti 
provocatori della Kommandantur di Berlino [...] A Berlino […] migliaia di com-
battenti operai si sacrificavano nella difesa di posizioni strategiche che ormai […] 
non potevano essere tenute a lungo […] Nella notte fra l’8 e il 9 gennaio le truppe 
controrivoluzionarie presero sotto il tiro delle mitragliatrici la redazione della «Rote 
fahne» […] All’alba dell’11 gennaio […] cominciò il bombardamento con artiglieria 
pesante della sede del «Vorwärts» occupata101.
Il grosso dello scontro si è consumato, manipoli di vampiri bivac-
cano in mezzo a «qualche falò che bruciava ai margini della piazza 
presso i cumuli di pietre cavate dal selciato [falò che] rischiarava 
le nuvole stagnanti di gas lacrimogeni»102, mentre «Battiti d’ali e 
muggiti, grida stridule e acute [colmavano] l’aria [e] I vampiri si 
scagliavano innanzi, nel grande buio che non era più rotto neppure 
dai falò. Anche senza vederle, si avvertivano al respiro e negli occhi 
le nuvole basse di gas lacrimogeni»103 quando un dispaccio avverte il 
comando dell’improvvisa e inaspettata morte di Dracula: «il mondo 
vampirico era privo del suo capo»104, scrive solennemente Jesi. Due 
100 Ibidem, p. 69.
101 F. Jesi, Spartakus, cit., pp. 32-33. Nei Tamburi brechtiani, il reazionario Babusch dice: 
«Dia retta a me: si udranno ruggiti di belve nel quartiere dei giornali, prima che venga mat-
tina», ibidem, p. 66. Jesi scrive nel romanzo: «Alla testa della colonna molti dovevano essere 
stati colpiti […] Chi sparava? I vampiri fino ad allora non avevano usato armi […] Non si 
trattava di vampiri […] Uomini sparavano contro la folla. Lo si seppe ben presto. Alcuni 
ufficiali erano riusciti ad aprire un deposito […] e avevano collocato un plotone di soldati a 
difesa del quartiere dei giornali. Quattro posizioni di mitragliatrici […] sbarravano la sola via 
d’accesso», in F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 72
102 Ibidem, p. 76.
103 Ibidem, p. 77.
104 Ibidem, p. 81.
Carlo Tenuta
26
messaggeri si presentano al comando per informare dunque che, a 
seguito della morte di Dracula, vengono meno le «garanzie impre-
scindibili di serietà e di valore che Nostro Signore ritiene necessarie 
per concedere la terra ai vampiri»105. Un ultimatum – di San Pietro. 
Va ricordato l’appunto jesiano in una delle lettere a Calvino (appunto 
che suona anche come la registrazione di un limite dell’opera): «La 
parodia pesante, il superficiale “canaille!”, del racconto, sono stati il 
correttivo difensivo per il resto […] Ciò coincideva, d’altronde, con 
i fatali dubbi sulla moralità della forma-romanzo; ma indubbiamente 
ciò induceva a superare i limiti della citazione o del collage […] per 
giungere a situazioni ‘pesanti’ di dubbia ironia, che – sono il primo 
a riconoscerlo – contrastano con il resto»106 – prevede poi che la 
terra, per essere governata dai vampiri, deve essere conquistata per 
intero entro l’alba: «I vampiri si gettarono veloci verso i quartieri del 
centro. Là, la battaglia infuriava più violenta. Avanti! Senza tregua! Il 
sole avrebbe visto sventolare sull’ultima casa della periferia il vessillo 
vampirico»107. I vampiri pongono fine all’offensiva, la terra, le città 
sono loro. Il romanzo jesiano termina così:
 Aveva smesso di nevicare all’improvviso […] Sui marciapiedi marcivano nella 
neve brandelli di carta e di stoffa, schegge di legno e avanzi rugginosi di carri. Sui 
tetti delle case trascorrevano rapide ombre di uccelli in volo. Non c’erano nuvole 
in cielo, e il sole cominciava a salire su limpidi orizzonti, senza liberare le vie del 
gelo notturno. L’ora era giunta: l’ultima, la desiderata, la conclusiva battaglia. Era la 
fine. Volgendo le spalle al fiume, Faraqàt abbassò il capo e disse: «Ecco, un’ora è 
trascorsa»108.
L’ultima notte si conclude in questo modo, con l’incantatore Fara-
qàt che volta le spalle alla catastrofe, nella sua accezione etimologica, 
che volta le spalle ad un rovesciamento. In una lettera a Schiavoni, 
Jesi dice:
 Lei mi potrebbe dire […] che [...] l’imperativo non è tanto quello di combattere 
da soli quanto quello di essere sconfitti. Io credo però che la battaglia finché dura, 
per il fatto stesso di durare, costituisce una sorta di vittoria (il ‘tema della gloria’ 
nelle poesie) per gli uomini che l’hanno intrapresa senza il soccorso di alcuno. Far 
durare la battaglia, ottenere questo tipo di vittoria, è lo scopo doveroso del ‘parlare 
troppo presto’, del ‘farsi incantatori’. Il momento più cupo sarebbe quello in cui, 
terminata la battaglia, si dovesse dire «Un’ora è trascorsa»109.
Ora, è semplice riconoscere i molti motivi comuni nella produzio-
ne dello studioso torinese, e semplice riconoscere anche la sovrap-
105 Ibidem, p. 82.
106 Lettera datata 12 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 101.
107 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 82.
108 Ibidem, p. 95.
109 Lettera datata 4 maggio 1970. In «Cultura tedesca», cit., p. 175. 
Furio Jesi tra saggistica e narrativa
27
posizione di questi nelle differenti forme della scrittura, dal saggio 
alla prova narrativa e dunque, infine, semplice seguire Jesi quando 
suggerisce che «Alla domanda: Non le viene voglia di scrivere un 
romanzo? L’autore […] può solo rispondere: non smetto mai di 
scriverlo»110. L’operazione di natura paradossale di affrontare il ma-
teriale letterario riconoscendo che questo è l’esito di un incessante 
lavorio creativo che, non senza una dose di ambiguità, nominiamo 
tradizione e verso il quale portiamo un debito ogniqualvolta si inten-
da aggiungere un nostro tassello al suo complessivo mosaico (Jesi si 
immette con il suo romanzo L’ultima notte nel novero degli scrittori 
vampirici), oppure – diversamente, almeno in teoria – ogni volta che 
si pretende di saggiare criticamente quel repertorio/tradizione con il 
fine di ricostruirne l’intima storia o la necessità o il senso, sempre 
si dà – paradossalmente appunto – come un’operazione «scientifica 
e artistica»111, insieme. Anche soltanto attraverso una ricostruzione 
parziale del lavoro di Jesi, risulterà chiaro come in quest’opera, presa 
nella totalità, vengano continuamente a coincidere quelli che Berar-
dinelli chiama gli spunti descrittivi e quelli teorici in modo tale da 
potere insieme discernere e confondere vita e ambiente, singolarità e 
storia, la forma e l’informe negli interessi camaleontici, “mimetizzati”, 
di un esempio novecentesco di saggista in quanto philosophe e di 
scrittore tout court, essendo ogni filosofo «un pensatore sperimenta-
le», pur accettando il rischio – già indicato dal succitato Berardinelli 
– che, mescolati insieme, quegli spunti descrittivi con quelli teorici, 
si rimanga su d’una terra di nessuno, «in una zona intermedia che 
finisce per scontentare tutti»: ma questo è il rischio per eccellenza 
proprio della saggistica, da assumere «sperando di ottenere una dose 
speciale di comprensione»112. Nel 1970, all’altezza dei lavori vampirici 
dunque, Jesi scriveva a Schiavoni d’aver imparato «ora anche un’altra 
tecnica: quella dell’essay più o meno cifrato, che è ben accetta an-
che alle persone serie non proprio papirologhe»113: verrebbe da dire 
allora che questa cifratura alla quale Jesi allude è quella dell’artista 
che si impone, mascherandosi e «mescolandosi», marranizzandosi, «di 
fiaccare l’immediatezza dell’ascolto delle voci più intime»114 sino, se 
non altro, all’apparire del tempo giusto, un tempo che permetta la 
pronuncia di quella voce intima: «sembra ridicolo, può anche esserlo, 
ma il tempo giusto può anche arrivare con la telefonata dell’amico 
che invita a collaborare a una rivista in cui non si entra senza stile 
e tono e note per bene: e allora si accettano

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