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Ratzinger-Sarah - Dal profondo del nostro cuore

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Benedetto XVI 
RoBeRt SaRah
DAL PROFONDO DEL NOSTRO CUORE
Benedetto XVI 
Robert Sarah
DAL PROFONDO 
DEL NOSTRO CUORE
A cura di
nIcolaS dIat
Traduzione di
daVIde RISeRBato
Titolo originale: Des profondeurs de nos cœurs
by Benoît XVI and Cardinal Robert Sarah
© Librairie Arthème Fayard, 2020
© 2020 Edizioni Cantagalli S.r.l. – Siena
Grafica di copertina: Rinaldo Maria Chiesa
Stampato da Edizioni Cantagalli nel gennaio 2020
ISBN: 978-88-6879-871-0
A tutti i sacerdoti
«Avere una fede chiara, secondo il 
Credo della Chiesa, viene spesso 
etichettato come fondamentalismo. 
Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi 
portare “qua e là da qualsiasi vento 
di dottrina”, appare come l’unico 
atteggiamento all’altezza dei tempi 
odierni. Si va costituendo una ditta-
tura del relativismo che non ricono-
sce nulla come definitivo e che lascia 
come ultima misura solo il proprio 
io e le sue voglie»
J. RatzIngeR, Omelia pronunciata 
nella Missa pro eligendo Romano Pon-
tefice, 18 aprile 2005
«Ogni attività deve essere precedu-
ta da un’intensa vita di preghiera, di 
contemplazione, di ricerca e di ascol-
to della volontà di Dio»
R. SaRah, La forza del silenzio. Contro 
la dittatura del rumore, Cantagalli, Sie-
na 2017, p. 35
9
Nota del curatore
«Dobbiamo meditare su queste 
riflessioni di un uomo che si 
avvicina al termine della propria 
vita. In questa ora cruciale, non 
si decide di intervenire con 
leggerezza»
caRdInale RoBeRt SaRah
Dal profondo del nostro cuore è il titolo molto sempli-
ce e commovente che il Papa emerito Benedetto XVI 
e il Cardinale Robert Sarah hanno scelto per il libro 
che pubblicano insieme.
Le parole di Benedetto XVI sono rare. Nel marzo 
2013, il Papa emerito ha deciso di ritirarsi in un mo-
nastero nei Giardini Vaticani. Ha voluto dedicare gli 
ultimi anni della propria vita alla preghiera, alla medi-
tazione e allo studio. Il silenzio diventava così lo scri-
gno prezioso di un’esistenza lontana dal frastuono e 
dalla violenza del mondo. Assai di rado, finora, Bene-
detto XVI ha accettato di intervenire per esprimere il 
proprio pensiero su argomenti importanti per la vita 
della Chiesa.
Il testo qui offerto è, dunque, qualcosa di eccezio-
nale. Non si tratta di un articolo o di appunti raccolti 
10
nel corso del tempo, ma di una riflessione magistra-
le, insieme lectio e disputatio. La volontà di Benedetto 
XVI è chiaramente espressa nella sua Introduzione: «Di 
fronte alla persistente crisi che il sacerdozio attraversa 
da molti anni, ho ritenuto necessario risalire alle radici 
profonde della questione».
I lettori più avvertiti non esiteranno a riconoscere 
lo stile, la logica e la straordinaria pedagogia dell’Au-
tore della trilogia dedicata a Gesù di Nazareth. Il det-
tato è ben strutturato, i riferimenti abbondanti e il 
procedere argomentativo finemente cesellato.
Per quale ragione il Papa emerito ha desiderato col-
laborare con il Cardinale Sarah? I due sono molto ami-
ci e intrattengono una regolare corrispondenza per 
condividere punti di vista, speranze e preoccupazioni.
Nell’ottobre 2019, il Sinodo per l’Amazzonia, un’as-
semblea di vescovi, religiosi e missionari, dedicato al 
futuro di questa immensa regione, ha rappresentato 
in seno alla Chiesa un’occasione di riflessione, nella 
quale è stato variamente messo a tema l’avvenire del 
sacerdozio cattolico. Da parte loro, Benedetto XVI e il 
Cardinale Sarah avevano iniziato a scambiarsi scritti, 
pensieri e proposte già sul finire dell’estate, per incon-
trarsi poi allo scopo di conferire la maggior chiarezza 
possibile alle pagine che ora seguiranno.
Personalmente, sono stato il testimone privilegia-
to, incantato, di questo loro dialogo. Li ringrazio in-
11
finitamente per l’onore di essere il curatore di questo 
volume.
Il testo di Benedetto XVI s’intitola molto sobria-
mente: Il sacerdozio cattolico. Il Papa emerito precisa 
da subito la sua impostazione: «Alle radici della grave 
situazione in cui versa oggi il sacerdozio, si trova un 
difetto metodologico nell’accoglienza della Scrittura 
come Parola di Dio». L’affermazione è severa, inquie-
tante, quasi incredibile.
Benedetto XVI non ha voluto affrontare da solo 
una questione così delicata. La collaborazione del 
Cardinale Sarah gli è parsa naturale e importante. Il 
Papa emerito conosce la profonda spiritualità del Car-
dinale, il suo spirito orante, la sua saggezza. Si fida 
di lui. Nella Prefazione a La forza del silenzio, durante 
la Settimana Santa 2017, Benedetto XVI scriveva: «Il 
Cardinale Sarah è un maestro dello spirito che parla 
a partire dal profondo rimanere in silenzio insieme al 
Signore, a partire dalla profonda unità con lui, e così 
ha veramente qualcosa da dire a ognuno di noi. Dob-
biamo essere grati a Papa Francesco di avere posto un 
tale maestro dello spirito alla testa della Congregazio-
ne che è responsabile della celebrazione della Liturgia 
nella Chiesa»1.
1 Benedetto XVI, Prefazione a R. SaRah, La forza del silenzio. 
Contro la dittatura del rumore, Cantagalli, Siena 2017, p. 11.
12
Da parte sua, il Cardinale Sarah ammira la produ-
zione teologica di Benedetto XVI, la potenza della sua 
riflessione, la sua umiltà e la sua carità.
L’intento degli Autori è perfettamente restituito in 
questa affermazione tratta dalla comune Introduzio-
ne al volume: «La vicinanza delle nostre preoccupa-
zioni e la convergenza delle nostre conclusioni han-
no fatto sì che prendessimo la decisione di mettere a 
disposizione di tutti i fedeli il frutto del nostro lavo-
ro e della nostra amicizia spirituale, sull’esempio di 
sant’Agostino».
Il quadro è semplice. Due vescovi hanno voluto 
riflettere. Due vescovi hanno voluto rendere pubbli-
co il frutto della loro eminente ricerca. Il testo di Be-
nedetto XVI è di grande finezza teologica. Quello del 
Cardinale Sarah possiede un’indubitabile forza cate-
chetica. Gli argomenti si incrociano, le affermazioni 
si completano, le intelligenze sono reciprocamente 
stimolate.
Al suo scritto il Cardinale Sarah ha assegnato come 
titolo: Amare fino alla fine. Sguardo ecclesiologico e pasto-
rale sul celibato sacerdotale. Ritroviamo in esso il corag-
gio, la radicalità e la mistica che rendono incandescen-
ti tutti i suoi libri.
Benedetto XVI e il Cardinale Sarah hanno voluto 
aprire e chiudere questo libro con due testi composti 
a quattro mani. Nella loro Conclusione scrivono: «È ur-
gente, necessario, che tutti, vescovi, sacerdoti e laici, 
non si facciano più impressionare dai cattivi consiglie-
13
ri, dalle teatrali messe in scena, dalle diaboliche men-
zogne, dagli errori alla moda che mirano a svalutare il 
celibato sacerdotale».
Evidentemente, il Papa emerito e il Cardinale Sa-
rah non hanno affatto voluto nascondere la propria 
inquietudine. Conoscono, però, fin troppo bene 
sant’Agostino, al quale fanno spesso riferimento, per 
non sapere che l’amore ha sempre l’ultima parola.
Il motto episcopale del Cardinale Joseph Ratzinger 
era: Ut cooperatores simus veritatis, «Noi dobbiamo per-
ciò accogliere in questo modo, per essere collaborato-
ri della verità» (3Gv 8). In questo saggio, all’età di no-
vantadue anni, ha voluto disporsi ancora una volta al 
servizio della verità. Il motto episcopale del Cardinale 
Robert Sarah, scelto quando era giovane arcivescovo 
di Conakry, capitale della Guinea, recita invece: Suffi-
cit tibi gratia mea, «Ti basta la mia grazia»; ed è tratto 
dalla Seconda Lettera ai Corinzi, nella quale l’Apostolo 
Paolo descrive i suoi dubbi, teme di non essere in gra-
do di trasmettere efficacemente l’insegnamento del 
Vangelo. Dio, però, gli risponde così: «Ti basta la mia 
grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente 
nella debolezza» (2Cor 12,9).
Vorrei concludere questo pensiero con due cita-
zioni che sento oggi risuonare con forza. La prima 
è tratta dall’omelia di Benedetto XVI per la Messa di 
Pentecoste del 31 maggio 2009: «Come esiste un in-
quinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e 
14
gliesseri viventi, così esiste un inquinamento del cuo-
re e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza 
spirituale». La seconda è tratta da Il portico del mistero 
della seconda virtù di Charles Péguy: «Quello che mi 
stupisce, dice Dio, è la speranza. Non me ne capaci-
to. Questa piccola speranza che ha l’aria di non essere 
nulla. Questa bambina speranza»2.
Ricercando nel profondo del loro cuore, Benedet-
to XVI e il Cardinale Robert Sarah hanno voluto al-
lontanare questo inquinamento e aprire le porte alla 
speranza.
Nicolas Diat
Roma, 6 dicembre 2019
2 ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in Id., I 
misteri, Jaca Book, Milano 20075, p. 165.
PERCHÉ AVETE PAURA?
Introduzione degli Autori
17
In una celebre lettera indirizzata al vescovo dona-
tista Massimino, sant’Agostino annuncia il proposito 
di pubblicare la loro corrispondenza. «Che potrò fare, 
fratello – chiede –, se non leggere al popolo cattolico 
le nostre lettere […], perché possa essere più istrui-
to?»3. Così, abbiamo deciso di seguire l’esempio del 
vescovo di Ippona.
Ci siamo incontrati in questi ultimi mesi, mentre il 
mondo rimbombava del frastuono provocato da uno 
strano sinodo dei media che aveva preso il sopravven-
to sul Sinodo reale. Ci siamo confidati le nostre idee 
e le nostre preoccupazioni. Abbiamo pregato e me-
ditato in silenzio. Ogni nostro incontro ci ha recipro-
camente confortati e pacificati. Sviluppate attraverso 
sentieri differenti, le nostre riflessioni ci hanno quindi 
portato a scambiarci alcune lettere. La prossimità del-
le nostre preoccupazioni e la convergenza delle nostre 
conclusioni hanno fatto sì che, sull’esempio di sant’A-
gostino, prendessimo la decisione di mettere a dispo-
sizione di tutti i fedeli il frutto del nostro lavoro e della 
nostra amicizia spirituale.
3 Sant’agoStIno, Epistola 23,6.
18
Anche noi, come lui, possiamo dire: «Silere non 
possum! Non posso tacere! […]. So quanto mi sareb-
be pernicioso il silenzio! Non penso, infatti, di passa-
re il tempo nelle cariche ecclesiastiche soddisfacendo 
la mia vanità, penso invece che, delle pecore che mi 
sono state affidate, renderò conto al principe di tutti 
i Pastori»4.
In quanto vescovi, portiamo in noi la sollecitudine 
verso tutte le Chiese. Con un grande desiderio di pace 
e unità, offriamo dunque a tutti i nostri fratelli vesco-
vi, sacerdoti e fedeli laici di tutto il mondo il frutto dei 
nostri colloqui.
Lo facciamo con uno spirito d’amore per l’unità 
della Chiesa. Se l’ideologia divide, la verità unisce i 
cuori. Interrogare la dottrina della salvezza non può 
che unire la Chiesa attorno al proprio divino Maestro.
Lo facciamo con uno spirito di carità. Ci è parso 
utile e necessario pubblicare questo lavoro in un mo-
mento in cui gli animi sembrano essersi placati. Cia-
scuno potrà completarlo o criticarlo. La ricerca della 
verità non può compiersi se non a cuore aperto.
Presentiamo, quindi, fraternamente queste rifles-
sioni al popolo di Dio e, naturalmente, in atteggia-
mento di filiale obbedienza, a Papa Francesco.
Abbiamo pensato in particolare ai sacerdoti. Il 
nostro cuore sacerdotale ha voluto confortarli, inco-
raggiarli. Insieme a tutti i sacerdoti, noi preghiamo: 
4 Ibidem, 23,7.
19
Signore, salvaci! Periamo! Il Signore dorme mentre 
infuria la tempesta. Sembra abbandonarci ai flutti del 
dubbio e dell’errore. Siamo tentati di arrenderci alla 
disperazione. I flutti del relativismo sommergono da 
ogni lato la barca della Chiesa. Gli Apostoli hanno 
avuto paura. La loro fede si è raffreddata. Anche la 
Chiesa talvolta sembra vacillare. Nel cuore della tem-
pesta, la fiducia degli Apostoli nella potenza di Gesù 
sembra venire meno. Viviamo anche noi questo mi-
stero. Sentiamo, tuttavia, di trovarci in una pace pro-
fonda, perché sappiamo che colui che governa la bar-
ca è Gesù. Siamo consapevoli che essa non potrà mai 
affondare, che essa soltanto potrà condurci al porto 
della salvezza eterna.
Sappiamo che Gesù è qui, con noi, nella barca. A 
lui vogliamo rinnovare la nostra fiducia e la nostra fe-
deltà assoluta, piena, indivisa. A lui vogliamo ripetere 
questo grande “sì” che abbiamo pronunciato il gior-
no della nostra ordinazione. È questo “sì” totale che il 
nostro celibato sacerdotale ci fa vivere ogni giorno. Il 
nostro celibato, infatti, è una proclamazione di fede. 
È una testimonianza, perché ci fa entrare in una vita 
che non ha senso se non a partire da Dio. Il nostro 
celibato è testimonianza, ossia martirio. Il vocabolo 
greco esprime entrambe le accezioni. Nella tempesta, 
noi sacerdoti, dobbiamo riaffermare di essere pronti 
a perdere la vita per Cristo. Questa testimonianza la 
offriamo giorno dopo giorno in virtù del celibato per 
il quale spendiamo la nostra vita.
20
Gesù nella barca dorme. E se vince l’esitazione, se 
abbiamo paura di riporre in lui la nostra fiducia, se il 
celibato ci fa arretrare, cerchiamo di ascoltare il suo 
ammonimento: «Perché avete paura, uomini di poca 
fede?» (Mt 8,26).
Benedetto XVI
Robert Cardinale Sarah
Città del Vaticano, settembre 2019
I 
 
Il sacerdozio cattolico
Benedetto XVI
23
Di fronte alla persistente crisi che il sacerdozio at-
traversa da molti anni, ho ritenuto necessario risalire 
alle radici profonde della questione. Avevo intrapreso 
un lavoro di riflessione teologica, ma l’età e una certa 
stanchezza mi avevano costretto ad abbandonarlo. I 
colloqui con il Cardinale Robert Sarah mi hanno dato 
la forza di riprenderlo e di portarlo a termine.
Alle radici della grave situazione in cui versa oggi 
il sacerdozio, si trova un difetto metodologico nell’ac-
coglienza della Scrittura come Parola di Dio.
L’abbandono dell’interpretazione cristologica 
dell’Antico Testamento ha portato molti esegeti con-
temporanei a una teologia senza il culto. Non hanno 
compreso che Gesù, al posto di abolire il culto e l’a-
dorazione dovuti a Dio, li ha assunti e portati a com-
pimento nell’atto d’amore del suo sacrificio. Alcuni 
sono giunti persino a rifiutare la necessità di un sacer-
dozio autenticamente cultuale nella Nuova Alleanza.
Nella prima parte del mio saggio, ho voluto mette-
re in luce la struttura esegetica fondamentale che con-
sente una corretta teologia del sacerdozio.
24
Nella seconda parte, applicando questa ermeneuti-
ca allo studio di tre testi, ho esplicitato le esigenze del 
culto in spirito e verità. L’atto cultuale passa ormai 
attraverso un’offerta della totalità della propria vita 
nell’amore. Il sacerdozio di Gesù Cristo ci fa entrare 
in una vita che consiste nel diventare uno con lui e 
nel rinunciare a tutto ciò che appartiene solo a noi. 
Per i sacerdoti questo è il fondamento della necessità 
del celibato, come anche della preghiera liturgica, del-
la meditazione della Parola di Dio e della rinuncia ai 
beni materiali.
Ringrazio il caro Cardinale Sarah per avermi dato 
l’opportunità di assaporare nuovamente i testi della 
Parola di Dio che hanno guidato i miei passi tutti i 
giorni della mia vita. 
1. Il formarsi del sacerdozio neotestamentario 
nell’esegesi cristologico-pneumatologica
Il movimento che si era formato intorno a Gesù di 
Nazaret – perlomeno nel periodo pre-pasquale – era 
un movimento di laici. In questo somigliava al movi-
mento dei farisei, motivo per cui i primi contrasti de-
scritti nei Vangeli fanno riferimento essenzialmente al 
movimento farisaico. Solo nell’ultima Pèsach [Pasqua] 
di Gesù a Gerusalemme l’aristocrazia sacerdotale del 
Tempio – i sadducei – si accorge di Gesù e del suo 
movimento, fatto questo che conduce al processo, 
alla condanna e all’esecuzione di Gesù. Il sacerdozio 
25
era ereditario: chi non proveniva da una famiglia di 
sacerdoti non poteva neppure diventare sacerdote. Di 
conseguenza, neppure i ministeri nella comunità che 
andava costituendosi intorno a Gesù potevano appar-
tenere all’ambito del sacerdozio veterotestamentario. 
Gettiamo un rapido sguardo sulle strutture mini-
steriali essenziali della primacomunità di Gesù.
Apostolo
Nel mondo greco la parola «apostolo» rappresenta 
un terminus technicus del linguaggio politico-istituzio-
nale5. Nel giudaismo precristiano la parola è utilizzata 
nel suo collegare funzione profana d’inviato, respon-
sabilità di fronte a Dio e significato religioso. Essa in-
dica in questo contesto anche l’inviato incaricato e 
autorizzato da Dio.
Episkopos
Nel greco profano indica funzioni alle quali sono 
associati compiti di tipo tecnico e finanziario, ma co-
munque ha anche un contenuto religioso, in quanto 
sono perlopiù degli dèi a essere chiamati episkopos, 
vale a dire «patrono». «La Septuaginta utilizza il ter-
5 Cfr. g. KIttel, F. geRhaRd (edd.), Theologisches Wörter-
buch zum Neuen Testament, W. Kohlhammer, Stuttgart 1957-
1979 (ristampa anastatica dell’edizione del 1933), I, p. 406.
26
mine episkopos nel medesimo duplice modo in cui è 
usato nella grecità pagana, come appellativo di Dio e 
nel più generico significato profano di “sorvegliante” 
in ambiti di vario tipo»6.
Presbyteros
Mentre tra i cristiani di origine pagana, per indicare 
i ministri, prevale il termine episkopos, la parola pre-
sbyteros è caratteristica dell’ambito giudeo-cristiano. 
La tradizione ebraica del «più anziano» inteso come 
una sorta di organo costituzionale, a Gerusalemme 
con tutta evidenza andò presto sviluppandosi in una 
prima forma ministeriale cristiana. A partire da qui, 
nella Chiesa composta da giudei e pagani, andò svi-
luppandosi quella triplice forma ministeriale di epi-
scopi, presbiteri e diaconi, che alla fine del I secolo si 
rinviene – già chiaramente sviluppata – in Ignazio di 
Antiochia. Essa sino a oggi esprime validamente, dal 
punto di vista linguistico e ontologico, la struttura mi-
nisteriale della Chiesa di Gesù Cristo.
Da quanto sinora detto dobbiamo trarre una prima 
conclusione. Il carattere laicale del primo movimento 
di Gesù e il carattere dei primi ministeri inteso non in 
senso cultuale-sacerdotale non si basa affatto neces-
sariamente su una scelta anti-cultuale e anti-giudaica, 
ma è invece conseguenza della particolare situazio-
6 Ibidem, II, p. 610.
27
ne del sacerdozio veterotestamentario, per la quale 
il sacerdozio è legato alla tribù di Aronne-Levi. Ne-
gli altri due «movimenti laicali» del tempo di Gesù, il 
rapporto con il sacerdozio è concepito diversamente: 
i farisei sembrano avere fondamentalmente vissuto in 
sintonia con la gerarchia del Tempio – a prescindere 
dalla disputa sulla risurrezione del corpo. Presso gli 
esseni, il movimento di Qumràn, la situazione è più 
complessa. In ogni caso, in una parte del movimen-
to di Qumràn era marcato il contrasto con il Tempio 
erodiano e il sacerdozio a esso corrispondente, ma 
non per negare il sacerdozio, quanto invece proprio 
per ricostituirlo nella sua forma pura e corretta. An-
che nel movimento di Gesù non si tratta affatto di 
«desacralizzazione», «de-legalizzazione» e rifiuto di 
sacerdozio e gerarchia. Di certo, però, viene ripresa la 
critica dei profeti al culto ed è messa in sorprendente 
unità con la tradizione del sacerdozio e del culto che 
dobbiamo tentare di comprendere. Nel mio libro In-
troduzione allo spirito della liturgia7 ho esposto la linea 
critica dei profeti riguardo al culto ripresa da Stefano e 
che san Paolo collega con la nuova tradizione cultuale 
dell’Ultima cena di Gesù. Gesù stesso aveva ripreso e 
approvato la critica dei profeti al culto, soprattutto in 
rapporto alla disputa sulla giusta interpretazione dello 
Shabbat (cfr. Mt 12,7).
7 J. RatzIngeR, Introduzione allo spirito della liturgia, San 
Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001.
28
Consideriamo innanzitutto il rapporto di Gesù col 
Tempio quale espressione della speciale presenza di 
Dio in mezzo al suo popolo eletto e quale luogo di 
culto regolato da Mosè. L’episodio di Gesù dodicenne 
nel Tempio mostra che la sua famiglia era osservante 
e che egli ovviamente ha partecipato alla devozione 
della sua famiglia. Le parole dette alla madre «Devo 
occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49) sono 
espressione della convinzione che il Tempio rappre-
senti in modo speciale il luogo nel quale Dio abita e 
dunque il giusto luogo di permanenza per il Figlio. 
Anche nel breve periodo della sua vita pubblica, Gesù 
partecipa ai pellegrinaggi di Israele al Tempio, e dopo 
la sua risurrezione notoriamente la sua comunità si 
raduna di regola nel Tempio per l’insegnamento e la 
preghiera.
E tuttavia, con la purificazione del Tempio, Gesù 
ha posto un accento fondamentalmente nuovo sul 
Tempio (Mc 11,15ss; Gv 2,13-22). L’interpretazione, 
secondo cui con quel gesto Gesù avrebbe solo com-
battuto gli abusi, dunque confermando il Tempio, è 
insufficiente. In Giovanni troviamo delle parole che 
interpretano quell’azione di Gesù come prefigurazio-
ne della distruzione della costruzione di pietra al cui 
posto comparirà il suo corpo quale nuovo Tempio. 
Questa interpretazione di Gesù, nei Sinottici, compa-
re sulla bocca di testimoni mendaci nel racconto del 
processo (Mc 14,58). La versione dei testimoni è di-
storta e dunque non utilizzabile ai fini dell’esito del 
29
processo. Ma resta il fatto che Gesù ha pronunciato 
parole di questo tipo, l’espressione letterale delle quali 
peraltro non poté essere determinata in modo suffi-
cientemente sicuro per il processo. La Chiesa nascen-
te ha perciò a ragione assunto come autenticamente 
gesuana la versione giovannea. Questo significa che 
Gesù considera la distruzione del Tempio come con-
seguenza dell’atteggiamento sbagliato della gerarchia 
sacerdotale dominante. Dio però qui – come in ogni 
punto di svolta della storia della salvezza – utilizza l’at-
teggiamento sbagliato degli uomini come un modus 
del suo amore più grande. A questo livello evidente-
mente Gesù considera in ultima analisi la distruzione 
del Tempio esistente come un passo del risanamento 
divino e la interpreta come definitiva nuova formazio-
ne e impostazione del culto. In questo senso la purifi-
cazione del Tempio è annuncio di una nuova forma di 
adorazione di Dio e perciò riguarda la natura del culto 
e del sacerdozio.
Per comprendere quello che con il culto Gesù ha 
voluto e quello che non ha voluto è naturalmente de-
cisiva l’Ultima cena, con l’offerta del corpo e del san-
gue di Gesù Cristo. Non è questa la sede per entrare 
nella disputa poi sviluppatasi sulla giusta interpreta-
zione di questo avvenimento e delle parole di Gesù. 
Importante è che Gesù, da un lato, riprende la tradi-
zione del Sinai e si presenta così come il nuovo Mosè; 
dall’altro, però, egli riprende la speranza della Nuova 
Alleanza formulata in modo particolare da Geremia, 
30
preannunciando così un superamento della tradizione 
del Sinai al centro del quale sta egli stesso quale sacri-
ficante e sacrificato a un tempo. È importante consi-
derare che quel Gesù che sta in mezzo ai discepoli è 
il medesimo che dona loro se stesso nella sua carne e 
nel suo sangue e così anticipa la Croce e la risurrezio-
ne. Senza la risurrezione il tutto non avrebbe senso. 
La crocifissione di Gesù in sé non è un atto di culto e 
i soldati romani che la eseguono non sono dei sacer-
doti. Essi compiono un’esecuzione, ma non pensano 
neanche lontanamente di porre un atto di culto. Il fat-
to che Gesù doni per sempre se stesso come cibo nella 
sala dell’Ultima cena significa l’anticipazione della sua 
morte e della sua risurrezione e la trasformazione di 
un atto di crudeltà umana in un atto di donazione e 
di amore. Così Gesù stesso compie il fondamentale 
rinnovamento del culto che rimarrà per sempre vali-
do e vincolante: egli trasforma il peccato degli uomini 
in un atto di perdono e di amore nel quale i futuri 
discepoli possono entrare con la loro partecipazione a 
ciò che Gesù ha istituito. In questo modo si compren-
de anche quel che Agostino ha chiamato il passaggio, 
nella Chiesa, dalla Cena al sacrificio mattutino. La 
Cena è dono di Dio a noi nell’amore che perdona di 
Gesù Cristo e permetteall’umanità di accogliere a sua 
volta il gesto dell’amore di Dio e di restituirlo a Dio.
In tutto questo nulla è detto direttamente sul sacer-
dozio. E tuttavia, comunque, è evidente che l’antico 
ordine di Aronne è superato e Gesù stesso si presenta 
31
come il Sommo Sacerdote. È importante, inoltre, che 
in questo modo si fondono la critica del culto da parte 
dei profeti e la tradizione cultuale che parte da Mosè: 
l’amore è il sacrificio. Nel mio libro su Gesù8 ho espo-
sto come questa nuova fondazione del culto e, con 
esso, del sacerdozio, in Paolo è già interamente com-
piuta. È un’unità basilare, fondata sulla mediazione 
costituita dalla morte e risurrezione di Gesù, che era 
chiaramente condivisa anche dagli avversari dell’an-
nuncio paolino.
La distruzione delle mura del Tempio causata 
dall’uomo è assunta positivamente da Dio: non esi-
stono più muri, Cristo risorto è invece divenuto per 
l’uomo lo spazio dell’adorazione di Dio. Così il crollo 
del Tempio erodiano significa anche questo: che nul-
la di divisivo si frappone più tra lo spazio linguistico 
ed esistenziale della legislazione mosaica, da un lato, 
e quello del movimento raccoltosi intorno a Gesù, 
dall’altro. I ministeri cristiani (episkopos, presbyteros, 
diakonos) e quelli regolati dalla legge mosaica (som-
mi sacerdoti, sacerdoti, leviti) ora stanno apertamente 
gli uni accanto agli altri e ora possono dunque, con 
una chiarezza nuova, essere anche identificati gli uni 
con gli altri. In effetti l’equiparazione terminologica 
si compie relativamente presto (episkopos = sommo 
8 Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret. Seconda Parte. 
Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice 
Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 49-52.
32
sacerdote, presbyteros = sacerdote, diakonos = levita). 
La rinveniamo in modo del tutto ovvio nelle catechesi 
sul battesimo di sant’Ambrogio, le quali però sicura-
mente si rifanno a modelli e documenti più antichi, di 
cui san Clemente Romano è uno dei primi testimoni, 
verso il 96, nella sua Prima Lettera ai Corinzi: «Dobbia-
mo fare con ordine tutto ciò che il Sovrano ci ha co-
mandato di adempiere nei tempi stabiliti. Egli ci ha 
comandato che le offerte e le liturgie siano effettuate 
non a caso e disordinatamente, ma nei tempi e nel-
le ore stabilite […]. Poiché al sommo sacerdote sono 
assegnate funzioni liturgiche proprie, e ai sacerdoti è 
attribuito un posto proprio; ai leviti spettano servizi 
propri e il laico è tenuto ai precetti che lo riguardano»9.
Assistiamo qui all’interpretazione cristologica 
dell’Antico Testamento, che può essere chiamata an-
che interpretazione pneumatologica e che rappresen-
ta il modo in cui l’Antico Testamento poté divenire e 
rimanere la Bibbia dei cristiani. Se, da un lato, questa 
interpretazione cristologico-pneumatologica poté an-
che essere detta «allegorica» da una prospettiva stori-
co-letteraria, dall’altro, risulta comunque evidente la 
profonda novità e la chiara motivazione della nuova 
interpretazione cristiana dell’Antico Testamento: qui 
l’allegoria non rappresenta un espediente letterario 
per rendere il testo utilizzabile per nuovi scopi, ma 
9 clemente dI Roma, Lettera ai Corinzi, 40,1-5, a cura di B. 
Artioli, ESD, Bologna 2010, p. 177.
33
è espressione di un passaggio storico che corrisponde 
alla logica interna del testo.
La Croce di Gesù Cristo è l’atto di amore radica-
le nel quale si compie realmente la riconciliazione fra 
Dio e il mondo segnato dal peccato. Questa è la ra-
gione per cui questo avvenimento, che di per sé non 
è in alcun modo di tipo cultuale, rappresenta invece 
la suprema adorazione di Dio. Nella Croce la linea 
«catabasica» della discesa di Dio e la linea «anabasica» 
dell’offerta dell’umanità a Dio divengono un unico 
atto che ha reso possibile il nuovo Tempio del suo 
corpo nella risurrezione. Nella celebrazione dell’Eu-
caristia la Chiesa, anzi l’umanità, è sempre di nuovo 
attirata e coinvolta in questo processo. Nella Croce di 
Cristo la critica del culto da parte dei profeti giunge 
definitivamente al suo scopo. Allo stesso tempo però 
è istituito il nuovo culto. L’amore di Cristo sempre 
presente nell’Eucaristia è il nuovo atto di adorazione. 
Di conseguenza i ministeri sacerdotali di Israele sono 
«annullati» nel servizio dell’amore, che al contempo 
significa sempre adorazione di Dio. Questa nuova 
unità di amore e culto, di critica del culto e di glorifi-
cazione di Dio nel servizio dell’amore, è certamente 
un compito inaudito affidato alla Chiesa che ogni ge-
nerazione deve nuovamente adempiere.
Il superamento pneumatico della «lettera» veterote-
stamentaria nel servizio alla Nuova Alleanza richiede 
così sempre di nuovo un superamento della «lettera» 
34
nello Spirito. Nel XVI secolo Lutero, sulla base di una 
lettura dell’Antico Testamento di tipo completamente 
diverso, non poté più compiere questo passaggio. Per 
questo egli interpretò il culto veterotestamentario e 
il sacerdozio a esso ordinato ormai solo come espres-
sione della «Legge», che per lui non era parte della via 
di grazia di Dio, ma a essa si contrapponeva. Così egli 
non poté che vedere un contrasto radicale fra gli uf-
fici ministeriali neotestamentari e il sacerdozio come 
tale. Con il Vaticano II tale questione è divenuta as-
solutamente ineludibile anche per la Chiesa cattolica. 
L’«allegoria» come passaggio pneumatico dall’Antico 
al Nuovo Testamento era divenuta incomprensibile. 
E mentre il Decreto sul sacerdozio quasi non tratta 
la questione, essa dopo il Concilio ci ha investito con 
un’urgenza inaudita e si è trasformata nella perduran-
te crisi del sacerdozio nella Chiesa.
Due annotazioni personali potranno contribuire 
a illustrare quanto detto. Mi è rimasto impresso nel-
la memoria come, nella sua conversione da luterano 
convinto a convinto cattolico, affrontò questa que-
stione con la sua consueta passione un mio amico, il 
grande indologo Paul Hacker. Considerava i «sacerdo-
ti» una realtà superata una volta per tutte nel Nuovo 
Testamento, e con appassionata indignazione si op-
poneva innanzitutto al fatto che nella parola tedesca 
«Priester», che proviene dal termine greco presbyter, di 
fatto comunque continuasse a risuonare il significato 
35
di sacerdos. Non so più come alla fine sia riuscito a ri-
solvere la questione.
Io stesso, in una conferenza sul sacerdozio della 
Chiesa tenuta subito dopo Concilio, ho creduto di do-
ver presentare il presbitero neotestamentario come 
colui che medita la Parola e non come «artigiano del 
culto». Ora, la meditazione della Parola di Dio, in ef-
fetti, è un compito grande e fondamentale del sacer-
dote di Dio nella Nuova Alleanza. Ma questa Parola è 
divenuta carne e meditarla significa sempre anche far-
si nutrire dalla carne che come pane del Cielo ci è do-
nata nella Santissima Eucaristia. La meditazione della 
Parola nella Chiesa della Nuova Alleanza è anche un 
sempre nuovo abbandonarsi alla carne di Gesù Cristo 
e questo abbandonarsi è al contempo un esporsi alla 
trasformazione di noi stessi per mezzo della Croce.
Su questo tornerò ancora in seguito. Fissiamo per il 
momento alcuni passaggi nel concreto sviluppo della 
storia della Chiesa. Un primo passo si vede nell’isti-
tuzione di un nuovo ministero. Gli Atti degli Apostoli 
ci riferiscono del sovraccarico di lavoro degli Apostoli 
che, accanto al compito dell’annuncio e della preghie-
ra della Chiesa, dovevano assumere al contempo la 
piena responsabilità della cura dei poveri. La conse-
guenza fu che la parte ellenista della Chiesa nascente 
si sentì trascurata. Così gli Apostoli decisero di con-
centrarsi completamente sulla preghiera e sul servi-
zio alla Parola. Per i compiti caritativi essi crearono 
36
il ministero dei Sette che più tardi si identificò con il 
diaconato. L’esempio di santo Stefano mostra come 
anche questo ministero, peraltro, non richiedeva sem-
plicemente un puro lavoro pragmatico-caritativo ma 
anche Spirito e fede, e dunque capacitàdi servizio alla 
Parola.
Un problema rimasto fino a oggi cruciale scaturì 
dal fatto che i nuovi ministeri non poggiavano sulla 
discendenza familiare, ma su elezione e vocazione. 
Mentre nel caso della gerarchia sacerdotale di Israele 
la continuità veniva assicurata da Dio stesso, perché in 
ultima analisi era lui a donare i figli ai genitori, i nuo-
vi ministeri non poggiavano al contrario sull’apparte-
nenza familiare ma su una vocazione donata da Dio 
e da riconoscere da parte dell’uomo. Per questo nella 
comunità neotestamentaria sin dall’inizio si pone il 
problema della vocazione: «Pregate dunque il padro-
ne della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 
9,37). C’è sempre, in ogni generazione, la speranza e 
la preoccupazione della Chiesa di trovare dei chiama-
ti. Sappiamo sin troppo bene quanto questo proprio 
oggi rappresenti la preoccupazione e il compito della 
Chiesa.
C’è un’ulteriore questione direttamente legata a 
questo problema. Ben presto – non sappiamo esatta-
mente quando, ma in ogni caso molto presto – andò 
sviluppandosi come essenziale per la Chiesa la cele-
brazione regolare o addirittura quotidiana dell’Eu-
37
carestia. Il pane «supersostanziale» è al contempo il 
pane «quotidiano» della Chiesa. Questo, però, ebbe 
una conseguenza importante che proprio oggi assilla 
la Chiesa10.
Nella coscienza comune di Israele era evidente che i 
sacerdoti avrebbero dovuto attenersi all’astinenza ses-
suale nei periodi in cui esercitavano il culto e dunque 
stavano in contatto con il mistero divino. Il rapporto 
fra astinenza sessuale e culto divino era assolutamen-
te chiaro nella coscienza comune di Israele. Come 
esempio, vorrei solo ricordare l’episodio nel quale 
David, in fuga da Saul, prega il sacerdote Achimele-
ch di dargli del pane: «Il sacerdote rispose a Davide: 
“Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri: 
se i tuoi giovani si sono almeno astenuti dalle donne, 
potete mangiarne”. Rispose Davide al sacerdote: “Ma 
certo! Dalle donne ci siamo astenuti da tre giorni”» 
(1Sam 21,5s). Visto che i sacerdoti veterotestamentari 
dovevano dedicarsi al culto solo in determinati perio-
10 Sul significato del termine epioúsios (supersubstantialis) 
cfr. e. noRdhoFen, Was für ein Brot? [Che tipo di pane?], «Inter-
nationale Katholische Zeitschrift Communio» 46 (2017) 1, pp. 
3-22; g. neuhauS, Möglichkeit und Grenzen einer Gottespräsenz im 
menschlichen «Fleisch». Anmerkungen zu Eckhard Nordhofens Relek-
türe der vierten Vaterunser-Bitte [Possibilità e limiti di una presen-
za divina nella «carne» dell’uomo. Considerazioni sulla rilettura di 
Eckard Nordhofen sulla quarta richiesta del Padre Nostro], ibidem, 
pp. 23-32.
38
di, matrimonio e sacerdozio risultavano senz’altro tra 
loro conciliabili.
A causa della celebrazione eucaristica regolare, o 
in molti casi giornaliera, per i sacerdoti della Chiesa di 
Gesù Cristo la situazione era radicalmente cambiata. 
Tutta la loro vita è in contatto con il mistero divino 
ed esige così un’esclusività per Dio la quale esclude 
un altro legame accanto a sé, come il matrimonio, che 
abbraccia l’intera vita. Sulla base della celebrazione 
giornaliera dell’Eucaristia, e sulla base del servizio per 
Dio che essa includeva, scaturì da sé l’impossibilità di 
un legame matrimoniale. Si potrebbe dire che l’asti-
nenza funzionale si era trasformata da sé in un’asti-
nenza ontologica. In questo modo la sua motivazione 
e il suo senso erano mutati dall’interno e in profon-
dità. Oggi invece si muove subito l’obiezione che si 
tratterebbe di un giudizio negativo della corporeità 
e della sessualità. L’accusa che alla base del celibato 
sacerdotale ci sarebbe un’immagine del mondo ma-
nichea veniva mossa già nel IV secolo, ma fu subito 
respinta con decisione dai Padri e allora per qualche 
tempo cessò. Una diagnosi di questo tipo è errata già 
solo per il fatto che, sin da principio, nella Chiesa il 
matrimonio era considerato un dono dato nel para-
diso da Dio. Ma esso assorbiva l’uomo nella sua inte-
rezza e il servizio per il Signore richiedeva parimenti 
l’uomo interamente, cosicché ambedue le vocazioni 
non sembrarono realizzabili insieme. Così la capacità 
di rinunciare al matrimonio per essere totalmente a 
39
disposizione del Signore è divenuto un criterio per il 
ministero sacerdotale.
Riguardo alla forma concreta di celibato nella 
Chiesa antica, va ancora rilevato che i sacerdoti spo-
sati potevano ricevere il sacramento dell’Ordine se 
si fossero impegnati all’astinenza sessuale, dunque a 
contrarre il cosiddetto «matrimonio di san Giuseppe». 
Questo nei primi secoli sembra essere stato assoluta-
mente normale. Evidentemente sussisteva un nume-
ro sufficiente di persone che trovavano ragionevole e 
vivibile un simile modo di vivere nel comune donarsi 
al Signore11.
Tre testi per chiarire la nozione cristiana di 
sacerdozio
A conclusione di queste riflessioni vorrei interpre-
tare tre passi scritturistici nei quali emerge con chia-
rezza il passaggio dalle pietre al corpo, e dunque la 
profonda unità fra i due Testamenti, che tuttavia non 
rappresenta semplicemente un’unità meccanica ma 
un progredire nel quale l’intenzione profonda delle 
11 Ampie informazioni sulla storia del celibato nei primi 
secoli si trovano in: S. heId, Zölibat in der frühen Kirche. Die 
Anfänge einer Enthaltsamkeitspflicht für Kleriker in Ost und West [Il 
celibato nella Chiesa primitiva. L’inizio dell’obbligo dell’astinenza per 
i membri del clero in Oriente e in Occidente], Ferdinand Schöningh, 
Paderborn 1997.
40
parole iniziali si compie proprio attraverso il passag-
gio dalla “lettera” allo Spirito.
Salmo 16,5-6: le parole per l’accettazione nello stato clericale 
prima del Concilio
Vorrei in primo luogo interpretare le parole del 
Salmo 16,5-6 che prima del Concilio Vaticano II erano 
utilizzate per l’accettazione nel clero. Erano recitate 
dal vescovo e poi ripetute dal candidato, che così ve-
niva accolto nel clero della Chiesa: «Dominus pars he-
reditatis meae et calicis mei tu es qui restitues hereditatem 
meam mihi». «Il Signore è mia parte di eredità e mio 
calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è 
caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda» 
(Sal 16,5-6). In effetti il Salmo esprime esattamente, 
per l’Antico Testamento, quello che ora vuol dire nel-
la Chiesa: accettazione nella comunità sacerdotale. 
Il passo si riferisce al fatto che tutte le tribù d’Israe-
le, ogni singola famiglia, rappresentava l’eredità del-
la promessa di Dio ad Abramo. Questo si esprimeva 
concretamente nel fatto che ogni famiglia otteneva in 
eredità una porzione della Terra promessa come sua 
proprietà. Il possesso di una porzione di Terra san-
ta dava a ogni singolo la certezza di essere partecipe 
della promessa e in pratica significava il suo concreto 
sostentamento. Ognuno doveva ottenere tanta terra 
quanta gliene occorreva per vivere. Quanto impor-
tante fosse per il singolo questa concreta eredità si 
evince chiaramente dalla storia di Nabot (1Re 21,1-29) 
41
che non è assolutamente disposto a cedere al re Acab 
la sua vigna, nonostante che quest’ultimo sia pronto 
a risarcirlo pienamente. La vigna, per Nabot, è più di 
un prezioso appezzamento di terra: è la sua parteci-
pazione alla promessa di Dio a Israele. Se, da un lato, 
ogni israelita disponeva in questo modo del terreno 
che gli assicurava il necessario per vivere, dall’altro, la 
particolarità della tribù di Levi risiede nel fatto che era 
l’unica tribù che non ereditava terreni. Il levita restava 
privo di terra e dunque privo di un’immediata base di 
sostentamento in termini di terra. Egli vive soltanto 
di Dio e per Dio. Concretamente questo significa che 
egli può vivere, in un modo regolato con precisione, 
delle offerte sacrificali che Israele riserva a Dio.
Questa figura veterotestamentaria si realizza nei 
sacerdoti della Chiesa in modo nuovo e più profon-
do: essi devono vivere soltanto di Dio e per lui. Che 
cosa questo concretamentesignifichi è chiaramente 
detto soprattutto in Paolo. Egli vive di quello che gli 
daranno gli uomini, perché egli dona loro la Parola di 
Dio che è il nostro autentico pane, la nostra vera vita. 
Di fatto, in questa trasformazione neotestamentaria 
dell’essere privi di terra dei leviti, traspare la rinuncia 
al matrimonio e alla famiglia che consegue dal radica-
le essere per Dio. La Chiesa ha interpretato la parola 
«clero» (comunione ereditaria) in questo senso. Entra-
re a far parte del clero significa rinunciare a un proprio 
centro di vita e accettare soltanto Dio come sostegno 
e garante della propria vita.
42
Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo 
della sua esistenza, la terra della sua vita, è Dio stes-
so. Il celibato, in vigore per i vescovi in tutta la Chiesa 
d’Oriente e d’Occidente e, secondo una tradizione che 
risale a un’epoca vicina a quella apostolica, per tutti i sa-
cerdoti nella Chiesa latina, in definitiva non può essere 
compreso e vissuto se non su questo fondamento.
Avevo a lungo riflettuto su questa idea in occasione 
degli Esercizi che avevo predicato a Giovanni Paolo II 
e alla Curia romana all’inizio della Quaresima 1983: 
«Per questo non occorre più fare grandi trasposizio-
ni nella nostra propria spiritualità. Parti fondamentali 
del sacerdozio sono così qualcosa come l’essere espo-
sto del levita, la mancanza di una terra, l’essere proiet-
tato-in-Dio. Il racconto della vocazione di Luca 5,1-11 
[…] si conclude non senza ragione con le parole: “Essi 
lasciarono tutto e lo seguirono” (v. 11). Senza un tale 
abbandono delle proprie cose non c’è Sacerdozio. La 
chiamata alla sequela non è possibile senza questo se-
gno di libertà e di rinuncia di qualsiasi compromesso. 
Credo che da questo punto di vista il celibato acquisti 
il suo grande significato come abbandono di un futuro 
paese terreno e di un proprio ambito di vita familiare, 
e che anzi diventi proprio indispensabile affinché pos-
sa rimanere fondamentale il venir consegnato a Dio 
e acquistare la sua concretezza. Questo significa ben 
s’intende che il celibato impone le sue esigenze riguar-
do a tutte le forme d’impostazione della vita. Non può 
raggiungere il suo pieno significato, se noi per il resto 
seguiamo le regole della proprietà e del gioco della 
43
vita oggi comunemente accettata. Non può soprattut-
to avere stabilità, se noi non facciamo del nostro am-
bientarci presso Dio il centro della nostra vita. 
Il Salmo 16, quanto il Salmo 119, è un vigoroso ac-
cenno alla necessità della continua dimestichezza 
meditativa con la parola di Dio, che solamente così 
può divenire per noi domicilio. L’aspetto comunita-
rio, ad esso necessariamente congiunto, della pietà 
liturgica emerge là dove il Salmo 16 parla del Signore 
come “mio calice” (v. 5). Secondo il linguaggio abitua-
le dell’Antico Testamento questo accenno si riferisce 
al calice festivo che veniva fatto passare di mano in 
mano nella cena cultuale, o al calice fatale, al calice 
dell’ira o della salvezza. L’orante sacerdotale del Nuo-
vo Testamento vi può trovare indicato in modo par-
ticolare quel calice, mediante il quale il Signore nel 
senso più profondo è diventato la nostra terra, il Cali-
ce Eucaristico, nel quale egli partecipa se stesso come 
nostra vita. La vita sacerdotale alla presenza di Dio è 
così concretizzata nella vita in virtù del mistero euca-
ristico. Nel senso più profondo l’Eucaristia è la terra, 
che è diventata nostra porzione e della quale possia-
mo dire: “Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi; 
sì, la mia eredità è magnifica!”»12.
È sempre vivo nella mia memoria il ricordo di quan-
do, meditando questo versetto del Salmo 16 alla vigilia 
12 J. RatzIngeR, Il cammino pasquale, Àncora, Milano 20064, 
pp. 157-158.
44
della mia tonsura, compresi cosa il Signore volesse da 
me in quel momento: voleva egli stesso disporre inte-
ramente della mia vita e in questo modo al contempo 
affidarsi interamente a me. Così potei considerare le 
parole del Salmo interamente come il mio destino: «Il 
Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue 
mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi 
deliziosi: la mia eredità è stupenda» (Sal 16, 5).
Deuteronomio 10,8 e 18,5-8. Le parole assunte nella II 
Preghiera eucaristica: il compito della tribù di Levi riletto 
cristologicamente e pneumatologicamente per i sacerdoti 
della Chiesa
In secondo luogo, vorrei analizzare un passo trat-
to dalla II Preghiera eucaristica della Liturgia romana 
successiva alla riforma del Vaticano II. Il testo del-
la II Preghiera eucaristica è generalmente attribuito a 
sant’Ippolito († 235 circa); in ogni caso è molto antico. 
In essa troviamo le seguenti parole: «Domine, panem 
vitae et calicem salutis offerimus, gratias agentes quia nos 
dignos habuisti astare coram te et tibi ministrare». Questa 
frase non significa, come alcuni liturgisti vollero far-
ci credere, lo stabilire che anche durante la Preghiera 
eucaristica i sacerdoti e i fedeli dovevano stare in pie-
di e non inginocchiarsi13. La giusta comprensione di 
13 Mentre la traduzione tedesca ufficiale della II Preghiera 
eucaristica dice correttamente «vor dir zu stehen und dir zu die-
nen» («a stare davanti a te e a te servire»), la traduzione italiana 
45
questa frase si evince dal considerare che essa è tratta 
letteralmente da Dt 10,8 (di nuovo in Dt 18,5-8), dove 
descrive il compito cultuale essenziale della tribù di 
Levi: «In quel tempo il Signore prescelse la tribù di 
Levi per portare l’arca dell’alleanza del Signore, per 
stare davanti al Signore al suo servizio e per benedi-
re nel nome di lui» (Dt 10,8). «Perché il Signore tuo 
Dio l’ha scelto fra tutte le tue tribù, affinché attenda 
al servizio del nome del Signore, lui e i suoi figli per 
sempre» (Dt 18,5). 
Queste parole, che nel Deuteronomio hanno il com-
pito di definire l’essenza del servizio sacerdotale, sono 
poi state assunte nella Preghiera eucaristica della 
Chiesa di Gesù Cristo, della Nuova Alleanza, espri-
mendo in tal modo la continuità e la novità del sacer-
dozio. Quel che allora veniva detto della tribù di Levi 
e che spettava esclusivamente a essa, ora è applicato 
ai presbiteri e ai vescovi della Chiesa. Non si tratta – 
come forse si sarebbe portati ad affermare sulla base 
di una concezione ispirata alla Riforma – di una rica-
duta dalla novità della comunità di Gesù Cristo, in un 
sacerdozio cultuale superato e da respingere; si tratta 
invece del nuovo passo della Nuova Alleanza, la quale 
assume e nel contempo trasforma l’Antico elevando-
lo all’altezza di Gesù Cristo. Il sacerdozio non è più 
una faccenda di appartenenza familiare, ma è aperto 
semplifica il testo, omettendo l’immagine dello stare davanti a 
Dio, e dice: «Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua pre-
senza a compiere il servizio sacerdotale».
46
alla vastità dell’umanità. Non è più amministrazione 
del sacrificio nel Tempio, ma inclusione dell’umanità 
nell’amore di Gesù Cristo che abbraccia tutto il mon-
do: culto e critica del culto, sacrificio liturgico e ser-
vizio dell’amore al prossimo sono divenuti una cosa 
sola. Perciò questa frase («astare coram te et tibi mini-
strare») non parla di un atteggiamento esteriore; essa, 
invece, quale punto più profondo di unità fra Antico 
e Nuovo Testamento, descrive la natura stessa del sa-
cerdozio, che a sua volta non si riferisce a una deter-
minata classe di persone, ma in ultima analisi rimanda 
al nostro stare tutti davanti a Dio.
Ho cercato di interpretare questo testo in un’o-
melia in San Pietro per il Giovedì Santo del 2008 che 
qui riprendo e riporto: «Allo stesso tempo, il Giove-
dì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre 
di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è 
questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II 
del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già 
alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del 
ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro 
del Deuteronomio(18,5-7), veniva descritta l’essenza del 
sacerdozio veterotestamentario: “astare coram te et tibi 
ministrare”. Sono quindi due i compiti che definiscono 
l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo 
“stare davanti al Signore”. Nel Libro del Deuteronomio 
ciò va letto nel contesto della disposizione preceden-
te, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna por-
zione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di 
47
Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori neces-
sari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro 
professione era “stare davanti al Signore” – guardare a 
Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indi-
cava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un 
ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri 
coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacer-
dote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, 
doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa 
parola ora si trova nel Canone della Messa immediata-
mente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata 
del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò in-
dica per noi lo stare davanti al Signore presente, indi-
ca cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. 
Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Li-
turgia delle Ore che durante la Quaresima introduce 
l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso 
i monaci era recitato durante l’ora della veglia nottur-
na davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti 
della Quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius 
perstemus in custodia” – stiamo di guardia in modo più 
intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i 
monaci erano qualificati come “coloro che stanno in 
piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilan-
za. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, 
possiamo con ragione vederlo anche come espressio-
ne della missione sacerdotale e come giusta interpreta-
zione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve 
essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte 
alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il 
48
mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: drit-
to di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. 
Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Si-
gnore deve essere sempre, nel più profondo, anche un 
farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua 
volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve 
essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, 
della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sa-
cerdote, impavido e disposto a incassare per il Signore 
anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: 
essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del 
nome di Gesù” (5,41). 
Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II 
riprende dal testo dell’Antico Testamento – “stare da-
vanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una 
persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A 
tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterote-
stamentario questa parola ha un significato essenzial-
mente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di 
culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il 
rito veniva poi classificato come servizio, come un in-
carico di servizio, e così si spiega in quale spirito quel-
le attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione 
della parola “servire” nel Canone, questo significato 
liturgico del termine viene in un certo modo adottato 
– conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò 
che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazio-
ne dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a 
Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha 
reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli 
49
uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote 
deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta mol-
te dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la 
retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in 
genere, compiuta con partecipazione interiore. Dob-
biamo imparare a comprendere sempre di più la sacra 
Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva 
familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della no-
stra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo 
giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del 
celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di ar-
tefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del 
vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centra-
le del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera 
deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre 
di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di 
Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cri-
stiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dob-
biamo essere persone che con la Parola di Dio hanno 
familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo 
spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il 
servizio sacerdotale significa proprio anche imparare 
a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo cono-
scere a tutti coloro che Egli ci affida. 
Fanno parte del servire, infine, ancora due altri 
aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il 
servo che ha accesso alla dimensione più privata della 
sua vita. In questo senso “servire” significa vicinan-
za, richiede familiarità. Questa familiarità comporta 
anche un pericolo: quello che il sacro da noi conti-
50
nuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si 
spegne così il timore riverenziale. Condizionati da 
tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto gran-
de, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, 
ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla 
realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore 
dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre 
di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è 
nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. 
Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto 
anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: “Non 
sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Con 
questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la 
battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellio-
ne del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, 
appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua vo-
lontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità 
è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, 
di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che 
solo così noi saremmo liberi; che solo grazie a una 
simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completa-
mente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così 
ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi 
dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri 
e possiamo essere liberi soltanto in comunione con 
loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera 
solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la mi-
sura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di 
Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte 
dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel 
51
sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e 
la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non 
inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fos-
se, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto 
solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbe-
dienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parla-
re con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in que-
sto sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: 
“Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare 
dove non vogliamo è una dimensione essenziale del 
nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In 
un tale essere guidati, che può essere contrario alle 
nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – 
la ricchezza dell’amore di Dio. 
“Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come 
il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a 
queste parole una profondità prima inimmaginabile. 
Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto 
diventare quel servo di Dio chela visione del Libro 
del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il 
servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo som-
mo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con 
il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi 
sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla 
malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di 
diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera 
ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere 
con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. 
È la discesa più profonda e, come amore spinto sino 
alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera 
52
“elevazione” dell’uomo. “Stare davanti a Lui e servir-
Lo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di 
servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa 
e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là 
di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore 
del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, 
il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro 
“sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” 
(Is 6,8). Amen»14.
Giovanni 17,17: la preghiera sacerdotale di Gesù, 
interpretazione dell’ordinazione sacerdotale
Infine vorrei riflettere ancora un istante su alcune 
parole tratte dalla preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 
17), che alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale 
si impressero particolarmente nel mio cuore. Mentre 
i Sinottici essenzialmente riportano la predicazione di 
Gesù in Galilea, Giovanni – che sembra aver avuto 
rapporti di parentela con l’aristocrazia del Tempio 
– riferisce soprattutto dell’annuncio di Gesù a Geru-
salemme e delle questioni riguardanti il Tempio e il 
culto. In questo contesto la preghiera sacerdotale di 
Gesù (Gv 17) acquista un rilievo particolare. 
14 Benedetto XVI, Il sacerdote: uomo in piedi, dritto, vigilante, 
Omelia durante la messa crismale nella Basilica Vaticana di San 
Pietro, mattina del Giovedì Santo, 20 marzo 2008. Cfr. anche 
Insegnamenti di Benedetto XVI, IV, 1 (gennaio-giugno 2008), 
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, pp. 442-446.
53
Non intendo qui ripetere i singoli elementi che ho 
analizzato nel secondo tomo del mio libro su Gesù15. 
Vorrei solo limitarmi ai versetti 17 e 18 che mi col-
pirono particolarmente alla vigilia della mia ordina-
zione sacerdotale. Recitano così: «Consacrali [santifi-
cali] nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai 
mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro 
nel mondo». Il termine «santo» esprime la particola-
re natura di Dio. Lui solo è il Santo. L’uomo diventa 
santo nella misura in cui inizia a stare con Dio. Stare 
con Dio significa scardinamento del puro io e il suo di-
venire una sola cosa con il tutto della volontà di Dio. 
Questa liberazione dall’io può tuttavia risultare molto 
dolorosa e non è mai compiuta una volta per tutte. 
Con il termine «santifica» può tuttavia essere intesa 
molto concretamente anche l’ordinazione sacerdo-
tale che significa appunto la rivendicazione radicale 
dell’uomo da parte del Dio vivo per il suo servizio. 
Quando il testo dice «Consacrali [santificali] nella veri-
tà», il Signore prega il Padre di includere i Dodici nella 
sua missione, di ordinarli sacerdoti.
«Consacrali [santificali] nella verità». Sembra qui 
sommessamente indicato anche il rito dell’ordinazio-
ne sacerdotale veterotestamentaria. L’ordinando ve-
niva fisicamente purificato con un lavacro completo 
per fargli successivamente indossare le vesti sacre. 
Ambedue le cose prese insieme significano che, in 
questo modo, l’inviato deve diventare un uomo nuo-
15 Cfr. J. RatzIngeR, Gesù di Nazaret, op. cit., pp. 91-118.
54
vo. Ma quel che nel rituale veterotestamentario è fi-
gura simbolica, nella preghiera di Gesù diventa realtà. 
Il solo lavacro che può realmente purificare gli uomi-
ni è la verità, è Cristo stesso. Ed egli è anche la veste 
nuova accennata nell’esteriore vestizione cultuale. 
«Consacrali [santificali] nella verità». Significa: immer-
gili completamente in Gesù Cristo affinché valga per 
loro quel che Paolo ha indicato come l’esperienza fon-
damentale del suo apostolato: «Non sono più io che 
vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Così, alla sera di quella vigilia, si è impresso profon-
damente nella mia anima che cosa significa davvero 
l’ordinazione sacerdotale al di là di ogni aspetto ce-
rimoniale: significa essere sempre di nuovo purificati 
e pervasi da Cristo così che è Lui a parlare e agire in 
noi, e sempre meno noi stessi. E mi è divenuto chiaro 
che questo processo del divenire una cosa sola con lui 
e il superamento di ciò che è solo nostro dura tutta la 
vita e racchiude anche sempre dolorose liberazioni e 
rinnovamenti. 
In questo senso le parole di Gv 17,17 sono state 
un’indicazione di cammino in tutta la mia vita.
Benedetto XVI
Città del Vaticano, Monastero “Mater Ecclesiae”,
17 settembre 2019
II 
 
AMARE FINO ALLA FINE. 
SGUARDO ECCLESIOLOGICO 
E PASTORALE SUL CELIBATO 
SACERDOTALE
Cardinale Robert Sarah
57
«Sapendo che era giunta la sua ora di passare da 
questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che 
erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Le 
parole dell’evangelista Giovanni introducono con so-
lennità il grande «discorso sacerdotale» di Gesù dopo 
la Cena del Giovedì Santo. Esse esprimono molto 
bene la disposizione d’animo necessaria per ogni ri-
flessione sul mistero del sacerdozio.
Come accostare questo argomento senza tremare? 
È importante che dedichiamo del tempo ad aprire l’a-
nima al soffio dello Spirito Santo. Il sacerdozio, per 
riprendere le parole del Santo Curato d’Ars, è l’amore 
del cuore di Gesù. Non dobbiamo trasformarlo in oc-
casione di polemica, di lotta ideologica o di strategia 
politica. Non possiamo nemmeno ridurlo a una que-
stione di pura disciplina o di organizzazione pastorale.
Questi ultimi mesi, in occasione del Sinodo sull’A-
mazzonia, abbiamo assistito a molta frettolosa eccita-
zione. Il mio cuore di vescovo s’inquieta. Ho ricevuto 
molti sacerdoti disorientati, turbati e feriti nell’intimo 
della loro vita spirituale a causa delle violente conte-
stazioni della dottrina della Chiesa. Oggi, voglio riba-
dire loro: Non abbiate paura!
58
«Il sacerdote – ricordava Benedetto XVI – è un 
dono del Cuore di Cristo: un dono per la Chiesa e per 
il mondo. Dal Cuore del Figlio di Dio, traboccante di 
carità, scaturiscono tutti i beni della Chiesa, e in modo 
particolare trae origine la vocazione di quegli uomini 
che, conquistati dal Signore Gesù, lasciano tutto per 
dedicarsi interamente al servizio del popolo cristiano, 
sull’esempio del Buon Pastore»16.
Cari fratelli sacerdoti, voglio parlarvi con il cuore in 
mano. Sembrate perduti, scoraggiati, sopraffatti dalla 
sofferenza. Una terribile sensazione di abbandono e 
solitudine stritola il vostro cuore. In un mondo insi-
diato dall’incredulità e dall’indifferenza è inevitabile 
che l’apostolo soffra: il sacerdote che brucia di fede e 
di amore apostolico si accorge subito che il mondo in 
cui vive è come rovesciato. Tuttavia, il mistero che 
abita in voi è ancora in grado di trasmettervi la for-
za per vivere in mezzo al mondo. E ogni volta che 
il servo dell’«unico necessario» si sforza di porre Dio 
al centro della propria vita, porta un po’ di luce nelle 
tenebre.
Nel sacerdozio è in gioco la continuazione sacra-
mentale dell’amore del Buon Pastore. Prendo, dun-
que, la parola perché, da ogni parte nella Chiesa, con 
spirito di autentica sinodalità, si apra e si rinnovi una 
riflessione serena e orante sulla realtà spirituale del sa-
cramento dell’Ordine. E supplico tutti e ciascuno: non 
16 Benedetto XVI, Angelus, 13 giugno 2010.
59
corriamo troppo! Non si possono cambiare le cose in 
pochi mesi. Se le nostre decisioni non si radicano in 
una continua e prolungata adorazione, non potranno 
avere altro futuro se non quello degli slogan e dei di-
scorsi politici che, uno dopo l’altro, cadono nell’oblio.
Il Papa emerito, BenedettoXVI, ci ha fatto dono di 
una straordinaria lectio divina, attraverso la quale egli 
risale alle sorgenti bibliche del mistero del sacerdozio. 
Per quanto mi riguarda, su questo sacramento vorrei 
molto umilmente gettare uno sguardo da pastore.
La nostra riflessione pastorale non deve asservirsi 
alla sola attualità, né ridursi a un’analisi sociologica. È 
urgente nutrirla mediante la contemplazione e strut-
turarla attraverso la teologia. Essa deve però risultare 
anche concreta. Ho notato, infatti, quanto spesso ci si 
accontenti di richiamare i princìpi teorici senza trarre 
da essi le conseguenze pratiche. Così, quando si acco-
sta la teologia del sacerdozio, non è sufficiente richia-
mare il valore del celibato. Occorre rilevarne altresì le 
conseguenze ecclesiologiche e pastorali concrete.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia, ho avuto occa-
sione di ascoltare esperti e discutere con missionari ve-
terani. Questi colloqui mi hanno confermato nell’idea 
che la possibilità di ordinare uomini sposati rappre-
senterebbe una catastrofe pastorale, una confusione 
ecclesiologica e un arretramento nella comprensione 
del sacerdozio. Attorno a questi tre punti si articola la 
riflessione che vado ora a presentarvi.
60
Una catastrofe pastorale
Il sacerdozio: un innesto ontologico nel «sì» di Cristo-
Sacerdote
Si potrebbe riassumere la meditazione del Papa 
emerito in questi termini: nella sua persona Gesù ci 
rivela la pienezza del sacerdozio. Egli conferisce pie-
no senso a quanto era stato annunciato e prefigurato 
nell’Antico Testamento. Il nucleo di questa rivelazio-
ne è semplice: il sacerdote non è soltanto colui che 
compie una funzione sacrificale. È invece colui che 
per amore offre se stesso in sacrificio sull’esempio di 
Cristo. Benedetto XVI ci ha così chiaramente e defi-
nitivamente mostrato che il sacerdozio è uno «stato 
di vita»: «Il sacerdote viene sottratto alle connessioni 
del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da 
Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti»17. 
Il celibato sacerdotale è l’espressione della volontà di 
mettersi a disposizione del Signore e degli uomini.
Papa Benedetto XVI dimostra che il celibato sacer-
dotale non è un auspicabile «supplemento spirituale» 
nella vita del prete. Una vita sacerdotale coerente ri-
chiede ontologicamente il celibato.
Nel testo che precede queste righe, Benedetto XVI 
mostra che il passaggio dal sacerdozio dell’Antico Te-
stamento a quello del Nuovo Testamento si traduce 
con il passaggio da un’«astinenza sessuale funzionale» 
17 Id., Omelia nella Santa Messa del Crisma, Giovedì Santo, 9 
aprile 2009.
61
a un’«astinenza ontologica». Credo che mai un Papa 
abbia espresso con una tale forza la necessità del ce-
libato sacerdotale. Dobbiamo meditare su queste ri-
flessioni di un uomo che si avvicina al termine della 
propria vita. In questa ora cruciale, non si decide di 
intervenire con leggerezza. Benedetto XVI ci insegna 
ancora che il sacerdozio, dal momento che implica 
l’offerta del sacrificio della Messa, rende impossibile 
un vincolo matrimoniale. Vorrei sottolineare quest’ul-
timo punto. Per il sacerdote la celebrazione dell’Euca-
ristia non consiste soltanto nel compiere dei riti. La 
celebrazione della Messa suppone di entrare con tutto 
il proprio essere nella grande offerta di Cristo al Padre, 
nel grande «sì» di Gesù al Padre suo: «Nelle tue mani 
consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Ora, il celibato «è 
un “sì” definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da 
Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo “io” […]; è 
proprio il “sì” definitivo»18.
Se riduciamo il celibato sacerdotale a una questio-
ne di disciplina, di adattamento ai costumi e alle cultu-
re, isoliamo il sacerdozio dal proprio fondamento. In 
questo senso, il celibato sacerdotale è necessario per 
la corretta comprensione del sacerdozio. «E di que-
sto poi fa parte anche quel mettersi a disposizione del 
Signore veramente nella completezza del proprio es-
sere e trovarsi quindi totalmente a disposizione degli 
uomini. Penso che il celibato sia un’espressione fon-
18 Id., Colloquio con i sacerdoti, Veglia in occasione dell’incon-
tro internazionale dei sacerdoti, 10 giugno 2010.
62
damentale di questa totalità»19, diceva Benedetto XVI 
al clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone.
Urgenza pastorale e missionaria del celibato 
sacerdotale
In quanto vescovo, temo che il progetto di ordi-
nare sacerdoti uomini sposati generi una catastrofe 
pastorale. Sarebbe una catastrofe per i fedeli presso i 
quali verrebbero inviati. Sarebbe una catastrofe per gli 
stessi sacerdoti.
Come può una comunità cristiana comprendere il 
sacerdote se non è chiaro che egli è qualche cosa «tolta 
dalla sfera del comune, data a Lui»20? Come possono i 
cristiani comprendere che il sacerdote si dona loro se 
non si consegna interamente al Padre? Se non entra 
nella kenosi, nell’annientamento, nell’abbassamento 
di Gesù, «il quale, pur essendo di natura divina, non 
considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con 
Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione 
di servo» (Fil 2,6-7). Egli si è spogliato di ciò che era 
con un atto di libertà e di amore. L’abbassamento di 
Cristo fino alla Croce non è un semplice atteggiamen-
to di obbedienza e di umiltà. È un atto di perdita di sé 
per amore, nel quale il Figlio si abbandona totalmente 
al Padre e all’umanità: questo è il fondamento del sa-
19 Id., Incontro con il clero della Diocesi di Bressanone, mercole-
dì 6 agosto 2008.
20 Ibidem.
63
cerdozio di Cristo. Come può, dunque, un sacerdote 
custodire, conservare e rivendicare un diritto al vin-
colo matrimoniale? Come può rifiutare di farsi servo 
insieme a Gesù-Sacerdote? Questa totale consegna di 
sé in Cristo è la condizione di un dono totale di sé a 
tutti gli uomini. Chi non si consegna totalmente a Dio 
non si dona perfettamente ai propri fratelli.
Che visione potranno avere del sacerdote popola-
zioni isolate e poco evangelizzate? Si vuole forse im-
pedire loro di scoprire la pienezza del sacerdozio cri-
stiano? All’inizio del 1976, da giovane sacerdote, sono 
stato in alcuni remoti villaggi della Guinea. Molti di 
essi non ricevevano la visita di un prete da circa dieci 
anni, perché i missionari europei erano stati espulsi nel 
1967 da Sékou Touré. I cristiani, tuttavia, continuava-
no a insegnare il catechismo ai bambini e a recitare le 
preghiere del mattino e il rosario. Manifestavano una 
grande devozione alla Vergine Maria, e si riunivano la 
domenica per ascoltare la Parola di Dio.
Ho avuto la grazia di incontrare questi uomini e 
queste donne che custodivano la fede senza alcun so-
stegno sacramentale per via dell’assenza di sacerdo-
ti. Si nutrivano della Parola di Dio e alimentavano la 
vitalità della fede con la preghiera quotidiana. Non 
potrò mai dimenticare la loro gioia indicibile quan-
do celebravo la Messa che per così tanto tempo non 
avevano potuto conoscere. Mi sia permesso affermare 
con certezza e vigore: credo che se in ogni villaggio 
fossero stati ordinati uomini sposati, si sarebbe spen-
ta la fame eucaristica dei fedeli. Si sarebbe privato il 
64
popolo di questa gioia di ricevere, nel sacerdote, un 
altro Cristo. Infatti, grazie al senso della fede, i poveri 
sanno che un prete che ha rinunciato al matrimonio fa 
loro dono di tutto il suo amore sponsale.
Quante volte, camminando diverse ore per i villag-
gi, con una valigetta per celebrazioni sulla testa, sot-
to il sole a picco, ho personalmente sperimentato la 
gioia di donarsi per la Chiesa-Sposa. Attraversando le 
paludi su una canoa di fortuna, in mezzo alle lagune 
o superando pericolosi torrenti dai quali temevamo 
di essere travolti, ho percepito anche nel mio corpo la 
gioia di essere interamente donato a Dio, disponibile, 
consegnato al suo popolo.
Come vorrei che tutti i miei confratelli spersi per il 
mondo possano un giorno fare l’esperienza dell’acco-
glienza di un prete in un villaggio africano che ricono-
sca in lui il Cristo-Sposo:che esplosione di gioia! Che 
festa! I canti, le danze, le effusioni, il cibo esprimono la 
gratitudine del popolo per questo dono di sé in Cristo.
L’ordinazione di uomini sposati priverebbe le gio-
vani Chiese, in corso di evangelizzazione, di questa 
esperienza della presenza e della visita di Cristo, con-
segnato e donato nella persona del sacerdote celibata-
rio. Il dramma pastorale sarebbe immenso. Esso com-
porterebbe un impoverimento dell’evangelizzazione.
Sono convinto che se molti preti e vescovi occi-
dentali sono pronti a relativizzare la grandezza e l’im-
portanza del celibato, è perché non hanno mai fatto 
l’esperienza concreta della riconoscenza di una comu-
nità cristiana. Non parlo semplicemente in termini 
65
umani. Credo che in questa riconoscenza risieda un’e-
sperienza di fede. I poveri e i semplici sanno discerne-
re con gli occhi della fede la presenza di Cristo-Sposo 
della Chiesa nel sacerdote celibatario. Tale esperienza 
spirituale è fondamentale nella vita di un prete. Essa 
guarisce per sempre da ogni forma di clericalismo. Lo 
so, perché l’ho sperimentato persino nella mia carne, 
che i cristiani vedono in me Cristo consegnato per 
loro, e non la mia limitata persona con le sue qualità e 
i suoi numerosi difetti.
Senza questa esperienza, il celibato diventa un far-
dello troppo gravoso da sopportare. Ho l’impressio-
ne che per alcuni vescovi occidentali, o anche del Sud 
America, il celibato sia diventato pesante. Vi restano 
fedeli, ma non hanno il coraggio di imporlo ai futuri 
preti e alle comunità cristiane, perché ne sono insof-
ferenti in prima persona. Li capisco. Chi potrebbe im-
porre un peso agli altri senza amarne il senso profon-
do? Non sarebbe forse questa una forma di farisaismo?
Sono certo, tuttavia, che ci sia qui un errore di pro-
spettiva. Se ben capito, il celibato sacerdotale, benché 
talvolta possa essere una prova, rappresenta una libe-
razione. Consente al sacerdote di innestarsi coerente-
mente nella propria identità di sposo della Chiesa.
Il progetto che consiste nel privare le comunità e 
i sacerdoti di una tale gioia non è un’opera di miseri-
cordia. Come figlio dell’Africa, non posso in coscienza 
sopportare l’idea che i popoli in corso di evangelizza-
zione siano privati di questo incontro con un sacer-
dozio pienamente vissuto. I popoli dell’Amazzonia 
66
hanno il diritto a una piena esperienza di Cristo-Spo-
so. Non è possibile proporre loro dei preti di «seconda 
classe».
Al contrario, più una Chiesa è giovane, più essa ha 
bisogno dell’incontro con la radicalità del Vangelo. 
Quando san Paolo esorta le giovani comunità cristia-
ne di Efeso, di Filippi e di Colossi, non li pone di fronte 
a un ideale inaccessibile, ma insegna loro tutte le esi-
genze del Vangelo: «Camminate dunque nel Signore 
Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fon-
dati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, 
abbondando nell’azione di grazie. Badate che nessuno 
vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispi-
rati alla tradizione umana, secondo gli elementi del 
mondo e non secondo Cristo» (Col 2,6-8). In questo 
insegnamento non si trova né rigidità né intolleranza. 
La Parola di Dio esige una conversione radicale. Non 
sopporta i compromessi e le ambiguità. Essa è «effi-
cace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 
4,12). Sull’esempio dell’Apostolo dobbiamo predicare 
con chiarezza e dolcezza, senza rigidità polemica, né 
molle timidezza.
Permettetemi di fare riferimento ancora una vol-
ta alla mia esperienza personale. Ho trascorso la mia 
infanzia in un mondo che stava appena uscendo dal 
paganesimo. I miei genitori hanno conosciuto il cri-
stianesimo soltanto da adulti. Mio padre è stato bat-
tezzato due anni prima che nascessi. Mia nonna lo è 
stata in punto di morte. Ho dunque conosciuto molto 
bene l’animismo e la religione tradizionale. Conosco 
67
la difficoltà dell’evangelizzazione, lo strappo doloro-
so e le eroiche rotture che i neofiti devono affrontare 
in rapporto ai costumi, allo stile di vita e alle tradi-
zioni pagane. Immagino ciò che sarebbe stata l’evan-
gelizzazione del mio villaggio se fosse stato ordinato 
sacerdote un uomo sposato. Mi si spezza il cuore al 
solo pensiero. Che tristezza! Di certo oggi non sarei 
un sacerdote, perché ciò che mi ha affascinato è stata 
la radicalità della vita dei missionari.
Come oseremmo privare i popoli della gioia di un 
tale incontro con Cristo? La considero una forma di 
disprezzo.
L’opposizione tra «pastorale della visita» e «pasto-
rale della presenza» è stata strumentalizzata ed esaspe-
rata. La visita in una comunità da parte di un prete 
missionario proveniente da un paese lontano esprime 
la sollecitudine da parte della Chiesa universale. È 
l’immagine del Verbo che visita l’umanità. L’ordina-
zione di un uomo sposato all’interno della comuni-
tà esprimerebbe invece il movimento opposto: come 
se ciascuna comunità fosse tenuta a trovarsi da sola i 
mezzi di salvezza.
Quando san Paolo, questo grande missionario, ci 
racconta delle sue visite presso le comunità dell’Asia 
Minore da lui stesso fondate, ci dà l’esempio di un 
apostolo che visita le comunità cristiane per donare 
loro conforto.
La misericordia di Dio si incarna nella visita di Cri-
sto. La riceviamo con gratitudine. Essa ci apre a tutta 
la famiglia ecclesiale. Temo che l’ordinazione di uo-
68
mini sposati responsabili di una comunità chiuda que-
sta comunità su se stessa e la escluda dall’universalità 
della Chiesa. Come sarà possibile chiedere a un uomo 
sposato di cambiare comunità portando con sé moglie 
e figli? Come potrà vivere la libertà del servo pronto a 
donarsi a ogni uomo?
Il sacerdozio è un dono che si accoglie, come è sta-
ta accolta l’Incarnazione del Verbo. Non è un diritto, 
né un obbligo. Una comunità che si radichi nell’idea 
di un «diritto all’Eucaristia» non sarebbe più discepola 
di Cristo. Come il nome stesso indica, l’Eucaristia è 
un’azione di grazia, un dono gratuito e misericordio-
so. La presenza eucaristica si riceve con gioia e stupo-
re come un dono immeritato. Il fedele che la reclama 
come qualcosa di dovuto mostra di non essere in gra-
do di comprenderla.
Sono persuaso che le comunità cristiane dell’Amaz-
zonia non entrino in prima persona in tale logica di 
rivendicazione eucaristica. Credo piuttosto che questi 
temi siano ossessioni la cui fonte è possibile rintrac-
ciare negli ambienti teologici universitari. Abbiamo a 
che fare con ideologie sviluppate da alcuni teologi che 
vorrebbero utilizzare la difficoltà di popolazioni pove-
re come un laboratorio sperimentale per i propri pro-
getti da apprendisti stregoni. Non posso risolvermi a 
lasciarli operare liberamente. Voglio assumere le dife-
se dei poveri, dei piccoli, di questi popoli «senza voce». 
Non priviamoli della pienezza del sacerdozio. Non 
priviamoli del vero senso dell’Eucaristia. Dobbiamo 
evitare «che si tratti la dottrina cattolica del sacerdozio 
69
e del celibato alla luce dei bisogni percepiti o presunti 
di certe situazioni pastorali estreme. Penso soprattut-
to che la Chiesa latina ignori la sua propria tradizione 
del celibato, che risale ai tempi apostolici e che è stata 
il segreto e il motore della sua forte espansione mis-
sionaria»21, così rimarcava recentemente il Cardinale 
Marc Ouellet. Si tratta di un punto decisivo. Il celibato 
sacerdotale è un potente motore di evangelizzazione. 
Rende credibile il missionario. Più radicalmente, lo 
rende libero, pronto ad andare dovunque e a rischiare 
ogni cosa perché non lo trattiene più alcun legame.
Alla luce della Tradizione della Chiesa
Alcuni penseranno che questa mia riflessione sia er-
rata. Altri mi diranno che il celibato sacerdotale è sol-
tanto una disciplina tardivamente imposta dalla Chie-
sa latina ai propri chierici. Ho letto simili affermazioni 
su molti giornali. La precisione storica mi obbliga a 
dichiarare che esse sono false. Gli storici seri sanno 
che, già dal IV secolo,

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