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3INTERSEZIONI / a. XXX, n. 3, dicembre 2010 «Non smetto mai di scriverlo»: Furio Jesi tra saggistica e narrativa di Carlo Tenuta 1. Gli inizi: le indagini di Furio Jesi Occuparsi di Furio Jesi significa spesso tentare di restituirne il profilo: quali idiosincrasie abbiano alimentato la circolazione margina- le dei suoi lavori non si può dire, ma è certo il fatto che se poco ge- neroso in verità appare Giorgio Agamben quando bolla come «magro [il] bilancio della saggistica italiana del novecento»1, di contro non è possibile dissentire dal suo giudizio sull’opera di Jesi. Un’opera nella quale «l’autore riesce di volta in volta a far saltare le categorie sulla cui opposizione si fondavano le fragili certezze dell’ideologia italiana del dopoguerra: razionalismo/irrazionalismo, mito/storia, laicismo/ religiosità, sinistra/destra»2. Ma occuparsene significa dare, poi, atto agli interessi jesiani di una mescolanza originalissima che ne deter- mina la cifra: le interferenze in Jesi si producono tanto all’altezza dei generi sperimentati, dalla saggistica alla poesia alla narrativa, quanto nell’amalgama di composizione delle sue pagine critiche; tanto all’al- tezza delle discipline frequentate, dall’archeologia alla scienza della religione alla germanistica alla riflessione sul mito, quanto nell’inter- rogazione di un lasso di tempo che copre uno spazio dall’antichità egizia sino al pieno contemporaneo. Parva jesiana: per ridare alla sua storia il senso di un capitolo tra i più importanti della cultura italiana del secondo Novecento conviene partire dalle origini. Datata 30 maggio 1964, la prima lettera di Jesi a Károly Kerényi è una richiesta d’ascolto: 1 G. Agamben, Il talismano di Furio Jesi, in F. Jesi, Lettura del «Bateau ivre» di Rimbaud, Macerata, Quodlibet, 1996, p. 5. 2 Ibidem. Carlo Tenuta 4 Egregio Professore, […] mi permetto di inviarle gli estratti di alcuni miei articoli sulla religione egi- zia e sulla religione greca […] Ciò mi dà occasione di scriverLe, e Le assicuro che per me tale rapporto epistolare è molto importante, poiché i Suoi studi mi sono serviti da guida fin dai primi tempi in cui ho affrontato questo genere di ricerche. In particolare il volume Suo e di C.G. Jung, Introduzione allo studio scientifico della mitologia, è stato il primo libro scientifico sull’argomento che lessi quasi ragazzo, e che mi fece intendere sotto quali prospettive si poteva osservare – e poi tentare di accostare – il fatto mitologico. […] Se Ella avrà la pazienza di leggere i miei articoli vedrà che almeno il Suo insegnamento mi ha condotto a raccogliere qualche documento […] Se Ella troverà qualcosa di interessante nei miei lavori, Le sarò riconoscente d’un giudizio3. Jesi nasce a Torino nel 1941; scrive per la prima volta a colui che sente come il più significativo tra i suoi maestri a ventitre anni. Il plico per Kerényi raccoglie scritti risalenti al 1958: pubblicati da uno studioso diciassettenne, gli articoli del ’58 portano titoli stentorei, come Le connessioni archetipiche; Rapport sur les recherches relatives à quelques figuratiòns du sacrificie humain dans l’Égypte pharaonique; Bès initiateur; Studi cosmogonici4: se procacità è sfrontatezza, non deve stupire il fatto che la sua giovanissima età si concili da subito con questo impegnativo cimento: abbandonato il liceo, Jesi prende la strada delle più autorevoli collezioni museali d’Europa, come ricorda la moglie Marta, il quale «ad un certo punto ha deciso di abbandonare la scuola e andarsene in giro a cercare i suoi maestri […] in quel periodo si interessava di egittologia, poi è passato alla storia delle religioni…lui andava nei grandi musei europei e in questo modo ha conosciuto…le persone che lo interessavano come indirizzo culturale […] L’ultimo è stato Kerényi e da lì si è dato al tipo di ricerca che gli è stata propria sino alla fine»5. Come per Rilke, si potrebbe parlare anche per Jesi di Heimatlosigkeit, di erranza per l’Europa e per il mondo come scelta di conoscenza. Jesi aveva pubblicato scritti quindicenne, nel ’566, e la sua prima opera è del 1958: quella La ceramica egizia. Dalle origini al termine dell’età tinita che, alla fine della prefazione allo studio, permetteva a Boris de Rachewiltz di affermare: «L’analisi delle teorie di altri studiosi e l’abbondanza delle note attestano […] la preparazione 3 F. Jesi, K. Kerényi, Demone e mito. Carteggio 1964-1968 (a cura di M. Kerényi e A. Cavalletti), Macerata, Quodlibet, 1999, pp. 13-14. 4 Per segnalazioni di ordine cronologico in riferimento all’originaria produzione jesiana rinvio alla bibliografia approntata in Risalire il Nilo. Mito fiaba allegoria (a cura di F. Masini e G. Schiavoni), Palermo, Sellerio, 1983, pp. 383-393 (bibliografia naturalmente manchevole quanto a titoli inediti di recente pubblicazione e alle ripubblicazioni). 5 Ricordo di M. Rossi Jesi, in Faraqàt. Quaderni di storia e antropologia delle immagini (Firenze), n. 1, La casa Usher, 1991, p. 61. 6 Si vedano gli scritti del 1956: Notes sur l’édit dionysiaque de Ptolémés IV Philopator (in «Journal of Near Eastern Studies», vol. XV, n. 4, U.S.A., pp. 236-240) e, con Vanna Chirone, Racconti e leggende dell’antica Roma (Torino, S.A.I.E.). Furio Jesi tra saggistica e narrativa 5 dell’Autore»7. D’altra parte, quello che de Rachewiltz intuisce del giovane Jesi troverà conferma due decenni più tardi, nel giudizio di Cases alla «produzione gigantesca (se commisurata alla brevità della vita)»8 di uno studioso «di antropologia, di mitologia, di letteratura e poesia esoterica e di mille altre cose»9 che, «data l’onniscenza»10, quando scrive si serve di una materia che «può darsi benissimo […] si trovi in qualche libro cabalistico. Ma può darsi altrettanto bene che sia un parto della sua sbrigliata fantasia»11, a riprova della com- mistione delle espressioni jesiane. La seconda lettera a Kerényi porta la data del 21 settembre: il 1964 è l’anno della svolta jesiana in direzione dell’interesse critico rivolto alla letteratura, come si evince dallo spoglio bibliografico, ma prima ancora dalla traccia contenuta nella lettera di settembre appena citata. Scrive Jesi: «Le sarei gratissimo se Ella mi consentisse di do- mandarLe qualche consiglio circa un lavoro che ho ora intrapreso, e precisamente uno studio sui rapporti fra lo scrittore Cesare Pavese e le ricerche etnologiche e storico-religiose»12. Questa lettera è la prima testimonianza del laboratorio jesiano. I tempi sono maturi: Pavese e Rilke rappresentano il campo di una iniziale applicazione di un me- todo di confronto con il prodotto letterario che in Jesi era andato profilandosi lungo un decennio di peregrinazioni. Primo esempio di contaminazione tra differenti interessi, Rilke e l’Egitto. (Considerazioni sulla X Elegia di Duino) e Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, apparsi nel 1964, aprono l’esperienza jesiana al lavoro critico-lette- rario imperniato sulla relazione tra letteratura e mito. Una relazione che molto risentirà dei raggiungimenti cui era arrivata la peculiare scienza della mitologia dello Jesi, una scienza anche politica - «E il problema del mito non è certo di modesta portata, anche sul piano dell’attività politica»13, appunta Jesi – rispetto alla quale «chi [ci] si dedica […] chi si propone agli altri come mitologo, deve cercare la giustificazione della propria qualifica, oggettiva e soggettiva, nel punto in cui la propria vicenda personale interferisce con la vicenda degli altri»14, come si legge nel suo Scienza del mito e critica letteraria. Ma Rilke e Pavese segneranno, ancora, un ambito di intervento che risulterà costante sino e oltre la metà dei Settanta: appaiati una 7 B. de Rachewiltz, Prefazione, in F. Jesi, La ceramica egizia. Dalle origini alla fine dell’eta tinita, Torino, S.A.I.E., 1958, p. 13. 8 C. Cases, Tempi bui per i vampiri, recensione al romanzo jesiano L’ultima notte (Genova, Marietti, 1987), in «L’Indice deilibri del mese», fascicolo speciale dedicato a Cases, maggio 2008, p. 19. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 F. Jesi, K. Kerènyi, Demone e mito, cit., p. 16. 13 F. Jesi, Mito, Milano, ISEDI, 1973, p. 107. 14 F. Jesi, Scienza del mito e critica letteraria, in Id., Esoterismo e linguaggio mitologico. Sudi su Rainer Maria Rilke, Macerata, Quodlibet, 2002, p. 19. Carlo Tenuta 6 volta di nuovo nel 1976, l’esito delle interrogazioni jesiane si riassume in uno «degli esempi più alti e non a caso meno noti della saggisti- ca italiana contemporanea»15 – con Cavalletti – ovvero Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke e, per ciò che concerne i temi pavesiani, nel fondamentale articolo Cesare Pavese e il mito: dix ans plus tard (Appunti per una lezione) che, con Venturi, «rappresenta un bilancio, una meditazione sul mito a dieci anni dal- le grandi prove sulle possibilità del mito in Pavese»16. Un bilancio, quello lasciato nell’ultimo articolo, tutto all’insegna dell’inframmet- tenza, a testimonianza di un preciso orientamento critico che parte dalla necessità di pensare cooperanti diversi approcci provenienti da differenti discipline che, nella relazione tra creare letterario e imma- gini mitiche, nella tensione tra portato delle sopravvivenze e delle attualizzazioni del materiale mitologico e poetica, riescono efficace- mente ad aprire l’interpretazione ad un cospicuo, necessario altro sin qui rimasto silenzioso: «Jesi metteva in guardia il lettore dal pericolo d’interpretare la ricerca “mitica” di Pavese con l’uso delle sole ca- tegorie letterarie poiché sussisteva la possibilità di distorcere […] il senso profondo della disperata moralità pavesiana»17 – afferma ancora Venturi, memore poi del pegno di un’amicizia «veramente mitica»18 con Jesi, artefice della rivoluzione critica che coinvolge Pavese tra metà Sessanta e metà Settanta e punto di riferimento per le indagini sul rapporto, in Pavese, tra attività di scrittore, ruolo dell’intellettuale e ricerca sul mito (prima che un problema siffatto, in relazione a Pavese, venisse «accantonato e trasformato in occasione di esercita- zioni più o meno accademiche»19), a partire dalla destrutturazione di un modello critico di corto respiro e latentemente tecnicizzato per motivi di ordine ideologico, sino qui in grado di proporre non tanto lo scavo sul mito in Pavese ma, soltanto, il mito-Pavese: e – ça va sans dire – il complesso ordine di problemi legato alla tecnicizzazione del mito, come da lezione kerenjiana, rimarrà d’ora in avanti focale nell’elaborazione jesiana, poiché «Demone è ciò che nasce dall’intor- bidirsi dello sguardo posato sul mito; il mito osservato attraverso la lente deformante del demonismo non è più il mito genuino»20. «Certo, Pavese ha subito la tentazione di calarsi nell’extra-tempo- rale; ma direi che l’originalità della sua esperienza consiste proprio nell’aver riconosciuto l’impossibilità di farlo, e la consapevolezza di 15 A. Cavalletti, Avvertenza, in F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico, cit. 16 G. Venturi, Cesare Pavese a trent’anni dalla morte: ipotesi critiche, in F. Masini e G. Schiavoni (a cura di), Risalire il Nilo, cit., p. 320. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 F. Jesi, Cesare Pavese e il mito: dix ans plus tard (Appunti per una lezione), in «Il lettore di provincia» (Ravenna), nn. 25-26, 1976, p. 17. 20 F. Jesi, Parodia e mito nella poesia di Ezra Pound, in Id., Letteratura e mito, Torino, Einaudi, 2002, p. 212. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 7 crederlo possibile»21, scrive Jesi a Schiavoni, suggerendo quali gli spazi critici, e come connotati, che ne avevano condizionato l’attività. Spazi determinati dall’influenza profonda di domande che lo studioso mediava dai primigeni interessi storico-religiosi ed etno-antropologici, incentrati in particolare sulla vicenda del mito: Io credo che la speciale fortuna degli studi su Pavese e il mito dieci anni fa sia stata soprattutto dovuta alle seguenti ragioni. Da un lato, certo, si è visto allora in quegli studi un’apprezzabile comparsa anche sulla scena italiana di strumenti critici collegati alle cosiddette scienze umane, in special modo all’antropologia culturale. Questo era già di per sé nuovo, era attraente, era perfino à la page […] Ma, a parte questo aspetto più superficiale, che pure ebbe il suo peso, mi sembra che si sia visto allora in quegli studi uno strumento per liberare la figura di Pavese dall’etichetta di “poeta decadente”, senza sacrificare aspetti oggettivi e palesemente importanti della sua opera. Per riconoscere insomma, legittimità morale alle caratteristiche dell’opera pavesiana più suscettibili dell’accusa di decadentismo. Per chi avvertiva il rigore morale dell’opera di Pavese […] si offriva l’occasione di battere l’avversario sul suo stesso terreno: di dimostrargli che proprio là dove si era trovato più vicino alle posizioni “decadenti”, proprio sul terreno del mito, della scienza del mito, dei presunti compiacimenti irrazionalistici, proprio là Pavese non era stato affatto “decadente”22. – scrive Jesi, ora convinto che l’operazione critica consista «per lo storico di un’attività intellettuale [nel] riconoscere e conoscere con- tinuamente la vita di qualcosa che è vivo. E questo qualcosa che è vivo, cioè l’opera dello scrittore, offre al critico non un punto di arrivo, ma infiniti punti d’arrivo diversi». E a punti di arrivo diversi e liberi da pregiudizio Jesi giunge ponendo al centro del proprio producimento Pavese, esempio che finirà col ricordare quello jesiano, di cui qui si intende trattare ponendo l’accento sull’attività saggistica e narrativa del mitologo torinese: Alla percezione di quell’obbligo morale (che coincideva con la fiducia nella pro- pria attività di narratore quale partecipe di miti) corrisponde in Pavese il rifiuto della narrativa apertamente fantastica e la volontà di coinvolgere nella sfera del mito le vicende e le presenze dell’oggi. La dialettica fra il Pavese autore di saggi dai quali traspare la fede nella qualità mitologica del narrare, e il Pavese narratore che di volta in volta verifica come nella sua collettività e nel suo tempo i grandi simboli mitici abbiano perso il loro valore festivo, trova equilibrio appunto nella volontà di non fuggire all’oggi e neppure di limitarsi al rimpianto sull’oggi sconsacrato […] la poe- tica di Pavese, di cui è prima garanzia l’originalità del suo stile, è innanzitutto la te- orizzazione morale della necessità di agire e di vivere anche se la città è sconsacrata e i tesori sacri della campagna non sono più accessibili […] l’aspetto più personale e profondo del rapporto di Pavese col mito ci sembra consistere nell’immagine del sacrificio: nella necessità morale di vivere nell’oggi, anche se così l’«eterno ritorno» al tempo primordiale del mito è reso possibile solo più dal riconoscere nel mito un 21 Lettera a Schiavoni datata 25 novembre 1969. In G. Schiavoni, «Scegliere secondo giu- stizia». A proposito di alcune lettere di Furio Jesi, in «Cultura tedesca» (Roma), n. 12 (numero dedicato a Jesi, a cura di G. Agamben e A. Cavalletti), Donzelli, dicembre 1999, p. 171. 22 F. Jesi, Cesare Pavese e il mito: dix ans plus tard, cit., p. 17. Carlo Tenuta 8 simbolo etico, la legge cifrata di una virtù dalla quale, quando ci si sottopone alla sua legge, si può ottenere la morte […] Morte, nei termini di quella morale, significa sacrificio23. Jesi continua: Il critico non solo non deve lasciarsi ipnotizzare dall’apparente vicenda dei suoi strumenti, in sé e per sé, e dall’illusione di progresso che può scaturirne, ma deve riconoscere che, in sé e per sé, quella vicenda è una pura astrazione, non possiede esistenza storica; ed egli deve sforzarsi di ricercare le ragioni della genesi e delle tra- sformazioni degli strumenti critici nei processi di interazione fra l’opera di ciascuno scrittore e la storia di coloro che la riconoscono e la conoscono come cosa viva; laloro storia collettiva, e anche la loro storia individuale. Per questo, parlare “dieci anni dopo” di Pavese e il mito significherà per me innanzitutto esporre alcune rifles- sioni sulle possibili ragioni intrinseche sia all’opera pavesiana, sia alla nostra storia, e alla mia storia, per cui la figura di Pavese continua a riproporsi non meno viva, dunque non meno enigmatica che il primo giorno, alla critica – così che questa sua enigmaticità appare un valore prezioso, se non ci si vuole limitare a costruire un monumento sulla sua tomba, e questa critica si presenta come una sorta di collettivo work in progress. Work in progress eterogeneo, in cui anche i monumenti funebri hanno il loro posto, ma nella cui complessità eterogenea devono avere il posto che attribuisce loro la storia, la quale è appunto la strada e la norma che ci permette di addentrarci da critici nella critica24. La critica, dunque, è l’approdo finale di una lunga navigazione all’insegna di quel vagare che è «forse l’azione intellettuale che più si addice alla sua riflessione»25, una riflessione intenta a sondare, adoperando il Ginzburg di Spie. Radici di un paradigma indiziario, «un metodo interpretativo imperniato sugli scarti, sui dati margina- li, considerati come rivelatori»26 (ciò che dalla metà del Settecento avrebbe d’ora in avanti preso il nome di serendipity27). Meglio, la critica è il punto d’arrivo cui Jesi giunge, evidentemente non più solo attratto dal «fascino nei confronti dell’antico o del preistorico, da cui ha preso le mosse la sua riflessione, ma [piuttosto da] ciò che l’antico sembra evocare [anche se] il suo sguardo […] non è fondato sull’ingenua percezione che antico e moderno coincidano, bensì sul continuo scarto – meglio sullo stridìo – che essi continua- mente ripresentano. Al meccanismo della facile illusione […] egli dunque fa costantemente seguire il senso della riflessione critica»28: la critica è l’esito naturale di un cabotaggio la meta del quale Jesi aveva da molto tempo presente, se vogliamo credere alla confessione 23 F. Jesi, Cesare Pavese dal mito della festa al mito del sacrificio, in Id., Letteratura e mito, cit., pp. 168-170. 24 F. Jesi, Cesare Pavese e il mito, cit., p. 17. 25 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia. Su Furio Jesi, in F. Jesi, L’ac- cusa del sangue. Mitologie dell’antisemitismo, Brescia, Morcelliana, 1993, p. 94. 26 C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Id., Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1986, p. 164. 27 Ibidem, p. 182. 28 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 95. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 9 secondo cui: «Se […] si prenderà la briga di andare a vedere la mia bibliografia, scoprirà che dai 15 ai 24 anni ho pubblicato unicamente articoli di egittologia. Scrivevo anche ‘saggi’ […] ma non potendo pubblicarli avevo scoperto la via per fare accettare i propri scritti a riviste autorevolmente accademiche: fingere di infangarsi, come dice Pound, nelle paludi della filologia»29. Nel 1970, all’altezza di questa confessione, «l’enfant prodige che aveva attraversato quindicenne gli impervi sentieri dell’egittologia – scrive Agamben –, si era ormai imposto come il più intelligente stu- dioso italiano di mitologia e scienza delle religioni e, insieme, come una delle personalità più originali della cultura di quegli anni, difficile da rubricare nei limiti di una disciplina accademica»30. «Niente era meno congeniale a Furio Jesi, e niente è più sterile per i suoi lettori, che collocare i suoi interessi in un tassello disciplinare preciso. Men- te inquieta e lucida, Jesi aveva la capacità di saper creare metafore intellettuali, ossia di lavorare intorno a una intuizione aforismatica»31, ricorda Bidussa. In una rubrica disciplinare Jesi in effetti non finì mai: traduttore e mitologo, Jesi in un appunto risalente al biennio ’76-’77, scrive: Traduzione e mitologia: queste due parole hanno in comune una oscillazione se- mantica che può essere descritta nel modo più semplice così: esse significano tanto un prodotto quanto un’attività produttiva. È un prodotto la traduzione tedesca della Bibbia eseguita da Lutero, ed è un prodotto la mitologia dionisiaca di Euripide nelle Baccanti. Ma la parola «traduzione» significa anche l’attività – produttiva – del tradurre, così come la «mitologia» significa anche l’attività – egualmente produttiva – del mitologizzare32. 2. Accenni al racconto critico jesiano: coincidenze tra critica, saggistica e narrativa L’approccio di ciascun osservatore o ricercatore al fenomeno […] può essere descritto come la genesi di un determinato modello gnoseologico, cioè dello sche- ma determinato in cui di volta in volta s’è attuata l’esperienza conoscitiva. Ciascun modello gnoseologico coincide con un conoscere in atto fin tanto che dura la sua fase genetica. Una volta conclusa tale fase, definitosi compiutamente il modello, è più esatto parlare di conoscenza riflessa, cioè dell’alone di sopravvivenza che sussiste intorno al modello stesso, ormai schema irrigidito, formula data anziché conoscere in fieri. Ciascun conoscere in fieri, ciascun approccio non riflesso al fenomeno umano osservato, ciascun modello gnoseologico nella sua fase genetica, è caratterizzato e delimitato dall’interazione fra quanto vi è di permeabile nel fenomeno e quanto vi 29 Lettera a Schiavoni datata 4 agosto 1970. In G. Schiavoni, «Scegliere secondo giustizia», cit., p. 177. 30 G. Agamben, Il talismano di Furio Jesi, cit., p. 5. 31 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 93. 32 F. Jesi, Traduzione e mitologia, dattiloscritto reperito da A. Cavalletti, ora in «Cultura tedesca», cit., p. 147. Carlo Tenuta 10 è di permeabile nell’osservatore: conoscenza, in questa accezione, è incontro di due permeabilità33. La critica instaura un rapporto a due ed è su questo rapporto che si articola, che si sviluppa ulteriormente: Jesi è un costruttore di modelli gnoseologici e, insieme, da questi modelli prende nel tem- po le distanze. Delle giuste distanze, necessarie, perché necessario è verificare le possibilità di negazione e riformulazione di ciò che, altrimenti, apparirebbe come sistematico, universale e perenne; il modello jesiano, dunque, compone risultati sempre provvisori, prov- visori raggiungimenti. L’io che è «sicuro» intreccia adesso il suo discorso […] con l’io che non solo adesso non è sicuro, ma dubita molto di poterlo essere mai. Alla base della tecnica di conoscenza per composizione sta questo intreccio di due voci, che non po’ essere detto dialettico se non nella misura in cui “dialettico” significa puramente e sem- plicemente «drammatico». L’operazione gnoseologica che si compie […] è dunque, nelle intenzioni dell’autore – che valgono quello che valgono, ma che è opportuno siano chiarite –, di natura paradossale, scientifica e artistica. Alla domanda: Non le viene voglia di scrivere un romanzo? L’autore di questo libro può solo rispondere: Non smetto mai di scriverlo34 – annota Jesi in chiusura della Prefazione al lavoro che più tardi sa- rebbe divenuto Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea. Nominare oggi Furio Jesi implica affrontare preliminarmente un’operazione di rimemorizzazione […] il [suo] nome sembra uscito dalla memoria per collocarsi nel tempo delle cose, in uno «scaffale riservato e prezioso» di alcune biblioteche private, dove il circolo dei suoi amici e quello ristretto dei suoi lettori appassionati si incontrano complici. Ma è un incontro silente dove il «vuoto» si accompagna alla consapevolezza che appropinquarsi ai suoi scritti si trasformi costantemente nella sensazione di un continuo scarto tra la capacità creativa e l’imprevedibilità della sua riflessione35 – sintetizza Bidussa. Ciò che più colpisce nell’appunto di Bidussa è il rinvio ad un incontro silente con l’opera di Jesi: non si può dire se Bidussaqui intenda rimandare alla chiusura dell’Ultimo canto di Saffo nei cui versi, seguendo il Leopardi della Premessa, riecheggia «Il grande spazio frapposto tra Saffo e noi, [che] confonde le imma- gini, e dà luogo a quel vago ed incerto che favorisce sommamente la poesia»36, ovvero quello spazio fertilissimo quanto ad epifanie mitiche 33 F. Jesi, La festa e la macchina mitologica, in Id., La festa. Antropologia etnologia folklore, Torino, Rosemberg & Sellier, 1977, p. 175. 34 F. Jesi, Prefazione, in Id., Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleu- ropea, Torino, Einaudi, 2001, pp. 355-356. 35 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 94. 36 G. Leopardi, Premessa all’ultimo canto di Saffo, in Id., Poesie e prose (a cura di M.A. Rigoni), Milano, Mondadori, 1987 (qui 1990), volume primo, p. 681. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 11 prodotte dalla macchina mitologica elaborata da Jesi il cui frutto, il fatto mitologico, «concentra in un sol punto, extra temporale, extraspaziale, le luci che provengono dal passato e dal fututo»37 (e d’altra parte, il rimando a passato e futuro è colto efficacemente da Bidussa quando questi appunta: «La letteratura, il testo letterario, la dimensione del mito e gli ambiti del sacro non sono spie di un immaginario letterario, ma costituiscono la strategia narrativa che contemporaneamente fornisce l’assetto razionale del passato e pre- scrive le norme per il futuro»38). Più semplice, invece, è il fatto che semanticamente quel silente rimandi ad una sospensione dell’ordina- rio, ad un vuoto, alla notte, ad un luogo temporale ove infine si dia occasione «di contrapposizioni drammatiche fra luce e tenebra»39, dove opposti interferiscono inscenando un dramma che ha per prota- gonista il tempo (ed il tempo, nella scrittura saggistica, è il problema da risolvere perché, chiaramente, il tempo della saggistica è un tempo non lineare, alternativo, diversamente ritmato). Riferendosi all’approc- cio jesiano al mito, scrive ancora Bidussa: «non è solo un cammino impervio, ma un avventurarsi per sentieri oscuri dove il richiamo fascinatorio del “notturno” può continuamente prevalere»40. È in queste condizioni che Jesi affronta il funzionamento della macchina mitologica antisemita, «l’argomento su cui Furio Jesi ha lavorato per anni e che trova nel saggio L’accusa del sangue una prima sistema- zione teorica per poi costruire in forma strutturata la categoria di “macchina mitologica”»41. In questo senso, la notte jesiana pare segnare un rito di passag- gio per lo studioso che ora sempre più assomiglia ad uno di quegli «adolescenti che si avventurano nella notte [uno] dei topoi ricor- renti della letteratura orale, della favolistica, dell’epica, per i quali le sopravvivenze degli istituti iniziatici valgono come giustificazione di permanenza e di coesione»42, seguendo uno scritto dedicato al Rhesos pseudo-euripideo. E la notte, dunque, funge da pretesto per introdurre un capitolo significativo della sua produzione quanto ad implicazioni in riferimento alla molteplicità delle scritture del mito- logo, scritture sempre all’insegna del metodo per composizione ove echeggiano «una pluralità di voci, di soggetti e di maschere»43. 37 F. Jesi, Il processo agli ebrei di Damasco, in Id., L’accusa del sangue. Mitologie dell’anti- semitismo, cit., p. 27. 38 D. Bidussa, Retorica e grammatica dell’antisemitismo, in F. Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, Torino, Bollati Boringhieri, 2007 p. VIII. 39 F. Jesi, Notte mitica e notte di un mito, in Id., Materiali mitologici, cit., p. 148. 40 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 110. 41 D. Bidussa, Retorica e grammatica dell’antisemitismo, cit., p. XXVI. 42 F. Jesi, Notte mitica e notte di un mito, cit., p. 155. 43 D. Bidussa, Sull’impossibilità di dire Io, in «Cultura tedesca», cit., p. 15. Carlo Tenuta 12 Nel gennaio del 1960 io stesso tentai la rappresentazione in una cantina di Tori- no dei Tamburi della notte di Brecht [...] Nella cantina di via Silvio Pellico n. 6, la notte del 29 gennaio 1960 ebbe luogo la rappresentazione dei Tamburi della notte [...] Il dramma venne realizzato secondo i dettami più rigorosi della poetica espres- sionista […] I «tamburi nella notte» risuonaron ancora una volta in Torino, ricoperta di neve, che era scenario stesso del dramma, con le sue strade, i suoi palazzi, le sue inferriate, riconoscibili negli acquarelli di Grosz44. Jesi ricostruisce così la sua esperienza – l’unica – di regista: dalla lettura dei Tamburi brechtiani nascerà, alla fine del decennio Ses- santa (nella notte tra l’11 e il 12 dicembre 1969, in una lettera, Jesi scriveva: «Ti annuncio gloriosamente d’aver terminato un’ora fa la riletura del dattiloscritto di Spartakus […]. È finito. È […] comple- tamente fuori tema […] È finito ed ha assorbito l’essenziale di tutto il tessuto connettivo del mio fronte di lavoro, dal trattato mitologico agli articoli sindacali, alle poesie, al romanzo vampirico. Per questo, tutte le sue pagine sono il risultato di una contesa ai ferri corti con il tema; i temi piovevano da tutte le parti ed erano tutti “fatidici”»45), l’importante lettura delle vicende dell’insurrezione spartachista di Spartakus. Simbologia della rivolta. Sono questi gli anni del suo mag- gior impegno nella militanza sindacale, anni dei quali si testimonia in una lettera a Schiavoni: Il mio lavoro è qualcosa di simile alla ricognizione circa i particolari di un cam- po di battaglia: nella battaglia siamo coinvolti tutti (e dobbiamo sapere di esserlo), e l’atteggiamento che assumiamo o assumeremo nella battaglia trascende di gran lunga la nostra abilità di ricognitori […] In sostanza: il lavoro di ricognizione (i miei scritti, per esempio) è fondamentalmente secondario rispetto al combattimento. Certo, prima di combattere, è necessario conoscere il terreno; ma una volta indagato il terreno, si tratta poi di combattere. E questo lo si fa […] nella ‘strada’ e nella ‘fabbrica’, non certo scrivendo su Rilke46. La sua attività politica e la posizione assunta nei confronti del mito in Pavese, origineranno la frattura definitiva con Kerényi che imputava a Jesi di rispecchiare posizioni italo-comuniste. Jesi scrive – nel maggio 1968 – all’ungherese: Se il mio discorso rispecchia davvero l’ideologia “italo-comunista”, non vi è da parte mia alcuna mascheratura, poiché […] io svolgo funzioni pubbliche, palesi, nell’ambito del sindacato marxista (CGIL) dei lavoratori poligrafici e cartai, e in ogni discorso politico mi sono sempre espresso a favore del comunismo. Ciò non significa, naturalmente, che io accetti in ogni suo aspetto la linea politica del par- tito comunista italiano o di quello russo; ma significa che il mio voto politico va 44 F. Jesi, L’espressionismo a Torino, in Faraqàt, cit., p. 24. 45 In A. Cavalletti, Leggere «Spartakus», in F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. VII. 46 Lettera a Schiavoni datata 26 giugno 1972, in Carteggio Jesi/Schiavoni (a cura di G. Schiavoni), in «Immediati dintorni» (Bergamo), n. 1, pp. 330-331. Qui in D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., p. 109. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 13 da tempo, comunque e pubblicamente al partito comunista […] nei limiti in cui io posso valutare il mio stesso discorso, su Pavese, l’ideologia comunista vi interferisce in quanto paradigma di valutazione morale di determinati atteggiamenti e compor- tamenti altrui. Replicando alla sua obiezione, sono costretto a dire che la risposta a una critica non può consistere nell’attribuire un’etichetta al critico, ma dovrebbe essere fondata su argomenti tali da contestare la veridicità della critica stessa […] Se la sorte vuole che io sia costretto a rivolgere queste parole alla persona che ho considerato maestro dall’adolescenza, ciò significa che i tempi sonoparticolarmente oscuri. Dubito, d’altronde, che essi possano rischiarirsi senza prima divenire ancora più oscuri: senza cioè che sia raggiunto il culmine della crisi. E probabilmente sarà una crisi che si dispiegherà nelle vie e che si combatterà con le armi; una crisi in cui anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, nell’una e nell’altra schiera47. Nella testimonianza dello Jesi brechtiano si percepisce la fascina- zione per il tema notturno, per la notte della città; un tema, poetica- mente valido che, seguendo Pulce, risulta tra i più frequentati dalla saggistica, dove questa avverte, tra i problemi più sentiti, «quello, squisitamente gnoseologico, dell’unicum, che si incarna via via nel mostruoso, nell’inquietante, nel patologico eccetera, ma che viene a rifrangersi in una serie coerente di figure allegoriche: il doppio, la prigione, la notte»48. Jesi ricorderà l’esperimento brechtiano in una lettera a Calvino: «Lei probabilmente non sa che, nel 1960, io avevo curato la regia di un ‘visionario’ Tamburi nella notte di Brecht: «notte di battaglia. E […] io confido proprio nell’essere per me il tema notturno “visiona- riamente produttivo”»49. La corrispondenza Jesi-Calvino è incentrata sulla vicenda dell’unico romanzo jesiano, L’ultima notte: il lavoro, frutto di un progetto lungo più di un decennio (Jesi ci si dedica tra il 1960 e il 1972, a conferma che i saggisti «compongono libri dei loro saggi e articoli sparsi senza suturarne gli estremi […] Libri non- libri che esibiscono eterogeneità di tempi e di argomenti, […] che si sottraggono alle classiche unità ma in cui una forma di unitarietà pure viene colta. È un’unitarietà che il lettore è chiamato a rinvenire in prima persona: è il lettore a rintracciare il senso più generale del discorso che i vari pezzi vanno articolando e che a loro volta altri, lettori-scrittori, hanno percorso»50), apparirà postumo nel 1987, mo- strando «lo stesso ‘sapiente’ e divertito interesse [che] traspare nel libro per bambini-adulti: La casa incantata, uscito anch’esso postumo nel 1982»51. Significativo lo scambio epistolare con Calvino, perché il 47 F. Jesi, K. Kerényi, Demone e mito, cit., pp. 116-117. 48 G. Pulce, Elogio della discontinuità. Di alcuni tratti della scrittura saggistica nella lettera- tura italiana novecentesca, in Il saggio. Forme e funzioni di un genere letterario (a cura di G. Cantarutti, L. Avellini, S. Albertazzi), Bologna, Il Mulino, 2007, p. 119. 49 Lettera datata 12 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 101. 50 G. Pulce, cit., p. 132. 51 M. Cottone, Furio Jesi: Vampirismo e didattica. Le lezioni su: «Il vampiro e l’Automa nella cultura tedesca dal XVIII al XX secolo», in «Cultura tedesca», cit., p. 44. Carlo Tenuta 14 ligure è a sua volta autore di uno scritto vampirico, compreso in Il castello dei destini incrociati, ovvero una Storia del regno dei vampiri dedicata a quelle creature dell’immaginario del patrimonio folclorico, culturale e letterario che rappresentano, a detta dello stesso Calvino, «un fatto religioso-storico-sociale serio»52. Jesi, pienamente convin- to dell’affermazione calviniana, risponderà infatti «forse li ho presi troppo sul serio, e quindi me ne sono difeso con giochetti della più spicciola parodia»53: i vampiri, «i quali suscitano poche avventure, lungo dolore»54, entrano così a pieno titolo nel cuore dei problemi indagati dal mitologo. Prima di riprendere il romanzo jesiano, seguo di nuovo le tracce lasciate da Jesi nelle lettere: lo studioso scrive come a suo avviso «forse non è casuale il fatto che, insieme con Spartakus, sia finito an- che il citato romanzo vampirico»55. L’ultima notte, le poesie dell’unica raccolta L’esilio: tutto ciò che accompagnava la sua attività critico- saggistica converge ora intorno a questo lavoro dedicato alla vicenda di Luxemburg e Liebknecht, certo, ma anche a Brecht e a Mann, alla simbologia della rivolta, al tempo che le è proprio: In questi termini […] la scrittura rivela insieme al proprio condizionamento il tenore politico che le compete. Nelle giornate dell’inverno 1918-19, nel pieno della battaglia per le strade di Berlino, “ogni gesto valeva per se stesso” e gli uomini combattevano negli altri uomini il volto disumano, mitico-demoniaco del potere. Mentre l’analisi si dispiega seguendo la fascinazione che i “demoni della città” eser- citavano proprio su chi si votava senza riserve alla distruzione delle loro forme, ogni riga, ogni parola vale di per se stessa nella battaglia che si prolunga come scrittura di Spartakus. Non sono forse poesia, propaganda, opera narrativa, entità separate e già sospese? Il gesto autonomo di chi scrive, non corrisponde al fallimento politico della rivolta, e il fallimento non resta solo entro un gesto determinato? Niente come un libro può imprigionare definitivamente quel tempo inconsueto, consegnarlo alla normalità quotidiana. Può invece darsi una scrittura che non intrattenga un rapporto di esteriorità con la rivolta? Può, in altre parole, una scrittura non essere per altri, ma eversiva nel bagliore della sua unicità? Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht sono stati assassinati, l’insurrezione ha subito una sconfitta effettiva, incontestabile sul piano storiografico…Ma appunto questo effetto e questo piano sono ancora in gioco in un libro di cui l’autore ha detto: Non è la storia del movimento spartachista. Ogni riga di Spartakus diviene un campo di battaglia poiché questa si continua a combattere spingendosi fin dove ha luogo la genesi dei simboli del potere e si deci- de pertanto la sorte di ogni simbolo, nel cuore del linguaggio. Benjamin ha scritto di un fondamentale contrasto che percorre l’intero dominio della lingua, “poiché la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del non-comunicabile”. Rivendicare questa potenza e attenersi ad essa è forse il tenta- tivo ultimo del “monologo” di Jesi. Forse questo termine nomina Spartakus come un movimento immanente: tenersi nella scrittura all’interno della rivolta, fedele al parlare dell’anima perché l’epifania di novità non si richiuda nel tempo ordinario, ma coincida con una sua trasformazione integrale. Scrivere Spartakus non per farne 52 Lettera di Calvino a Jesi, datata 8 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 100. 53 Lettera datata 12 gennaio 1969. Cit., p. 102. 54 Ibidem. 55 Lettera datata 11 dicembre 1969. In A. Cavalletti, Leggere «Spartakus», cit., p. VII. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 15 la storia, ma per fare della scrittura il tempo puro della rivolta, qualcosa che non ha nulla da comunicare oltre sé; che si rischia davvero in una lotta ai ferri corti con i temi, poiché in quei temi ne va della scrittura stessa, e attinge, parola genuina, alla vita di cui i simboli vivono56 – appunta Cavalletti. Nella scrittura di Spartakus, la fisionomia della rivoluzionaria polacca viene restituita in maniera inedita, così come viene restituita la città invernale popolata dai volti demoniaci del potere, e restituito il tempo, preciso, entro il quale si possono dare, si danno sue epifanie e insieme la rivolta che, a differenza della sollevazione rivoluzionaria organizzata, riflette l’immanenza puntuale dell’esistere. Di più, Spartakus è uno dei vetrini tra i più vistosi del caleidoscopio jesiano sulla soglia del passaggio tra Sessanta e Settanta, nell’epoca della maggiore sovrapposizione dei suoi interessi e delle sue attività. Il disegno interno di questo caleidoscopio muta così per piccoli scarti originandosi da una medesima posizione di specchi, e nella rotazione che lo attiva e permette immagini sempre diverse distingueremo, e legheremo, i temi della notte e della battaglia; la fatalità del confronto; l’alternarsi della pratica della scrittura scientifica (ma à la Pound!) con il racconto; l’intervento sul mito e la militanza politica; Heine e il suggersi del poeta; gli ebrei di Damasco, vittime del funzionamentodella macchina mitologica antisemita e i miti del sangue e del suolo negli esegeti della mistica nazista; i vampiri, accumunati dalla stessa sorte esiliaca, connotata dal dolore e dalla propensione alla liberazione, e la Luxemburg, che «non a caso ‘diede del tu’ alla morte [ed era] un’ebrea di zona ‘hassidica’. E – scrive di seguito Jesi – non voglio dire affatto che la Luxemburg applicasse sempre consapevolmente lo hassidismo o addirittura il frankismo. Ma, certo, il suo non timore della morte si congiungeva con il suo sapere la non morte»57: siamo già sulle quinte di un romanzo possibile, ef- ficacemente capace di contenere le funzioni dell’autore e del lettore che lo interrogherà, nel quale «leggere e scrivere risultano allora stretti in un nodo stretto, che mette in moto e induce a continuare il gioco»58, seguendo la formula di Pulce. 3. Romanzo vampirico e saggio vampirico Fuori dalla pretesa di entrare in modo esaustivo nel romanzo L’ultima notte, anche per il fatto che «i riferimenti colti in questo romanzo sono talmente tanti, e tutti così fitti e polisemici, che risulta estremamente difficile controllarli, come è arduo controllare del resto 56 Ibidem, pp. VII-VIII. 57 Lettera a Schiavoni datata 24 gennaio 1972. In «Cultura tedesca», cit., p. 179. 58 G. Pulce, cit., p. 132. Carlo Tenuta 16 la eclettica erudizione che emerge dai suoi scritti scientifici»59, per dirla con Andreotti, la storia raccontata da Jesi ha per protagonista lo scontro tra gli uomini e i vampiri. Millenni fa il mondo apparteneva ai vampiri. Poi Nostro Signore decretò che dovevano regnare gli uomini e i vampiri si ritirarono nelle latebre del sottosuolo, vicino alla terra da cui traggono le forze e che è la porta del mondo senza luce. Si cibano di sangue umano, ma di quello dei morti perché dopo la sconfitta è loro interdetto quello dei vivi […] Ma l’ora degli umani pare volgere alla fine, Jesi ci presenta case fatiscenti che sembrano essere solo malferme coperture del mondo vampirico. Infatti i vampiri ritengono giunta l’ora della riscossa e si riuniscono a concilio, senza il loro capo supremo, il conte Dracula, che il cattivo stato di salute costringe a restare nel suo castello dei Carpazi. Tuttavia egli firma la petizione che il concilio vuol sottoporre a Nostro Signore affinché dia il suo consenso a una nuova era vampirica. Un’ambasciata giunge in Paradiso, il consenso è dato. L’esercito dei vampiri procede allora vittorioso [...] Nella città che resiste più a lungo (sapremo poi da qualche connotazione topografica che è Torino) si cerca di mobilitare per la dife- sa un Grande Poeta, che merita l’appellativo perché quando scrive versi sono presi dalla Divina Commedia. Costui non si scalda molto – i poeti sono oggettivi, quindi neutrali – ma evoca l’angelo Samaèl che consiglia di fare organizzare dal burattinaio Faraqàt una cerimonia propiziatoria, cioè una rappresentazione del teatro delle om- bre [...] Il poeta per conto suo defeziona, poiché le celesti autorità gli impongono di abdicare alla Gorgone, che egli ha visto in volto acquisendo l’immortalità, e lui preferisce far domanda – subito accolta – per diventare vampiro. Sembra che non lo resti a lungo, perché la morte viene a prenderlo, lui la respinge ma poi cammina solo finché non giunge al trono di Nostro Signore. Il quale sta mancando di parola ai vampiri in seguito alla morte improvvisa del conte Dracula, cui si sentiva legato personalmente. Per ciò aggiunge che si sentirà liberato dalla promessa se i vampiri non avranno conquistato tutta la terra entro l’alba. Faraqàt si muove per la città per preparare lo spettacolo propiziatorio, ma non riuscirà mai ad eseguirlo perché si smarrisce nella battaglia che continua […] per tutta la notte. Le luci si riaccendono ma poi si spengono definitivamente mentre sorge l’alba che annuncia la fine60 – questa la trama ricostruita da Cases. Il tema vampirico è al centro di un lavoro apparso originariamente nel 1973 in «Comunità»61, intitolato L’accusa del sangue e si propone come una riconsiderazione dell’intero dossier dell’omicidio rituale. Saggio diviso in due scritti distinti, è composto da un capitolo dedi- cato al processo per omicidio rituale di cui si sarebbero resi colpe- voli gli ebrei di Damasco e di una densa ricostruzione della figura del vampiro in ambito culturale e letterario tedesco. Se nel primo capitolo, dedicato al processo di Damasco del 1840, Jesi giunge a dimostrare come i documenti relativi all’accusa del sangue permettano di osservare lo specifico funzionamento della macchina mitologica, «nella seconda parte di codesto studio – scrive – ci proponiamo […] di esaminare il funzionamento della “macchina mitologica” in relazione con altri, paralleli o intrecciati, aspetti della mitologia del 59 A. Andreottii, Mito, arte, ermeneutica in Furio Jesi, in «Faraqàt», cit., 13. 60 C. Cases, Tempi bui per i vampiri, cit., p. 19. 61 «Comunità» (Milano), XXVII, n. 170, ottobre 1973, pp. 260-302. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 17 sangue – e precisamente in un’area di cultura (quella tedesca) ove in tempi recenti le accezioni antisemite della mitologia del sangue hanno avuto attuazione pratica di eccezionale portata»62. Il processo agli ebrei di Damasco si conclude così: I documenti relativi all’«accusa del sangue» permettono di osservare uno specifico funzionamento della “macchina miologica”: la reversione del mito è deliberata e si compie parallelamente alla conservazione a livello sacrale del mito stesso. I cristiani continuano a rievocare sacralmente il sacrificio eucaristico, ma al tempo stesso lo ribaltano in senso negativo e ne attribuiscono l’inversione ai “diversi” – agli ebrei. Di là dall’«accusa del sangue» è possibile scorgere la «macchina mitologica» che funziona in rapporto con due elementi: 1) l’esperienza del «diverso» (dell’uomo diverso), risolta nella configurazione di una differenza che è contrapposizione simme- trica, quale esiste fra il Bene e il Male: il «diverso» non è soltanto diverso, ma è il contrario; 2) lo sfogo dell’impulso di reversione nei confronti del mistero eucaristico e del sacrificio della Croce: non attuato, né attuabile, nella pratica religiosa, codesto impulso è attuato per vero e proprio transfert – è imposto ad altri, e punito sugli altri; dal punto di vista psicologico, l’«accusa del sangue» e i massacri punitivi che la seguirono sono presumibilmente il risultato del ribaltamento sugli ebrei dei fattori di decadimento della mitologia cristiana e dell’angoscia di colpa che essi provoca- vano precisamente nei cristiani. Ciò non significa, naturalmente […], che in tutte le coscienze cristiane e fin dal medioevo il mito del sangue di Cristo fosse in via di accentuato decadimento. Significa piuttosto che – essendo tale mito suscettibile di decadimento come ogni altro – una parte dei cristiani fu meno capace di opporre alle reazioni della propria psiche dinanzi a quel decadimento latente la saldezza di coscienza religiosa indispensabile per bloccarle in modo drastico e lasciò loro via libera nel momento in cui le trasferì sugli ebrei, provvedendo poi scrupolosamente a punirle (sugli ebrei)63. La seconda parte del saggio ha invece per protagonisti gli spettri, i non-morti, delle opere della tradizione letteraria europea inglese e tedesca, dalla Lenore di Bürger ai personaggi di Voß, sino al Dracula stokeriano. Ed è il vampiro di Stoker quello sul quale si concentra maggiormente l’attenzione di Jesi: Nato da un substrato esoterico e da un retroterra culturale non meno ricchi ed enigmatici di quelli dei vampiri germanici (e in certa misura loro affini), il personaggio di Stoker può servire a comprendere o almeno a circoscrivere alcune caratteristiche salienti dei suoi omologhi. Il conte Dracula di Stoker raccoglie in sé tutti gli elementi del vampirismo destinati a sopravvivere con particolare fortuna […] Suggere il sangue di un vivo, e in particolare di una donna viva,significa per lui reintegrare la sua esistenza al livello di una durata che, in mancanza di giustificazioni metafisiche o religiose [...] rappresenta una singolare coincidenza di materialismo e magia. Il sangue vivo, il sangue che scorre nelle vene, è simbolo di vita tanto per un materialista quanto per un cultore di magia. Materialismo e magia sono, del resto, ambedue reazioni contro la mistica: l’uno rifiuta come moralmente e gnoseologicamente erroneo l’abbandono all’entità irrazionale, extraumana, in base alla quale l’essere si pone come divenire mosso dal trascendente che coincide con 62 F. Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologia antisemita, Torino, Bollati Boringhieri, cit., p. 42. D’ora in avanti si citerà da questa edizione. 63 Ibidem, pp. 40-42. Carlo Tenuta 18 quella stessa entità o ne è ipostasi; l’altra, la magia, è pratica e teoria della violenza da operare entro e contro codesto «tutto scorre» mistico64 – appunta Jesi, che continua: Il conte Dracula di Stoker è, in termini di processo similare, sintomo di una rinascita della violenza magica sull’abbandono mistico. Quella violenza è tipica delle esperienze tra esoteriche e religiose che trovano l’occasione di sostituirsi entro certi limiti alle grandi religioni istituzionalizzate e al loro patrimonio mistico. È violenza che, nel suo contrapporsi alla mistica, si congiunge alla violenza del materialismo e della tecnica intesa come accezione legittima della scienza. Ed è violenza che con- trappone, a livello metafisico, l’immobilità al «tutto scorre». Il sangue che alimenta le forze del vampiro è garanzia di immobilità, di durata immobile, talvolta mascherate dalle sembianze dell’eterno ritorno. In questi termini, il simbolo del «tutto scorre» per eccellenza – il sangue – trova corrispondenza con gli emblemi della conoscenza «positiva» e del progresso tecnico scientifico, nell’Inghilterra vittoriana. Ché quel progresso è, di fatto, garanzia di immobilità esistenziale e sociale, e quella conoscen- za «positiva» fornisce le quinte dottrinali al palcoscenico in cui un dato modo di vivere, una data società, si presentano come eterni immobili. È ancora il rapporto tra illuminati e illuministi, là dove gli illuminati sono «old gentlemen» rosacrociani e gli illuministi sono tecnici-scienziati à la Spencer (tecnici, oltre che scienziati, nella misura in cui i loro «First Principles» fondano l’etica e la «inevitabile» dinamica so- ciale/immobilità borghese, su norme ne varientur usate come strumenti gnoseologici sui selvaggi, i primitivi, i diversi)65. Diversi sono, a questo punto, anche gli ebrei. E diversi sono gli artisti, che condividono la sorte degli esclusi «maledetti», dei vampiri dunque, che ai vampiri in fondo coincidono. L’esempio per Jesi è in primo luogo Hoffmann, alla base della cui opera «c’è un inquie- tante auto vampirismo che corrisponde alla scissione tra io-artista e io-uomo: la prima vittima dei vampiri di Hoffmann è Hoffmann stesso, nella misura in cui egli si pone come vampiro che sugge la vita – e il sangue – a se stesso. In questo senso, essere vampiri è essere maledetti-privilegiati, ed essere morti-viventi»66. La disamina di Jesi giunge ora a Heine: ciò che prevale in Heine è precisamente l’autovampirismo – di cui già parlavamo per Hoffmann –; auto vampirismo singolare: dai Traumbilder a Für die Mouche, la categoria «morto» (che è quella cui appartiene di necessità il vampiro) è dapprima la categoria della donna, dell’amata (e si può parlare di vampirismo e di necrofilia del poeta), per divenire poi la categoria dell’uomo, del poeta stesso [...] La chiave, o almeno una chiave, delle metamorfosi subite dall’autovampirismo di Heine si trova a nostro parere in uno dei testi heiniani che restano […] di più ardua interpretazione: il romanzo Der Rabbi von Bacherach67. 64 F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., pp. 51-52. 65 Ibidem. 66 F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., p. 54. 67 Ibidem, pp. 55-56. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 19 Il romanzo heiniano salda qui i due capitoli del saggio di Jesi, il quale adopera Heine per legare l’accusa di omicidio rituale al tema vampirico: «L’accusa di vampirismo rituale […] è una delle più antiche calunnie antisemite […] L’ebreo è il succhiatore di san- gue, il vampiro per eccellenza, secondo una tradizione antisemita che fa coincidere vampirismo rituale con “vampirismo economico”: l’usurai ebreo succhia sangue ai cristiani, così come i rabbini ucci- dono per Pesach un bambino cristiano al fine di suggere il sangue ritualmente»68 – afferma Jesi, che continua: In termini cronologici, Der Rabbi von Bacherach segna, paradossalmente, nella vicenda di Heine il momento prossimo al distacco dall’ebraismo […] La lacerazione di Heine tra ebreo e cristiano, tra vittima e privilegiato, si traduce a livello sociale nell’accusa di vampirismo che egli rivolta contro i cristiani [...]: è consapevole della differenza tra il vampirismo di cui sono accusati gli ebrei e il vampirismo che prati- cano i poeti […] «Vampiri» del resto, in termini economico-sociali, non sono soltan- to i cristiani rispetto agli ebrei, ma anche gli ebrei ricchi rispetto agli ebrei miserabili [...] Da un lato egli ha riconosciuto dei «vampiri» negli ebrei ricchi, dall’altro ha sempre nutrito ripugnanza verso gli ebrei poveri. La lacerazione del poeta non è quindi soltanto tra ebreo e cristiano: egli sa che i ricchi sono «vampiri», sa anche che tra gli ebrei vi sono dei «vampiri» (in questa accezione); da un alto egli accusa di «vampirismo» i ricchi, cristiani ed ebrei, dall’altro è costretto a congiungere la sua ripugnanza verso le vittime dei «vampiri» (gli ebrei poveri, i poveri) con il suo vampirismo di poeta. Rispetto alle vittime dei «vampiri» egli sta dall’altra parte; ma il suo vampirismo, che lo rende omologo e affine agli sfruttatori, è vampirismo di poeta e quindi implica la propria punizione: è auto vampirismo. La prima vittima del «vampiro» Heine è se stesso. Heine è «vampiro» in quanto poeta e anche in quanto estraneo, per ripugnanza, alle vittime dei «vampiri» economico-sociali; ma la vittima per eccellenza del suo vampirismo è egli stesso69. Il saggio L’accusa del sangue, ed il suo capitolo Metamorfosi del vampiro in Germania, si concludono su Heine, nel cui caso il vampirismo è specialmente ossessivo poiché collegato alle accuse di vampirismo rituale rivolte contro gli ebrei. Di più: è anche vero che tale ossessione si sarebbe difficilmente tradotta in tematica fonda- mentale dell’operazione poetica se non ve ne fossero stati i presupposti, la vera e propria forma in cavo, nella situazione e nella coscienza del poeta in quanto tale. Il punto chiave è dunque, di nuovo, la configurazione del poeta – innanzitutto: auto- configurazione – come manipolatore della materia vivente, della sostanza vitale per eccellenza […] Poiché il vampiro di Heine è solitamente anche necrofilia, e poiché esso è innanzitutto auto vampirismo, possiamo supporre che per Heine il vampiri- smo e la mitologia del sangue fossero la formula emblematica, il cristallo simbolico, in cui la dicotomia […] poteva conchiudersi in una paradossale unità. Il vampiro tradizionale è un morto-vivente, un cadavere vivente […] Se di auto vampirismo si tratta, il morto vivente ha innanzitutto per vittima un morto: vampirismo e necrofilia si identificano […] Il vampiro necrofilo, l’autovampiro che di necessità è necrofilo, il morto che vittima ha se stesso, si autopunisce nell’istante in cui non accede al 68 Ibidem, p. 56. 69 Ibidem, pp. 56-58. Carlo Tenuta 20 sangue vivo [...] e in tal modo, anche, si salva dall’accusa di vampirismo rituale rivolta all’ebreo. La sua necessità di alibi (egli non sugge il sangue dei viventi) è replica dell’accusa millenaria contro gli ebrei; la sua autopunizione (egli, morto, è vampiro di se stesso, morto) è replica al potere di manipolare l’elemento vitale, del quale potere egli dispone come poeta70. Autovampirismodell’artista; manipolazione dell’elemento vitale; sperimentazione di una strategia atta a dimostrare l’infondatezza storica dell’accusa del sangue e efficacemente capace di smontare la macchina al cuore della quale lavorava la mitologica equazione ebrei- vampiri: lo studio di Jesi riordina in questo modo le accezioni di un funzionamento mitologico, alludendo continuamente all’aspetto politi- co delle funzioni – e delle trasformazioni – della figura del vampiro, sino all’impiego tutto novecentesco della mistica del sangue: Ciò che accadde dopo, la mistica del sangue prenazista e nazista, è solo un volgare miscuglio di materiali mitologici, manipolati in vista di un obiettivo preciso […] La mitologia vampirica è scarsissima nella letteratura nazista, che pure privilegia l’esoterismo del sangue. Per gli scrittori nazisti, non solo non esistono censure e autopunizioni, ma non esiste neppure la figura del manipolatore del sangue: egli, il manipolatore del sangue, era concretamente, storicamente presente dinanzi a loro, e ogni coincidenza dell’ambito del mito con l’ambito della storia è una trivializzazione del mito, oppure una sublimazione del mito a ontologia trascendente. L’eroe mitico – in questo caso, l’eroe negativo: il vampiro – cede il passo a chi governa o crede di governare la centrale del mito, la macchina mitologica71. Calvino quanto a L’ultima notte scrive al mitologo torinese: «Ho letto L’ultima notte con tutto l’interesse che il tema mi ispirava. La situazione cosmica – processo di disgregazione della terra, regno dei Vampiri, che succede al regno degli uomini – e tutto quello che ad essa si riferisce come atmosfera lirica, m’hanno subito preso»72 e Cal- vino, sul resto, predilige le scene della battaglia notturna, «nella notte della città»73. Questo tema viene magistralmente affrontato da Jesi nel già citato Spartakus, e in modo particolare nel capitolo dedicato a quel Tamburi nella notte ove si mescolano eco espressionista (il personaggio centrale, Klagler è un reduce, ed «Il ritorno del reduce è motivo tipico del teatro espressionista; [e] la sua frequenza consiste nella volontà di denunciare gli orrori della guerra che proseguono nella disperata condizione di chi ne ritorna, in qualche modo me- nomato anche se magari con il corpo intatto»74) e suggestioni dello scontro sulla scena di una città notturna e demoniaca, connotata dai tratti dei simboli del potere, conoscibile soltanto attraverso la rivolta, circostanza che muta lo statuto da ordinario a non ordinario 70 Ibidem, pp. 60-61. 71 Ibidem, pp. 61-62. 72 Lettera datata 8 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 99. 73 Ibidem. 74 F. Jesi, Spartakus, cit., p. 61. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 21 («Usiamo la parola rivolta per designare un movimento insurrezio- nale diverso dalla rivoluzione. La differenza […] non va ricercata negli scopi […] Ciò che maggiormente [le] distingue […] è invece una diversa esperienza del tempo»75, scrive Jesi in Saprtakus, mentre nella Lettura del “Bateau ivre” di Rimbaud appunta: «Il fascino della rivolta consiste innanzitutto nella sua immediata inevitabilità: essa deve ineluttabilmente accadere. Il tempo è sospeso: ciò che è, è una volta per tutte […] La rivoluzione può esercitare fascino assai minore proprio perché è estremamente arduo ed incerto stabilire quale sia il suo giusto tempo»76) del tempo sperimentato e vissuto nella città, come Jesi aveva già avuto modo di indicare in Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900, dove si legge «La natura mitica, e cioè profondamente umana, dell’immagine della città determinò, inoltre, il suo affiorare anche nell’opera di artisti estranei al mondo borghese e in aperta polemica con esso. Le sue apparizioni […] proprio per- ché epifanie di un’immagine mitica, suscitarono commozione, amore e turbamento pure nell’animo degli artisti dell’espressionismo […] La città evocata da quegli artisti non è più il microcosmo borghese cinto da mura e popolato da un’aristocrazia ben difesa, oltre che da sbiadite immagini delle classi popolari. La loro città non è Lubecca, ma specialmente Berlino: la città dalle grandi periferie, popolata […] da un proletariato in miseria e in rivolta. Arnolt Bronnen racconta il suo arrivo a Berlino nell’inverno 1921-1922: “Che nomi avevano le strade! Lì erano i sogni di vacanza di un’intera generazione di bor- ghesucci […] I nomi però ingannavano come i sogni: di reale non c’era che il vento gelido[…]” Berlino era ormai soltanto più la città dei poveri e dei rivoltosi: “di reale non c’era che il vento gelido”, le parole di Bronnen riecheggiano la condanna finale delle città bor- ghesi pronunciata da Brecht: “di queste città resterà – il vento che le attraversa»77. Ancora sulla città notturna e spettrale della sollevazione spartachista, scrive Jesi: Durante i primi quindici giorni del gennaio del 1919 a Berlino cambiò l’espe- rienza del tempo. Per quattro anni la guerra aveva sospeso il ritmo consueto della vita […] Nei primi giorni di gennaio del 1919 quell’attesa maturata per quattro anni parve colmata dall’apparizione subitanea e brevissima di un tempo di qualità inconsueta, in cui tutto ciò che avveniva – con estrema rapidità – sembrava avve- nire per sempre. Non si trattava più di vivere e di agire nel quadro della tattica e della strategia […] Si trattava di agire una volta per tutte, e il frutto dell’azione era contenuto nell’azione stessa. Ogni scelta decisiva, ogni azione irrevocabile, significava essere in accordo col tempo; ogni indugio, essere fuori dal tempo […] Ogni rivolta è battaglia, ma una battaglia cui si è scelto deliberatamente di partecipare […] Ogni 75 Ibidem, p. 19. 76 F. Jesi, Lettura del «Bateau ivre», cit., p. 30. 77 F. Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ’900, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 94-95. Carlo Tenuta 22 rivolta è circoscritta da precisi confini nel tempo storico e nello spazio storico. Pri- ma di essa e dopo di essa si stendono la terra di nessuno e la durata della vita di ognuno nelle quali si compiono ininterrotte battaglie individuali […] Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come la propria città […] propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e n cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città78. In questi passaggi si riconosce la cifra della scrittura jesiana: son- daggio scientifico, autobiografismo, scarto necessario in direzione di un respiro narrativo dell’operazione critica, e storico-culturale. Calvino, sempre a proposito di L’ultima notte, risponde allo Jesi (il quale rivendicava «proprio [per] la consuetudine con le esperienze mitiche e simboliche vissute dal di dentro [che] mi ha portato, nella saggistica, a correttivi o barriere difensive di obiettività scientifica, e nella narrativa a un correttivo o a una difesa più pesante»79 ): «dietro il narratore si sente la competenza del saggista che parla di cose che sa»80: Calvino ha ben presente che L’ultima notte «Così com’è […] dà l’impressione di pagine di possibili libri diversi (diversi sia come modello di struttura letteraria sia come stile di scrittura) che gravita- no attorno a quel misterioso nucleo lirico-onirico che è la notte della battaglia»81 e Jesi, per parte sua, si affretta a rispondere che «La […] osservazione sui possibili libri diversi, le cui pagine sparse gravitano attorno alla battaglia notturna, corrisponde esattamente all’impressio- ne che io stesso ricavo da L’ultima notte […] Tengo [poi] in partico- lare ad alcune dissonanze, o stridori, nello stile:dovrebbero garantire la qualità paradossale della “esperienza vampirica”»82. Recensendo il romanzo, Cases ravvisava molti dei tratti di diffi- coltà nella comprensione piena dei rimandi jesiani («Che cosa signi- ficano i muggiti della Gorgone al telefono [...]? Vattelapesca. Data l’onniscienza di Jesi, può darsi benissimo che tutto si trovi in qualche libro cabalistico. Ma può darsi altrettanto bene che sia un parto della sua sbrigliata fantasia»83), una problematicità di confronto riflesso, evidentemente, del tasso di mestiere accordato da Jesi all’operazione narrativa, sebbene questo avvenga senza inficiare il risultato comples- sivo cui l’opera perviene. Con buona ragione Teti appunta: «Dobbia- mo a Furio Jesi, […] figura […] capace di muoversi in territori di confine poco esplorati, che vanno dal mito alla letteratura, dall’an- 78 F. Jesi, Spartakus, cit., pp. 20-25. 79 Lettera di Jesi a Calvino datata 12 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 101. 80 Lettera di Calvino a Jesi datata 2 aprile 1970. Ibidem, p. 103. 81 Ibidem, p. 104. 82 Lettera datata 7 aprile 1970. Ibidem, p. 105. 83 C. Cases, Tempi bui per i vampiri, cit., p. 19. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 23 tropologia alla germanistica e alla storia delle religioni, il merito di avere restituito al vampiro la centralità che occupa nella mitologia e nella cultura occidentale»84. I vampiri di Jesi, dice Tardiola, arrivano «da altre dimensioni, da antiche mitologie lunari e sanguigne, dal repertorio archetipico ed iconografico delle società precristiane, da antropologie magio- misteriche»85, giungono all’autore dunque come sopravvivenze nette, chiaramente distinguibili, del patrimonio che Jesi era andato sag- giando sin da giovanissimo. I vampiri di Jesi sono un’alternativa agli uomini, al loro potere sulla terra, nel mondo, dentro al secolo, e non sono relitti della morte, esseri mostruosi ad essa sopravvissuti, ma demiurghi di fertilità, paladini di una terra «da loro difesa [che] non era soltanto un feudo miserabile, ma la terra tutta, le mirabili zolle di putrefazione e di nascita su cui goccia il sangue»86 e dunque sono portatori di rinascita, «Portatori di nuova vita, che si sono da sempre contrapposti agli uomini, visti come oppressori e dominatori»87: «Si racconta di loro che erano uomini morti sopravvissuti alla morte, i quali si nutrivano di sangue umano per alimentare la loro durata pal- lida e notturna di fantasmi corporei. Ma non era vero. Forse avevano volto di uomo, ma non erano mai stati uomini. Di sangue umano s’erano sempre nutriti per vivere giacché vita e non morte si sarebbe dovuta chiamare la loro durata, e valutavano l’uomo alla stregua di un animale da macello»88, racconta Jesi. Dopo una storia lunghissima di segregazione e di esistenza al mar- gine, nella società attuale, desacralizzata dagli uomini che ne hanno conquistato il possesso «attraverso inenarrabili orrori»89, i vampiri non vogliono altro, finalmente, che sostituirsi agli uomini «[che] hanno ormai ben poco da vivere»90, i quali sono venuti meno ai suoi compiti di «signore della terra»91: Dopo secoli di silenzi, oppressione […] ritornano i vampiri per reclamare […] il possesso della terra, usurpato dagli uomini. Escono dagli scantinati, dalle case abbandonate, dalle rovine, dai sotterranei, dalle caverne sui monti, dagli spazi deserti e abbandonano il «loro doloroso esilio». Cominciano la loro riscossa guidati da Dra- cula […] demone cadaverico e notturno, ma è, col suo corpo, principio di vita e di rinascita, «flusso di ininterrotte generazioni». I vampiri […] decidono di rivolgersi al Signore per affermare il «principio vampirico della libertà e della tolleranza» contro lo sfruttamento e le vergogne degli uomini92 84 V. Teti, La melanconia del vampiro, Roma, Manifestolibri, pp. 183-184. 85 G. Tardiola, Il vampiro nella letteratura italiana, Anzio, De Rubeis, 1991, p. 54. 86 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 20. 87 V. Teti, cit., p. 185. 88 F. Jesi, L’ultima notte, cit., pp. 5-6. 89 Ibidem, p. 10. 90 Ibidem, p. 20. 91 Si veda Teti, cit., p. 185. 92 Ibidem, pp. 185-186. Carlo Tenuta 24 – segnala Teti. Questi vampiri si aggirano sullo scenario obsoleto del- le rovine, nello spazio sfigurato da una catastrofe finale, tra i ruderi, e si muovono tra oggetti desueti di orlandiana memoria93: «Un tem- po avevano dominato la terra. Ora, ridotti a mangiatori di carogne, popolavano timorosi e furtivi gli spazi deserti, le caverne sui monti, i sotterranei e le rovine [e] solo in una remota gola dei Carpazi uno di loro, il più grande di loro, viveva indisturbato e solitario entro un grande castello fortificato»94 (sul tema dei castelli vampirici si è recentemente soffermato Giovannoli, indagando sotto la lente vam- pirologica il Castello kafkiano95). Usciti dalle loro tane, i vampiri a gruppi conquistano le città del pianeta (anche se «Molte città duravano quasi intatte […] Gli strateghi vampiri usavano carte molto antiquate, su cui certi grandi e recenti agglomerati urbani erano segnati come modesti villaggi [ra- gion per cui] la maggior parte delle metropoli umane erano rimaste indisturbate, oppure avevano visto gli squadroni vampirici avventarsi soltanto su qualche loro esiguo ed antico quartiere […] A Parigi era stata subitaneamente occupata solo la chiesa di Saint-Jaques-la- Boucherie, a damasco solo la moschea degli Omayyadi. Ma i vampiri s’erano impossessati subito di tutta Nimega, di tuta Gnesen, di tutta Novgorod, di tuta Erivan»96, scrive Jesi: i vampiri dapprima espu- gnano le città antiche, quelle cioè in più intimo contatto con le più remote e arcaiche verità) e in esse ingaggiano lo scontro definitivo, così che uno spettatore poteva accorgersi che «le montagne lontane al limite della via serravano la battaglia imminente in un cerchi di nevi appena più vasto della città. Si sarebbero disselciate le vie, frantumati i ponti sul fiume, abbattuti alberi per sbarrare i crocicchi»97, nella «Notte alta; [con] le strade del centro, [che] a cagione dell’imminen- te battaglia, erano quasi deserte. Solo nelle piazze si intravvedevano uomini che costruivano barricate»98: avviene allora, nelle città dalle periferie buie, attraversate – brechtianamente – dal vento sulle «poz- zanghere nell’asfalto […] continuamente agitate», l’ultimo e decisivo scontro. «La battaglia era giunta al culmine: poteva durare mesi o anni, ma ormai non avrebbe più consentito riposo. Fra poche ore, già ora forse, si lottava nel centro della città: nulla arrestava i vam- piri, se non le pietre, le spranghe, i bastoni ricavati dalle staccionate divelte»99: adesso tutto è silenzioso, per le strade si muovono attenti, in piccoli gruppi, gli ultimi resistenti, «nell’ultima notte, qualcuno 93 Ibidem, p. 142. 94 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 6. 95 R. Giovannoli, Il vampiro innominato, Milano, Medusa, 2008. 96 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 30. 97 Ibidem, p. 32. 98 Ibidem, p. 45. 99 Ibidem, p. 57. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 25 che probabilmente non sapeva dei vampiri si esercitava al pianoforte. Molta neve bagnata, quasi intatta, copriva i marciapiedi più ci si al- lontanava dai corsi»100. Si consuma così uno scontro che Jesi sembra narrare, affatto dissimile, nel saggio sulla simbologia della rivolta – in Spartakus. Se per esempio nel romanzo scrive: «Il freddo sembrava aumentare di ora in ora […] Quando [Faraqàt] giunse nelle zone del lungofiume all’estremità dei giardini pubblici, si unì a una piccola folla – qualche centinaio di persone, molte delle quali indossavano ‘uniforme dei gruppi anti-vampiri – che avanzava vociando verso gli edifici dei giornali. I vampiri, gli dissero, avevano occupato i palazzi dei grandi quotidiani che già apparivano al fondo della strada […] D’improvviso […] udì vicinissimo il crepitio tonante delle armi da fuoco […] Qualcuno sparava. Il martellare delle mitragliatrici riempiva assordante le orecchie e l’aria s’era riempita di fumo», inSpartakus invece scrive: Al termine della dimostrazione a favore di Eichhorn, gruppi di operai avevano occupato le sedi e le tipografie del giornale socialdemocratico «Vorwärts» e di tutti i quotidiani importanti della capitale […] Testimonianze attendibili provano che l’iniziativa dell’occupazione dei giornali e delle tipografie fu favorita da agenti provocatori della Kommandantur di Berlino [...] A Berlino […] migliaia di com- battenti operai si sacrificavano nella difesa di posizioni strategiche che ormai […] non potevano essere tenute a lungo […] Nella notte fra l’8 e il 9 gennaio le truppe controrivoluzionarie presero sotto il tiro delle mitragliatrici la redazione della «Rote fahne» […] All’alba dell’11 gennaio […] cominciò il bombardamento con artiglieria pesante della sede del «Vorwärts» occupata101. Il grosso dello scontro si è consumato, manipoli di vampiri bivac- cano in mezzo a «qualche falò che bruciava ai margini della piazza presso i cumuli di pietre cavate dal selciato [falò che] rischiarava le nuvole stagnanti di gas lacrimogeni»102, mentre «Battiti d’ali e muggiti, grida stridule e acute [colmavano] l’aria [e] I vampiri si scagliavano innanzi, nel grande buio che non era più rotto neppure dai falò. Anche senza vederle, si avvertivano al respiro e negli occhi le nuvole basse di gas lacrimogeni»103 quando un dispaccio avverte il comando dell’improvvisa e inaspettata morte di Dracula: «il mondo vampirico era privo del suo capo»104, scrive solennemente Jesi. Due 100 Ibidem, p. 69. 101 F. Jesi, Spartakus, cit., pp. 32-33. Nei Tamburi brechtiani, il reazionario Babusch dice: «Dia retta a me: si udranno ruggiti di belve nel quartiere dei giornali, prima che venga mat- tina», ibidem, p. 66. Jesi scrive nel romanzo: «Alla testa della colonna molti dovevano essere stati colpiti […] Chi sparava? I vampiri fino ad allora non avevano usato armi […] Non si trattava di vampiri […] Uomini sparavano contro la folla. Lo si seppe ben presto. Alcuni ufficiali erano riusciti ad aprire un deposito […] e avevano collocato un plotone di soldati a difesa del quartiere dei giornali. Quattro posizioni di mitragliatrici […] sbarravano la sola via d’accesso», in F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 72 102 Ibidem, p. 76. 103 Ibidem, p. 77. 104 Ibidem, p. 81. Carlo Tenuta 26 messaggeri si presentano al comando per informare dunque che, a seguito della morte di Dracula, vengono meno le «garanzie impre- scindibili di serietà e di valore che Nostro Signore ritiene necessarie per concedere la terra ai vampiri»105. Un ultimatum – di San Pietro. Va ricordato l’appunto jesiano in una delle lettere a Calvino (appunto che suona anche come la registrazione di un limite dell’opera): «La parodia pesante, il superficiale “canaille!”, del racconto, sono stati il correttivo difensivo per il resto […] Ciò coincideva, d’altronde, con i fatali dubbi sulla moralità della forma-romanzo; ma indubbiamente ciò induceva a superare i limiti della citazione o del collage […] per giungere a situazioni ‘pesanti’ di dubbia ironia, che – sono il primo a riconoscerlo – contrastano con il resto»106 – prevede poi che la terra, per essere governata dai vampiri, deve essere conquistata per intero entro l’alba: «I vampiri si gettarono veloci verso i quartieri del centro. Là, la battaglia infuriava più violenta. Avanti! Senza tregua! Il sole avrebbe visto sventolare sull’ultima casa della periferia il vessillo vampirico»107. I vampiri pongono fine all’offensiva, la terra, le città sono loro. Il romanzo jesiano termina così: Aveva smesso di nevicare all’improvviso […] Sui marciapiedi marcivano nella neve brandelli di carta e di stoffa, schegge di legno e avanzi rugginosi di carri. Sui tetti delle case trascorrevano rapide ombre di uccelli in volo. Non c’erano nuvole in cielo, e il sole cominciava a salire su limpidi orizzonti, senza liberare le vie del gelo notturno. L’ora era giunta: l’ultima, la desiderata, la conclusiva battaglia. Era la fine. Volgendo le spalle al fiume, Faraqàt abbassò il capo e disse: «Ecco, un’ora è trascorsa»108. L’ultima notte si conclude in questo modo, con l’incantatore Fara- qàt che volta le spalle alla catastrofe, nella sua accezione etimologica, che volta le spalle ad un rovesciamento. In una lettera a Schiavoni, Jesi dice: Lei mi potrebbe dire […] che [...] l’imperativo non è tanto quello di combattere da soli quanto quello di essere sconfitti. Io credo però che la battaglia finché dura, per il fatto stesso di durare, costituisce una sorta di vittoria (il ‘tema della gloria’ nelle poesie) per gli uomini che l’hanno intrapresa senza il soccorso di alcuno. Far durare la battaglia, ottenere questo tipo di vittoria, è lo scopo doveroso del ‘parlare troppo presto’, del ‘farsi incantatori’. Il momento più cupo sarebbe quello in cui, terminata la battaglia, si dovesse dire «Un’ora è trascorsa»109. Ora, è semplice riconoscere i molti motivi comuni nella produzio- ne dello studioso torinese, e semplice riconoscere anche la sovrap- 105 Ibidem, p. 82. 106 Lettera datata 12 gennaio 1969. In «Cultura tedesca», cit., p. 101. 107 F. Jesi, L’ultima notte, cit., p. 82. 108 Ibidem, p. 95. 109 Lettera datata 4 maggio 1970. In «Cultura tedesca», cit., p. 175. Furio Jesi tra saggistica e narrativa 27 posizione di questi nelle differenti forme della scrittura, dal saggio alla prova narrativa e dunque, infine, semplice seguire Jesi quando suggerisce che «Alla domanda: Non le viene voglia di scrivere un romanzo? L’autore […] può solo rispondere: non smetto mai di scriverlo»110. L’operazione di natura paradossale di affrontare il ma- teriale letterario riconoscendo che questo è l’esito di un incessante lavorio creativo che, non senza una dose di ambiguità, nominiamo tradizione e verso il quale portiamo un debito ogniqualvolta si inten- da aggiungere un nostro tassello al suo complessivo mosaico (Jesi si immette con il suo romanzo L’ultima notte nel novero degli scrittori vampirici), oppure – diversamente, almeno in teoria – ogni volta che si pretende di saggiare criticamente quel repertorio/tradizione con il fine di ricostruirne l’intima storia o la necessità o il senso, sempre si dà – paradossalmente appunto – come un’operazione «scientifica e artistica»111, insieme. Anche soltanto attraverso una ricostruzione parziale del lavoro di Jesi, risulterà chiaro come in quest’opera, presa nella totalità, vengano continuamente a coincidere quelli che Berar- dinelli chiama gli spunti descrittivi e quelli teorici in modo tale da potere insieme discernere e confondere vita e ambiente, singolarità e storia, la forma e l’informe negli interessi camaleontici, “mimetizzati”, di un esempio novecentesco di saggista in quanto philosophe e di scrittore tout court, essendo ogni filosofo «un pensatore sperimenta- le», pur accettando il rischio – già indicato dal succitato Berardinelli – che, mescolati insieme, quegli spunti descrittivi con quelli teorici, si rimanga su d’una terra di nessuno, «in una zona intermedia che finisce per scontentare tutti»: ma questo è il rischio per eccellenza proprio della saggistica, da assumere «sperando di ottenere una dose speciale di comprensione»112. Nel 1970, all’altezza dei lavori vampirici dunque, Jesi scriveva a Schiavoni d’aver imparato «ora anche un’altra tecnica: quella dell’essay più o meno cifrato, che è ben accetta an- che alle persone serie non proprio papirologhe»113: verrebbe da dire allora che questa cifratura alla quale Jesi allude è quella dell’artista che si impone, mascherandosi e «mescolandosi», marranizzandosi, «di fiaccare l’immediatezza dell’ascolto delle voci più intime»114 sino, se non altro, all’apparire del tempo giusto, un tempo che permetta la pronuncia di quella voce intima: «sembra ridicolo, può anche esserlo, ma il tempo giusto può anche arrivare con la telefonata dell’amico che invita a collaborare a una rivista in cui non si entra senza stile e tono e note per bene: e allora si accettano
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