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1573.147 Favilli RIFORMISMO ALLA PROVA
IERI E OGGIrancoAngeli Storia
Paolo Favilli
RIFORMISMO
ALLA PROVA
IERI E OGGI
La «grande riforma» tributaria
nell’Italia liberale
Seconda edizione riveduta e aggiornata
FrancoAngeli Storia
ISBN 978-88-568-1211-4
9 7 8 8 8 5 6 8 1 2 1 1 4
Esaurita da tempo la prima edizione, Il labirinto della grande
riforma. Socialismo e questione tributaria nell’Italia liberale, ne
esce, a quasi vent’anni di distanza, una seconda con altro titolo
che rispecchia meglio il senso di un libro che è stato, in parte non
secondaria, “ricostruito”.
Il testo del 1990 è stato ripreso nell’ambito di una riflessione sui
tempi lunghi, sui tempi profondi, del riformismo e della storia d’Italia
in generale, riflessione legata ad un libro sul riformismo oggi,
uscito appena pochi mesi fa (Il riformismo e il suo rovescio) sempre
per i nostri tipi.
Nell’ambito di quel lavoro è risultata sempre più chiara l’impossibilità,
dal punto di vista conoscitivo, di rimanere interni alla dimensione
del presente, una dimensione dove, necessariamente,
l’attualità finisce per prendere il posto della storia.
Sul nostro presente italiano gravano pesanti eredità storiche. Il
nostro presente italiano deve misurarsi con le forme oggi assunte
da mentalità strutturali profonde e fortemente radicate.
Rileggendo un libro di ieri, un libro che studiava le dinamiche di
un equilibrio persistente, le ragioni di una lunga durata, sono
emersi modelli di reazione alla “grande riforma”, modelli di comportamento,
persino modelli espressivi che trovano riscontri nel
contesto politico e sociale che stiamo vivendo. Ne è scaturita, con
tutta evidenza, la necessità di comprendere bene il senso di tali
lunghe continuità.
Per questo si è pensato di riproporre la sostanza di quel volume,
rendendo esplicite, in un rapporto continuo tra ieri ed oggi, questioni
che allora apparivano solo implicite.
Paolo Favilli, studioso delle culture del socialismo italiano, in
particolare delle culture economiche, insegna Storia Contemporanea
e Teoria della ricerca storica all’Università di Genova. È direttore
del Dipartimento di Studi Umanistici. I suoi ultimi libri: Storia
del marxismo italiano (Dalle origini alla grande guerra), FrancoAngeli,
20002, Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica
in Italia (1945-1970), FrancoAngeli, 2006, Il riformismo e il suo
rovescio. Saggio di politica e storia, FrancoAngeli 2009.
Indice
Tra ieri ed oggi: per un’introduzione
Un libro di ieri, un libro di oggi
Il riformismo introvabile e il riformismo ritrovato
Riformismo e controriformismo: dall’ income alla flat tax
Il riformismo difficile
Prima parte
Sistema tributario e «aura riformatrice»
1. Una struttura di lungo periodo
 Imposta fondiaria e lunghe continuità
 L’imposta di ricchezza mobile e l’imponenza «strutturale» dell’evasione fiscale
 Finanza locale e dazi
 La Triade
 La «questione finanziaria» diventa problema centrale
2. L’aura riformatrice
L’aura riformatrice dei non socialisti
Finanza «democratica aperta ai socialisti
Il nodo dell’imposta progressiva
 Definizione della riforma e funzione dei socialisti 
Seconda Parte
I socialisti e gli itinerari della riforma
1. «Grande riforma» ed identità socialista negli anni '90 (1)
 Identità socialista e «catastrofismo»
 Il primo impatto con la «questione tributaria»
 È possibile una proposta socialista in tema di finanza pubblica?
 Lo spiraglio del dazio sul grano
2. «Grande riforma» ed identità socialista negli anni '90 (2)
 L'imposta progressiva «serve» per la transizione al socialismo?
 Il «carattere socialista» dell'imposta progressiva nella finanza locale
 Una riforma tributaria a partire dall' abolizione del dazio sul grano: obbiettivo 
 comune di socialisti e radicali?
3. Definizione della «grande riforma» e «falsa partenza»
 Una «svolta» di fine secolo nella finanza pubblica?
 La sostanziale continuità finanziaria della «transizione»
 Il «nodo» del progetto Wollemborg
 Nella finanza locale è più debole la resistenza?
4. «... né i riformisti seppero “fare” o promuovere e ottenere... »[footnoteRef:1] la «grande riforma» [1: 
] 
 Finanza giolittiana
 I programmi socialisti 
 I socialisti dietro gli «itinerari » della riforma
 Il progressivo deteriorarsi della capacità propositiva dei socialisti
Tra ieri ed oggi: per un’introduzione
 Un libro di ieri, un libro di oggi
Il libro di cui questo volume è ristrutturazione e, in parte, ricostruzione, è uscito, con il titolo Il labirinto della «Grande Riforma», agli inizi del 1990.
L’interesse fu forse maggiore tra coloro che si occupavano di finanza pubblica, in particolare di politiche finanziarie e di riforme finanziarie, che tra gli storici professionali, molti dei quali trovavano (e trovano) troppo arido un discorso argomentato nei meandri delle cifre dei bilanci. Fu presentato e discusso, infatti dal ministro della finanze in carica, Rino Formica, da un futuro ministro delle finanze, Vincenzo Visco, e da uno studioso di storia economica, Renato Zangheri, allora capogruppo parlamentare del PCI alla Camera dei Deputati.
Il clima causato dalla «fine del comunismo» condizionò profondamente quel «discorso sul riformismo» che da più di un decennio aveva impegnato con rigore e serietà studiosi e politici-intelletuali di differenti impostazioni politiche. Il «riformismo» diventava categoria indefinita e totalmente ideologica, clava politica, e tali usi non avevano nessun bisogno dello studio. Un libro che era invece del tutto interno ad una analisi minuta e fattuale dei percorsi realmente riformatori e/o non riformatori, era evidentemente, del tutto estraneo alla direzione in cui cominciava a soffiare lo spirito del tempo.
Ho ripreso in mano il testo del 1990 nell’ambito di una riflessione sui tempi lunghi, sui tempi profondi, del riformismo e della storia d’Italia in generale, riflessione legata ad un libro sul riformismo oggi uscito appena pochi mesi fa[Il riformismo e il suo rovescio]. 
Mentre attendevo a quel lavoro mi appariva sempre più chiara l’impossibilità, dal punto di vista conoscitivo, di rimanere interni alla dimensione del presente, una dimensione dove, necessariamente, l’attualità finisce per prendere il posto della storia.
È illusorio pensare di conoscere l’adesso solo perché lo stiamo vivendo e siamo in grado di osservarne lo svolgimento. In realtà l’adesso non è altro che una relazione tra il continuum di cui si trova ad essere punto d’arrivo e quegli aspetti particolari del passato che l’attualità rivela, rende espliciti. 
Sul nostro presente italiano gravano pesanti eredità storiche. Il nostro presente italiano deve confrontarsi con fantasmi che non si sono dissolti nella dissoluzione del Novecento, ma che anzi, nei modi di quella dissoluzione hanno trovato nuove forme di apparizione. Il nostro presente italiano deve misurarsi con le forme oggi assunte da mentalità strutturali profonde e fortemente radicate.
Nella lettura di un libro edito ormai quasi vent’anni fa, un libro che studiava le dinamiche di un equilibrio persistente, le ragioni di una lunga durata, sono emersi modelli di reazione alla «grande riforma», modelli di comportamento, persino modelli espressivi che trovano riscontri nel contesto politico e sociale che stiamo vivendo.
Bisogna certo stare attenti ad una lettura attualizzante di problemi storici, che può essere anche forzata. Nel contempo penso sia necessario cercare di comprendere bene il senso di evidenti quanto lunghe continuità.
Per questo ho pensato di riproporre la sostanza di quel volume, rendendo esplicite, in un rapporto continuo tra ieri ed oggi, questioni che allora apparivano solo implicite.
Sono intervenuto in maniera abbastanza evidente sulla prima parte del libro che ha assunto una nuova struttura.cit a p. 8. «Il partito socialista (…) ha avuto (…) il difetto di una continua mutabilità di aspirazioni. La questione igienica del sale a buon mercato; – la giustizia nei tributi – la abolizione del dazio consumo; ecc. ecc.(…) Non conseguirono mai nulla non solo per la resistenza dei conservatori, ma anche perché una proposte successe all’altra con rapidità tale che nessuna poté essere approfondita, resa popolare ed imposta» Buone intenzioni dei socialisti riformisti, in «L’Economista», 1907, pp. 513-514. La cit a p. 514.] 
Ciò era anche il frutto di condizioni oggettive, della frammentarietà, scarsa continuità, localismo della struttura organizzativa del socialismo italiano, come della debolezza numerica e scarsa «professionalità» del gruppo parlamentare. Proprio a partire da questi dati di fatto, un attento studioso dell’età giolittiana ha potuto dare la seguente spiegazione del fenomeno, peraltro ricorrente nel tempo, di un «riformismo senza riforme» perché
Il socialismo […] come del resto il proletariato italiano ed il movimento sindacale che esso esprimeva, erano posizione subalterna nella società italiana e subalterno era il ruolo politico che potevano svolgere[footnoteRef:51]. [51: A. Aquarone, L’Italia giolittiana, Bologna, il Mulino, 19882, p. 623.] 
Mettere a fuoco la realtà effettuale della debolezza del socialismo italiano nel suo complesso, il suo essere non solo decisamente minoritario, ma anche scarsamente radicato in vasti ed importanti settori della società italiana, e stabilire una relazione diretta tra quella realtà e i punti morti della proposta riformatrice socialista, è certamente atto di realismo analitico. 
Tuttavia un movimento politico-sociale di origini relativamente recenti, che si trova in condizioni di assai minor forza nei confronti dello schieramento dominante, non necessariamente è condannato a svolgere un’azione subalterna
In particolare quando, ed è stato il caso di momenti essenziali nella storia del socialismo, il movimento è riuscito a proporre se stesso come parte che ha futuro universale proprio in quanto capace di coltivare a fondo gli aspetti fecondi, i caratteri peculiari, della propria diversità.
Nei percorsi, indubbiamente difficili, che dovevano portare verso la «grande riforma», invece, aspetti importanti di subalternità ebbero il modo di emergere a poco a poco. Una volta emersa la subalternità, ebbe un aspetto tale da risultare estremamente sgradevole perfino agli occhi di chi era tutt’altro che estraneo ai processi della sua crescita.
Al di là del dato relativo ai rapporti di forza, anche di questo si deve dar conto nella valutazione complessiva del fallimento della «grande riforma».
L’autonomia culturale del riformismo socialista non è forse condizione sufficiente per un percorso di «riformismo con riforme». I rapporti di forza esistenti, in ultima analisi, risultano determinanti. Senza autonomia cultura, però, non si mutao i rapporti di forza e non si prepara nessun futuro. L’autonomia culturale, non sufficiente, è necessaria. Senza l’autonomia culturale non esiste nessun riformismo socialista.
Le cadute di autonomia culturale in alcuni periodi della storia del socialismo, sono forse legate al fatto che in altrettanti importanti momenti, in particolare in quello fondante, i socialisti hanno dato prova di subalternità teorica per quanto concerne le questioni economiche?
 Chi scorra le pagine di «Critica Sociale» degli anni '90 ed anche dei primi del nuovo secolo non potrà non notare la notevole ed influente presenza di interventi sulle questione economiche (economia teorica e problemi dello sviluppo economico italiano) provenienti da lidi politici e culturali non socialisti, oppure da questi palesemente influenzati. Uno studioso che ha dedicato alla storia d'Italia della fine del XIX secolo alcuni contributi diventati elementi obbligati di confronto, ha commentato la loro rilevanza in questi termini: 
... se le ragioni del capitalismo trovano posto sulla rivista teorica del socialismo italiano, questo avviene perché esse sono le più forti, perché la sola politica economica agguerrita anche teoricamente é quella della borghesia pur divisa nelle due tendenze, quella protezionista e quella liberista, che spesso nella pratica si contaminano : di fronte ad essa non sta, non esiste semplicemente , una capacità socialista di elaborarne un'altra[footnoteRef:52]. [52: G. Manacorda Formazione e sviluppo del partito socialista in Italia, in Rivoluzione borghese e socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1975, pp.165-192. La cit. pp.183-184. [1a ed. 1963].] 
Forse è necessario riflettere ulteriormente sulla portata di questa affermazione. 
Una letteratura relativamente ampia ha aggiunto più di un solido elemento alla costruzione complessiva di un quadro nel quale la «capacità socialista» di muoversi con competenza e coerenza all'interno della sfera economica sembra assumere dimensioni estremamente ridotte. Indipendentemente dal fatto che il qualche caso le tinte possono essere considerate troppo forti, nella sostanza il panorama analitico e propositivo dei socialisti, in sé considerato, rimane quello precedentemente delineato. 
Questa determinazione sufficientemente approssimativa di un insieme di dati di fatto pone però la necessità di affrontare i nodi storici, l'insieme problematico che ne deriva. 
Quello del paradosso di una cultura la cui fonte d'ispirazione primaria (proclamata) ha individuato nell'economia politica l'anatomia della società civile e che invece si trova in difficoltà proprio nell'uso degli strumenti dell'analisi economica. In questo caso però gli studi sul controverso problema concernente il rapporto tra la teorica marxiana ed i marxismi ci hanno dato valide chiavi interpretative per la comprensione di una fenomenologia della contraddizione.
Meccanismi esplicativi più complessi, invece, per un altro paradosso: quello di un socialismo incapace di esprimere una cultura economica degna di misurarsi alla pari con le «ragioni del capitalismo», di competere con gli specialisti borghesi della materia, e contemporaneamente termine di confronto primario proprio della migliore elaborazione di quegli stessi specialisti borghesi. Un socialismo capace di suscitare cultura economica nei propri avversari per la necessità di dare risposta ai problemi di fondo posti dalla sua presenza ed anche dalle sue proposte.
È forse necessario, allora, che la riflessione sulla «incapacità socialista» non utilizzi parametri interpretativi analoghi e per l'analisi delle proposizioni economiche dei socialisti e per quelle degli economisti mainstream.
 Non deve trattarsi certo della rivendicazione di logiche di giudizio privilegiate, quanto della consapevolezza, e di una consapevolezza capace di informare completamente di sé la ricerca, del carattere di alterità della proposta politica e della cultura socialiste rispetto alla meccanica complessiva dell'ordine ( o del disordine) capitalistico. Ovviamente nei processi di formazione, svolgimento, confronto di culture, le linee d'influenza, le zone d'osmosi sono sempre presenti e significative. Nei momenti fondanti di una identità però, la teorizzazione della diversità, e la ricerca e riproposizione di tale diversità in ogni manifestazione del movimento, assume un carattere preponderante da cui è impossibile prescindere.
 Ecco dunque che nel confronto con i problemi dell'economia in un contesto nel quale le logiche dominanti sono quelle di un esistente che si intende combattere, l'impossibilità da parte dei socialisti di collocarsi all'interno di tali logiche, le difficoltà della contrapposizione, comportano lo stabilirsi di un rapporto dialettico, qualche volta magari anche contraddittorio, ma non necessariamente di incomprensione.
Ed i problemi di una identità in continua costruzione/ricostruzione non si presentano solo nei momenti fondanti.
image1.pngHo lasciato pressoché inalterata la seconda parte, limitandomi ad alcune modifiche formali e ad alcuni alleggerimenti nell’apparato critico. La seconda parte è quella relativa agli itinerari socialisti nella definizione e nella proposizione della «grande riforma». Proprio l’analisi puntigliosa di quei meandri è riferimento obbligato per la riflessione che ha portato alle conclusioni de Il riformismo e il suo rovescio.
Il titolo di questo libro, Riformismo alla prova, è la citazione del titolo di un articolo di Filippo Turati su «Critica Sociale» nel momento in cui si apriva il lungo ministero Giolitti.
In fondo il riformismo socialista affronta oggi la prova più dura della sua lunga storia, quella dell’esistenza.
Il riformismo introvabile e il riformismo ritrovato
Alla metà degli anni Settanta del Novecento ebbe una qualche risonanza anche in Italia, dove apparve nel 1978, un libro di Daniel Lindenberg che s’intitolava Le marxisme introuvable[footnoteRef:2]. Le ragioni di questa impossibilità a trovare il marxismo nella storia politica ed intellettuale francese sono esattamente l’opposto di quelle che, in un clima di (contre-) révolution permanente[footnoteRef:3], rendono impossibile trovare il riformismo. [2: D. Lindenberg, Le marxisme introuvable, Paris, Calmann-Lévy. 1975.] [3: L’espressione è ancora di D. Lindenberg, Le Rappel à l'ordre: enquête sur les nouveaux réactionnaires, Paris, Éditions du Seuil, 2002.] 
Nel primo caso si trattava di andare alla ricerca del vero marxismo, della pietra preziosa nascosta tra accumuli di detriti più o meno derivati. Nel secondo caso la ricerca era facilissima: dietro ogni angolo ci s’imbatteva (ci s’imbatte) nel riformismo, ogni mutamento dell’esistente indipendentemente da direzione e significato è riformismo. Il riformismo è tutto, quindi il riformismo è nulla.
 Dal punto di vista dell’analisi storica la ricerca delle pietre preziose nascoste dai detriti ha scarso significato. Spesso sono proprio i detriti del taglio al diamante primigenio che sono in grado di darci indicazioni essenziali tanto su alcune caratteristiche della pietra che sui meccanismi dei percorsi realmente avvenuti. Dal punto di vista dell’analisi storica il riformismo (come il socialismo, come il comunismo) indeterminato si configura come esercizio sul nulla. Solo le determinazioni del riformismo (e del socialismo e del comunismo) hanno concretezza storica. Solo tali determinazioni sono necessarie per l’analisi politica. 
Sempre a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, in Italia, il riformismo conosce una stagione di fortuna storiografica, che, nella dimensione degli «studi seri», e non dei «fenomeni culturali contemporanei»[footnoteRef:4], come avrebbe detto Delio Cantimori, dura all’incirca una decina d’anni. Tale fortuna è propiziata, come spesso succede, da un prius politico. Tale fortuna declina quando la crescita iperbolica della sfera politica, la sua tendenza totalizzante, restringono prima e poi annullano margini ed utilità degli «studi seri». [4: D. Cantimori, rec. a Carlo Antoni, Ciò che è vivo e ciò che è morto nella dottrina di Marx, in Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli, Ricciardi, 1946, pp. 35-59, in « La Rinascita», 1946, pp. 174-175. La cit. p. 174.] 
 Il fatto che un’importante leader socialista avesse scelto per la sua componente politica, rapidamente maggioritaria nel partito, la denominazione di riformista, una denominazione che nessuna corrente del PSI aveva osato utilizzare con tanto orgoglio da qualche decina di anni, fu motivo di stimolo potente per una ripresa di studi sul riformismo storico.
Negli studi di quel decennio, frutto del lavoro soprattutto di studiosi socialisti o in qualche modo gravitanti nell’area socialista, l’aura della revanche nei confronti della conclamata egemonia comunista in ambito di storiografia sul movimento operaio si manifestava in maniera evidente. In qualche modo l’aura suddetta fungeva da pendant alla sfida politica portata alla potente corazzata del PCI da parte dell’agile nave corsara comandata dallo spregiudicato leader riformista.
Si trattava però solo di un’aura perché gli studiosi erano i Gaetano Arfé, i Furio Diaz, i Massimo Salvadori, i Leo Valiani, e molti altri. Studiosi, quasi tutti, di eccellente livello e di grande onestà intellettuale che condividevano il terreno di scontro, ma anche d’incontro, con i George Haupt, i Gastone Manacorda, i Giuliano Procacci, i Renato Zangheri e con molti dei più giovani storici di area comunista. Il riformismo storico insomma, oggetto di una dialettica di studi incrociati, trovava progressivamente sostanza conoscitiva del tutto indipendente dai primi input politici. Per certi aspetti l’iniziale pendant si spostava sempre più verso quegli spazi che vedevano impegnati economisti, intellettuali-politici diversi nella comune ricerca di una politica economica insieme riformista e socialista[footnoteRef:5], le cui logiche si dimostravano del tutto autonome rispetto alle esigenze dello spregiudicato imprenditore politico autodefinitosi riformista. Quando, alla fine del decennio, apparve chiaro che il riformismo dell’imprenditore politico e quello degli «studi seri» non avevano niente in comune, le loro strade si divaricarono completamente e definitivamente. [5: Vedi a questo proposito P. Favilli, Il riformismo e il suo rovescio. Saggio di politica e storia, Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 117-137.] 
Tale divaricazione ebbe l’effetto di atrofizzare un settore di studi tanto promettente e che aveva raggiunto significativi risultati. Un riformismo politico ormai libero di muoversi da un punto all’altro degli ampi orizzonti, degli spazi sconfinati, che la «la caduta del comunismo» aveva aperto, libero di muoversi in ogni direzione, non poteva che vivere come fastidioso fardello un patrimonio di studio e di analisi che irrimediabilmente finivano per ancorarlo alla dimensione socialista del riformismo. Il vento del riformismo tutto, il vento del riformismo nulla, cominciò a soffiare così forte e così per lungo tempo che la maggior parte dei cento fiori fu strappata e si perse. Molte piante che quei fiori avevano nutrito seccarono. Non che necessariamente si debba parlare di tradimento dei chierici, anche se numerosi ed eclatanti esempi potrebbero indicarci quella direzione. Il tradimento dei chierici, però, altro non è che un indicatore di tendenze generali più profonde ed è su queste che dobbiamo concentrarci.
Una ripresa di studi oggi quando molti dei presupposti che avevano liberato il riformismo sembrano entrati in crisi, un discorso storicamente fondato sul riformismo, può basarsi sull’ heri dicebamus, può riprendere dal punto in cui era stato lasciato alla fine del decennio glorioso? Non è evidentemente possibile, anche se per gli «studi seri» e per la politica non politicante è, con altrettanta evidenza, impossibile prescinderne.
Il Novecento è stato un lungo periodo carico di futuro che si è risolto nella negazione di quel futuro. Si tratta di una vera e profonda cesura storica. Eventi di tal genere travolgono tutto. 
Sottovalutare, anche minimamente, un evento di enorme portata per il ripensamento complessivo di tutto il Novecento, sottovalutare il valore periodizzante della «caduta del comunismo» sarebbe esiziale sia per la riflessione storica che per la riflessione politica.
Penso che dovremmo prendere molto sul serio il significato del termine «erede».
Che cosa vuol dire essere eredi della storia del movimento operaio e socialista? Che cosa significa essere eredi di lunghe stagioni di «studi seri»?
Si tratta di due problemi che possono essere considerati collegati in una determinata prospettiva, ma che in un’altra possono essere anche considerati in maniera del tutto disgiunta. Non è assolutamente necessario che una cultura, una tradizione politica che sono state protagoniste per lungo tempo della storia del movimento socialista ed operaio, se ne dichiarino eredi. Dalla cesura storica a cui ho fatto prima riferimento si può, del tutto legittimamente,uscire convinti della necessità di ripartire verso il nuovo sulla base di una tabula rasa della propria storia. Onestà intellettuale vuole, però, che lo si dichiari apertamente: solo in questa maniera diventano credibili i lineamenti strategici di una politica. Fare ricorso alle risorse eterne dell’ethos e dei valori è mero espediente retorico. ethos e valori diventano concreti solo se coniugati con specifici strumenti analitici. Quando si rifiutano gli strumenti analitici fondamentali della propria storia, ethos e valori si dissolvono nella più totale indeterminatezza.
Chi scrive queste righe è, invece, convinto che l’impervia ricerca del rapporto tra la propria storia, la storia che è stata di milioni di uomini, e l’eredità che quella storia ha lasciato, la ricerca in tale impervio e difficile terreno, debba essere continuata. Chi scrive queste righe è convinto dell’inutilità di cercare il nuovo discettando, «magari a parole, di valori, mentre basterebbe farsi carico di una storia. Una sinistra che non ha il coraggio di dichiararsi erede della storia del movimento operaio non merita di esistere»[footnoteRef:6]. Una posizione che nei nostri tempi non può nutrirsi della consolazione di alcuna filosofia forte della storia. [6: M. Tronti, Memoria e storia degli operai, in P. Favilli, M. Tronti, Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva, Milano, FrancoAngeli, 2001, pp. 375-381. La cit. p. 380.] 
Il giovane Italo Calvino proprio di fronte all’inevitabile corso storico distingueva il furore e l’odio che albergavano tanto nei fascisti che nei partigiani:
… quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione e di riscatto. Ma allora c’è la storia [il corsivo è mio]. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro (…) va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non esser cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti, o cento, o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi[footnoteRef:7]. [7: I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1947, p. 147.] 
A queste risorse, anche chi accetta l’eredità, non può più fare ricorso. Sul piano politico, sul piano che si prova a proiettare nel futuro quel grumo impastato di percorsi analitici, di vissuti personali, di speranza, di tentativi di scienza, di ragionevole utopia, la storia non concede garanzie né a chi accetta, né a chi rifiuta l’eredità. Certo la storia passata ha riservato la possibilità di aprire maggiori prospettive per il futuro a chi, dopo un altro crollo apparso come epocale, ha seguito la via di un Filippo Buonarroti, indubbiamente già nel 1815 «vecchio», «datato», piuttosto che quella dei «non datati» ex montagnardi, ex convenzionali, ex terroristi, Tallien, Barras, Fréron, diventati «moderni» e consoni allo spirito dei tempi, quello termidoriano.
Per quanto concerne la dimensione politica, comunque, accettazione o rifiuto dell’eredità riguardano solo la concezione che si ha dei propri percorsi personali, delle molteplici combinazioni di quegli itinerari nell’ambito dei reticoli disegnati dalle logiche di coerenza e di incoerenza.
Sul piano degli «studi seri», invece, accettare l’eredità significa anche accettare il fatto di mettere l’accento sul significato del termine eredi. Significa accettare la convinzione che una storia si è conclusa. Naturalmente come si concludono le storie, cioè con forti e profondi elementi di continuità che debbono essere ripresi per le potenzialità che conservano momenti non ancora espressi. Naturalmente anche con profonde cesure che non permettono alcuna ripresa di altri lineamenti che pure sono stati importanti. Certamente non c’è continuità, né possibilità di vero rinnovamento, né tantomeno di vera analisi, con le categorie centrate sui valori del «socialismo eterno». 
Gli «studi seri», se vogliono rimanere tali, non possono fare a meno di accettare l’eredità. Su tale piano bisogna verificare se nel lungo periodo (più di un secolo) il riformismo storico è riconoscibile anche al di là dei riformismi determinati senza trascolorare nel riformismo tutto, nel riformismo nulla. Una possibile teoria del riformismo, anzi meglio, una prima indicazione interpretativa, ché allo stato attuale il termine teoria è troppo impegnativo, non sostituisce i molteplici riformismi determinati, anzi è dalla loro puntuale analisi che si può acquistare maggiore capacità conoscitiva. 
Un tentativo d’interpretazione più generale, se fondato, può favorire una nuova stagione di studi, non più legata alle dicotomie riformismo/ rivoluzionarismo, riformismo/massimalismo, riformismo/comunismo, direttamente mutuate da una storia in corso di svolgimento proprio attraverso l’utilizzazione di tali coppie oppositive.
La storia finita, o forse, meglio, la fase storica conclusa, verso cui ci rivolgiamo per comprendere i meccanismi della consistenza ereditaria, rende necessaria, proprio come complesso in qualche modo definito, un’interpretazione anche unitaria delle proprie componenti fondamentali.
In questa prospettiva appare fondata le seguente tesi: nella lunga storia del movimento socialista ed operaio il riformismo è stato l’ordinaria normalità, la normalità strutturale, delle pratiche organizzative e politiche. Le rivoluzioni in atto, non il discorso sulla rivoluzione, ne sono state le contingenze extraordinarie, le cesure dell’ordinario svolgimento strutturale.
Sostenere la extraordinarietà della rivoluzione nei confronti della ordinarietà strutturale del riformismo socialista non ha niente a che vedere con la teoria del dérapage introdotta da François Furet a proposito della fase robespierrista della «Grande Rivoluzione» e poi, esplicitamente o implicitamente ripresa da numerosi nuovi ed improvvisati filosofi della storia, convinti dell’esistenza di una sola via razionale per lo sviluppo storico: la razionalità dell’homo oeconomicus. Le rivoluzioni, dunque, le pochissime vere rivoluzioni, non rappresentano nessun slittamento dalla via giusta, dalla via diritta, dalla ortodossia, rappresentano le possibilità aperte, le libertà della storia. Le libertà, com’è noto, sono aperte anche ai rischi. Le libertà possono fiorire improvvisamente in contesti aridi. Le libertà possono appassire. Possono e non possono lasciare semi.
La extraordinarietà della rivoluzione non si manifesta senza lasciare segni sulla ordinarietà del riformismo, esattamente come lo stato di guerra sconvolge l’ordinario stato di pace. Le logiche dello stato di pace, però, riprendono i lineamenti profondi della continuità una volta passata la contingenza, magari pesantissima, dello stato di guerra.
Si può dire, allora, che il riformismo socialista è l’unica pratica possibile tanto della pace armata che della guerra di posizione. O meglio il riformismo è la cornice necessaria di pratiche molteplici impossibilitate ad uscire da quella cornice.
L’analisi del riformismo storico può ancora continuare a svolgersi tramite nuovi studi dei riformismi determinati e delle loro opposizioni «rivoluzionarie». Ma anche in questo caso solo il mutamento di prospettiva, quello derivato dall’accettazione definitiva di un’eredità frutto di una fase storica conclusa, quello basato sulla tesi della normalità strutturale delle pratiche riformiste in situazioni ordinarie, può aprire nuovi orizzonti euristici.
Che l’approccio in termini di dicotomia riformista/rivoluzionario lasciasse spazio a meccanismi interpretativi moltorigidi ed assai spesso insoddisfacenti era apparso chiaro a quegli studiosi per i quali la storia politica non si esauriva nei rapidi movimentio di superficie, nella dimensione del nominalismo politicien, anche molto prima della cesura di fine secolo. Giuliano Procacci, ad esempio, aveva notato fin dai primi anni Settanta come le ragioni di una sorta di «guerra di classe» in molte zone di proletariato agricolo e industriale italiano attenessero a ragioni strutturali, e tendessero a permanere anche in una «sorta di interscambiabilità»[footnoteRef:8] tra riformismo e sindacalismo rivoluzionario. [8: G. Procacci, Intervento al convegno di studi su Il sindacalismo rivoluzionario in Italia (1974), in «Ricerche Storiche», 1975, pp. 109-114. La cit. p. 110.] 
Può destare addirittura stupore una riflessione sul tema in oggetto fatta nel 1950, in un clima di durissimo scontro politico ed ideologico, in un clima di repressione dei movimenti popolari, in un clima di pericoli autoritari, in un clima che sembrava preludere ad una possibile fine dell’agibilità politica per i «socialcomunisti», una riflessione fatta da un dirigente politico di primo piano, protagonista di quello scontro: Palmiro Togliatti. 
Stupore per la distanza abissale tra quella dimensione intellettuale e quella dei tardi eredi (che tra l’altro pensano di potersi permettere di snobbare l’eredità). Abissale distanza che ci proietta nel pieno dell’attuale miseria della politica.
Stupore per una riflessione che pur partendo da una contingenza politica particolare, la polemica con la prassi degasperiana di governo, resta del tutto sul piano del sapere storico, condotta con gli strumenti della migliore metodologia storica, proprio come avrebbe potuto fare uno storico professionale.
Stupore per un discorso che non è tanto su Giovanni Giolitti[footnoteRef:9], ma proprio sul riformismo inevitabile, e da parte di una personalità che, in sede di politica contingente, avrebbe considerato insultante essere considerato riformista. [9: P. Togliatti, Discorso su Giolitti, Conferenza tenuta a Torino 1l 30 aprile 1959, poi in «Rinascita», 1950. Il testo da cui citerò in P. Togliatti, Momenti della storia d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1963, pp. 79-116.] 
… occorre oramai staccarsi dalle polemiche del passato, ché il continuarle a distanza, nel momento presente, non è atto a farci molto progredire. A noi serve una ricerca la quale, partendo dalle caratteristiche dell’uomo politico, dalle sue affermazioni programmatiche e dalla sua attività, ci conduca a meglio comprendere la struttura della società civile e politica del suo tempo, i contrasti che in essa si svolgevano, le trasformazioni che maturavano[footnoteRef:10]. [10: Ivi, p. 87.] 
Il tempo che separava lo scritto di Togliatti alla «polemiche del passato» era minore di quello che separa il nostro tempo dalle polemiche con il «togliattismo».
Il giolittismo, per Togliatti, è nel complesso, un’esperienza riformatrice minata da profonde contraddizioni, in particolare per la presenza ingombrante di «una sostanziale struttura reazionaria della società italiana, che limita tutte le manifestazioni di democrazia; una specie di trama nera sulla quale rapidamente si logora il ricamo a colori delle proclamate riforme democratiche»[footnoteRef:11]. [11: Ivi, p. 91.] 
Nessun giudizio è possibile sulla qualità del riformismo borghese giolittiano né sul riformismo socialista, se si prescinde da queste tendenze profonde e di lungo periodo della società italiana. Il tentativo giolittiano di democratizzare davvero il paese fallì non perché i socialisti fecero mancare la loro collaborazione governativa, ma per la forza e la pervasività di tendenze che si erano manifestate prima, e che si sarebbero manifestato dopo, la cosiddetta «età giolittiana».
In tale contesto i socialisti fecero la giuste scelte politiche. Del tutto errate le critiche che vengono fatte sulla pressione esercitata dalle organizzazioni socialiste del nord sul governo allo scopo di ottenere migliori condizioni di lavoro per i propri associati, pressioni che sarebbe andate a detrimento delle masse contadine .
Questa è la funzione storica della classe operaia. La classe operaia lotta per la propria esistenza: per migliorarne le condizioni si organizza e fa valere la propria forza. La lotta degli operai e il suo affermarsi progressivo scoprono le contraddizioni della struttura sociale, le sue incongruenze, le sue assurdità. Se gli «a Turati a Trevesoperai di fronte al fatto che i successi dell’azione loro mettono a nudo i vecchi squilibri e le vecchie ingiustizie, si fermassero o andassero indietro, verrebbero meno al compito loro, contribuirebbero a tenere la società intiera incatenata al passato. I metallurgici di Milano e di Torino, i portuali di Genova, i muratori o i lavoratori agricoli associati nelle cooperative di Imola o di Ravenna non potevano e non dovevano fermare il loro progresso economico perché nel Mezzogiorno, in Sardegna, vi erano masse contadine viventi in condizioni arretrate, e alle quali le classi dirigenti cercavano di far pagare i progressi realizzati dai lavoratori del nord. Anche se l’avanzata operaia nel nord fosse stata frenata , ciò non avrebbe portato al Mezzogiorno oppresso alcun vantaggio, mentre è da quell’avanzata che doveva uscire la forza politica capace di imporre all’Italia, come problemi inderogabili, quello del nord e quello del sud, quello degli operai e quello dei contadini, nella loro unità inscindibile, come problemi della struttura della nostra società e delle trasformazioni ch’essa deve subire[footnoteRef:12]. [12: Ivi, pp. 111-112.] 
Una pagina che è una lezione di riformismo. Del resto è indicativo il fatto che Togliatti facesse riferirimento, con lunghe citazioni, alla famosa lettera di Engels a Turati del 26 gennaio, documento che è stato considerato la base teorica del lungo riformismo.
I socialisti dovevano mobilitarsi per le riforme che avrebbero portato al suffragio universale, alla libertà di movimento, ad una maggiore giustizia sociale anche tramite riforme tributarie, ma in quel contesto, non avrebbero dovuto commettere l’errore di partecipare al governo.
Al potere con Giolitti [i socialisti] non sarebbero certamente stati capaci di esigere un’azione riformatrice delle strutture del paese, sia pure nell’ambito di un regime borghese. Si sarebbero adagiati sullo stato delle cose esistenti, e allora veramente le concessioni e i favori al movimento operaio del nord sarebbero diventati vizio organico insuperabile, contaminazione definitiva del vivo col morto. Le concessioni e i favori al movimento operaio del nord erano ammissibili proprio perché il partito socialista nel suo complesso non collaborava nel governo, non si lasciava inserire senza residui nel sistema della oligarchia giolittiana, e quindi rimaneva al movimento meridionale, per quanto arretrato, un punto di riferimento che doveva avere in seguito un apprezzabile valore[footnoteRef:13]. [13: Ivi, p. 114.] 
Dobbiamo essere «grati», aggiungeva Togliatti, a «Turati, a Treves e gli altri riformisti» che non sono andati al potere, anche se, e qui la polemica tornava contingente e certamente ingiusta nei confronti di Turati[footnoteRef:14], furono incoerenti con i loro convincimenti ideali e pratici. Grati anche perché non sarebbe stato possibile «capire Antonio Gramsci (…) senza la precedente organizzazione e le lotte precedenti (…) guidate da organizzatori e dirigenti politici di tendenza ben diversa dalla nostra»[footnoteRef:15]. [14: Turati assunse nei confronti di altri riformisti, come Bissolati, Bonomi, un atteggiamento analogo a quello di Togliatti nei confronti dei dirigenti riformisti nel loro insieme. Così nel 1912 di fronte lla guerra di Libia: «È l'abdicazione di codesta democrazia, che ci sforza, nostro malgrado a scostarci da lei per rimanere noi stessi» (Discorso pronunciato alla Camera dei deputati, Tornata del 23 febbraio 1912). Si tratta di una razione così motivata:
«....vi ha qualcosa di fronte ai momentipiù decisivi dei partiti e delle classi, vi ha qualcosa di più abile dell’abilità, di più profondamente ragionevole del sillogismo, di più utile del calcolo utilitario sapiente. Vi è l'istintiva ed intuitiva ribellione, la protesta che non piega e non transige, che scinde veramente e visibilmente le responsabilità: che nettamente separa gli interessi, le classi, gli spiriti - e li pone di fronte a battaglia. Vi é un partito di rivoluzione e di avvenire che la facile lusinga di secondari successi attirò troppo a fondo nelle trincee nemiche, e si accorge ad un tratto che sta per rimanervi prigione - vi é l’istinto della vita che lo fa rizzarsi d’un balzo e stringersi tutto fieramente in sé e ritirarsi con mossa repentina, ripigliando compatto tutto il suo ardore di battaglia, di nulla più preoccupandosi che di distinguersi, di riaffermarsi, di riessere lui» (Il miraggio della pace, in «Critica Sociale», 1912, pp. 1-4).] [15: Discorso su Giolitti, cit., p. 115.] 
Il modo in cui Togliatti, senza usare il termine, tratteggia le caratteristiche del riformismo non contingente, del riformismo forma della ordinarietà socialista (in quello stesso saggio Togliatti definisce se stesso un socialista, un appartenente a quel campo «sia pure nella schiera più avanzata», quella dei comunisti) è lo stesso in cui, nel momento i cui i socialisti italiani possono cominciare a fare politica senza più chiudersi nel ridotto difensivo, viene tratteggiato da personalità così diverse come , Salvemini, Ciccotti, Turati. Salvemini e Ciccotti, del resto, non faranno mai parte del riformismo come corrente.
La verità è che il carattere socialista deve essere dato alle riforme non dal loro contenuto, ma dal modo con cui vengono propugnate e dagli argomenti con cui vengono sostenute. La tassa progressiva domandatela come fanno i radicali, al buon cuore e al senso di giustizia delle classi dirigenti, sostenetela cercando di dimostrare che essa è il non plus ultra della perfezione tributaria, e la tassa progressiva diventerà una riforma democratica. Fate invece che la domandi il proletariato organizzato in partito di classe come una piccola anticipazione di tutto ciò[footnoteRef:16] [16: Un Travet La questione amministrativa a Torino...e altrove, in «Critica Sociale», 1898, pp. 54-57. La cit. a p. 55.] 
Così Salvemini.
E Ciccotti esprimeva quella temperie con estrema efficacia ed anche con formulazioni che avrebbero avuto poi particolare fortuna nella nostra “modernità” quando sosteneva la necessità che il riformismo uscisse «dallo stato di semplice tendenza e desiderata» per diventare «piattaforma nel Parlamento e nel paese», altrimenti, -aggiungeva- «come abbiamo i rivoluzionari senza rivoluzione, così abbiamo- ed è una specialità prevalentemente italiana anche questa - i riformatori senza riforme » (il corsivo è nel testo)[footnoteRef:17]. [17: E. Ciccotti, Per un piano di riforme , in «Avanti!», 7 gennaio 1902.] 
Ed infine così Turati nella sua polemica con De Marinis:
Nel gergo di De Marinis la tendenza riformatrice diventa riformismo, la tendenza legalitaria diventa pacifica. Ora il riformismo sta alla riforma socialista e la pace alla lotta legalitaria socialista, esattamente come i programmi borghesi — radicali quanto si voglia — stanno al programma nostro. Riformismo sono le riforme fatte fine a se stesse, rizzate a colonne d’Ercole d’un movimento, concesse nella dose dell’immediato necessario, per sviare, contenere, sventare, non per agevolare la rivoluzione. Pace, armonia tra le classi è l’ideale e l’interesse dei dominatori. Ma gli oppressi, ma i dominati hanno bisogno di lotta, di riforme che siano conquiste, ne agevolino successive, preparino la rivoluzione economica e sociale, siano rivoluzione esse stesse[footnoteRef:18]. [18: F. Turati, Alla scoperta del socialismo. Riformismo radicale e rivoluzione proletaria, in «Critica Sociale», 1901, pp. 321-324. La cit. p. 324. Ed ancora nel 1903: «Vagheggiammo una rivoluzione nutrita di fatti, non campata sulle aeree parole, se ne creò una tendenza affibbiandocela, coll’adorabile nomignolo di “riformismo”»,C.S., La direzione risponde, ivi, p. 56.] 
L’unica garanzia di riformismo realmente operante, insomma, era (è) il mantenimento dell’autonomia politica e culturale del socialismo. Il riformismo forte è possibile solo in presenza di un socialismo forte.
 Solo a queste condizioni, solo con lo sguardo rivolto verso tutta l’esperienza del socialismo storico, il riformismo cessa di essere introvabile.
Riformismo e controriformismo: dall’ income alla flat tax
Questo libro si misura con il problema della continua definizione/ridefinizione del riformismo socialista attraverso l’analisi dei problemi reali che si si sono manifestati di fronte alla concretezza di una riforma. È dunque un contributo per superare l’ennesima riproposizione della discussione politica contingente che ha opposto, in momenti diversi, «riformisti» a «rivoluzionari». 
Giustamente si è affermato che la questione fiscale è stata ed è davvero «un autentico spartiacque nei rapporti di classe e nella gestione del potere dall’Unità in poi»[footnoteRef:19]. Dunque [19: M.G. Rossi, Il problema storico della riforma fiscale in Italia, in «Italia Contemporanea», 1988, pp. 5-19. La cit. p. 5.] 
il riformismo che la questione tributaria ha sollecitato e sollecita oggi in ambito socialista non si esaurisce all’interno di dinamiche di partito o tra partiti diversi ma comunque d’ispirazione socialista. Perciò è necessario che lo sfondo dell’analisi, i suoi limiti cronologici, trascendano quelli della periodizzazione canonica. In tal modo il libro è anche un contributo a circoscrivere le suggestioni di tipo ideologico che gravano sul giudizio storico.
Naturalmente ciò non significa che quei problemi possano essere studiati e compresi non tenendo conto dell’importanza della teoria e del ruolo giocato dall’ideologia, sarebbe questa una concezione ben misera della concretezza analitica, bensì che tali aspetti devono essere necessariamente considerati in stretto rapporto ai reali svolgimenti di uno specifico processo riformatore.
Quanto a riferimenti teorici, a presupposti ideologici, a concezioni generali della società e dello Stato, la materia in questione ne è profondamente intessuta.
È molto difficile nel contesto culturale che stiamo attraversando porsi il problema dell’ideologia nei termini degli «studi seri». Parola e concetto di ideologia hanno subito nell’ultimo quarto di secolo, lo stesso destino della parola e del concetto di utopia. Ideologia ed utopia sono stati oggetto, per decenni, di indagine, di analisi quasi sempre di altissimo livello. Questo attento e rigoroso lavoro di lungo periodo ha prodotto risultati che dal punto di vista scientifico rimangono imprescindibili punti di riferimento. Nella pubblicistica mediatica corrente, che, com’è noto, non ha più alcun rapporto con l’alta cultura, l’ideologia è diventata sinonimo di pregiudizio astratto totalmente dalla realtà effettuale. L’utopia è diventata sempre distopia, e/o sogno astratto di cose impossibili tipico di cervelli non pratici, di cervelli balzani. Questa pubblicistica è stata ed è talmente abbondante, talmente insinuante, talmente monoclamante che, esattamente come nei fenomeni inflazionistici dei periodi in cui la moneta aveva valore intrinseco, l’ipertrofica e cattiva produzione ha finito se non per scacciare, per marginalizzare la buona produzione frutto di buoni studi. Alla fine di questo «paesaggio “degradato” di kitsch e scarti»[footnoteRef:20] c’è l’inevitabile cancellazione del confine tra cultura alta e cultura mediatica, il primato crescente del «neo», e, nel nostro caso, l’impossibilità ad usare in maniera conoscitiva (sì proprio in maniera anche conoscitiva) la categoria di ideologia. [20: F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma , Fazi Editore, 2007, p. 20.] 
Tutto questo in un periodo dove la retorica della fine delle ideologie è consustanziale alla presenza operantedi una dimensione ideologica mai stata così pervasiva per lo meno a partire dal secondo dopoguerra. Che cosa c’è di più pervasivo ed ideologico, proprio nel senso della pubblicistica corrente, che il processo di naturalizzazione di categorie storiche? Una realtà sociale naturalizzata è insieme una realtà sociale oscurata. Un’epoca che appare incapace di pensare storicamente è anche quella in cui il complesso sistema, l’arco estremamente ampio di utilizzazione di strumenti conoscitivi ideologici, si riduce al più banale dei suoi usi politici. Si riduce a fare il pendant, e non è un caso, al comune uso politico della storia.
 L’oscuramento della realtà sociale è una delle funzioni della ideologia, in particolare funzione legittimante dei dominanti. Non si deve però pensare che un sistema ideologico dei dominanti (come anche dei dominati) sia soltanto illusioni o «falsa coscienza». Non c’è solo oscuramento, ma anche giudizi non ingannevoli sugli interessi e sulle condizioni di dominanti e dominati. «In altre parole l’ideologia non è intrinsecamente falsificante, soprattutto se la consideriamo nella sua accezione più ampia di connubio tra potere e discorso»[footnoteRef:21]. Indice della miseria del discorso attuale è, appunto, la prevalenza dell’oscuramento. [21: T. Eagleton, Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa, Roma, Fazi, 2007, p. 44.] 
Se consideriamo l’ampio arco temporale del discorso sulla questione tributaria in Italia, del lungo percorso da income[footnoteRef:22] a flat tax, ci apparirà chiaro anche l’ampio spettro dell’uso dell’ideologia. Quale dimensione aveva lo spettro dell’ideologia nella convinzione di poter basare le linee di una riforma fiscale su una teoria scientifica della finanza pubblica? O su una teoria politica della finanza pubblica? Quale dimensione ha lo spettro dell’ideologia nella convinzione che sia possibile una riforma all’indietro, una riforma verso tassazioni proporzionali o addirittura regressive? [22: La income tax non necessariamente si presenta in forma progressiva e comprehensive. Per lungo tempo, nella stessa esperienza inglese, quello che serviva di continuo riferimento anche alla discussione italiana, il reddito viene determinato con una combinazione tra il sistema reale ed il sistema personale. Sulla prima parte il prelievo era di tipo proporzionale e solo sulla seconda di tipo addizionale (sur-tax). Nella discussione italiana si tende comunque sempre a mettere in evidenza il suo carattere di progressiva aderenza alla modernità.] 
Di fronte alla conclamata necessità di intervenire sul sistema tributario anche come risposta combinata agli squilibri di bilancio e agli squilibri sociali le culture economiche in vario modo gravitanti intorno alle diverse varianti del liberalismo si provarono a delineare una politica riformatrice che affondasse le sue radici o in tentativi di definizione dell’ «ottima imposta», o in principi elaborati nella sfera della «scienza finanziaria». Non si trattò certo di un panorama univoco, non mancarono quelli che esclamavano ad alta voce : «Che c’entra la scienza, se le correnti politiche del momento vogliono una finanza democratica, o socialista, o aristocratica?»[footnoteRef:23], ma la tendenza a costruire un percorso riformatore teoricamente e scientificamente fondato non fu assolutamente marginale. [23: V. Tangorra, I limiti dell’indagine teorica nella finanza pubblica, in «Giornale degli Economisti» 1903, sem. I, pp. 15-40. La cit. a p. 35.] 
Naturalmente l’ideologia non poteva non essere elemento essenziale di qualsiasi scelta in un contesto in cui la dialettica dominanti/dominati, la dialettica tra interessi forti, emergeva con immediatezza.
Niente si prestava di più all’uso di giudizi di valore come il tentativo di definire i concetti di «giustizia tributaria» e di «equità fiscale». Anche chi, come Luigi Einaudi, intraprese una lunga e meditata ricerca per stabilire i parametri dell’«ottima imposta» basata sul «principio economico», sfociata poi nella proposta di «tassazione del reddito consumato»[footnoteRef:24] non ne sfuggì certamente. Più che una derivazione dal principio di «equità tributaria», tale proposta risultava congeniale alla visione einaudiana, maturata da tempo, della necessità di incoraggiare l’accumulazione e l’investimento comprimendo i consumi individuali[footnoteRef:25]. [24: L. Einaudi, Intorno al concetto di reddito disponibile e di un sistema di imposte sul reddito consumato. Saggio di una teoria dell’imposta dedotta esclusivamente dal postulato dell’eguaglianza (1912), ed anche Contributo alla ricerca dell’«ottima imposta» (1929), ora in Saggi sul risparmio e l’imposta, Torino, Einaudi, 1958, rispettivamente pp. 3-159 e 266-468.] [25: Vedi anche le osservazioni di R. Romano, Nota introduttiva a L. Einaudi, La terra e l’imposta, Torino, Einaudi, 1974.] 
Proprio in polemica con il saggio del 1912 di Einaudi, Benvenuto Griziotti aveva sostenuto l’impossibilità di stabilire quale fosse l’«equa imposta» a partire dal «principio economico»[footnoteRef:26]. [26: B. Griziotti, Considerazioni sui metodi limiti e problemi della «scienza pura delle finanze», Roma, L’Universelle, 1912.] 
E chi era convinto che nella dimensione redistributiva, nella quale comunque si finiva per entrare «in tema di eguaglianza», non fosse possibile fare ricorso ai principi della «scienza finanziaria»[footnoteRef:27], doveva per forza fare ricorso ad un complesso sistema ideologico. [27: A. De viti de Marco, Principi di economia finanziaria, Torino, Einaudi, 1953, p. 169.] 
Tipica la costruzione intellettuale di Antonio De Viti de Marco sulla questione-simbolo della scelta fra sistema fiscale basato sulla proporzionalità o sulla progressività. Per De viti né l’una né l’altra scelta potevano giovarsi del retroterra nobile della teoria economica della finanza pubblica, essere considerate come corollari della teoria soggettiva del valore. In particolare la imposta progressiva non poteva assolutamente discendere dal principio di «uguaglianza di sacrificio». Su un piano di considerazione diversa rispetto a quello della teoria economica della finanza pubblica, si poteva caso mai notare come fosse l’imposta proporzionale l’istituto tributario che «rispettava al massimo la produzione della ricchezza e l’accumulazione del capita», mentre quella progressiva riguardava piuttosto la sfera della ripartizione del reddito e tendeva perciò a diventare «la bandiera della lotta tra ricchi e poveri». Naturalmente i tempi, la questione sociale, imponevano una qualche forma di progressività, ma era preferibile quella basata sull’innalzamento dei limiti di esenzione dei redditi più bassi. Infatti con la progressività estesa all’intero sistema tributario c’era il rischio che domandassero spese coloro che non pagavano imposte e che pagassero imposte coloro che non domandavano aumento di spese. E inoltre una volta rotto l’argine iniziale, l’imposta progressiva avrebbe cominciato «a trasformarsi in una lotta ad oltranza contro le classi abbienti» con la «minaccia di graduale confisca delle grandi e crescenti fortune»[footnoteRef:28]. È ovvio che questo valore simbolico così paventato dall’economista liberale assumesse un ben diverso significato in altri contesti ideologici. [28: Ivi, pp. 185 e 191.] 
I caratteri fondamentali di questo discorso sulla fiscalità, pressoché negli stessi termini in cui li avevano delineati agli inizi del XX secolo i Deviti de Marco, gli Einaudi, i Griziotti, i Pareto, i Mazzola, i Barone, accompagnano la vicenda tributaria italiana per quasi tutta la sua storia.
Il nostro sistema tributario (…) è ancora informato al criterio della proporzionalità. Infatti la massima parte del gettito dell'imposta è a base oggettiva o reale e ad aliquota costante, mentre comparativamente assai scarso è il gettito della complementare sul reddito globale che è a base personale e ad aliquota progressiva. Se poi consideriamo che più dei tributi diretti rendono quelli indiretti e questi attuano una progressioneal rovescio, in quanto essendo stabiliti prevalentemente sui consumi, gravano maggiormente sulle classi meno abbienti, si vede come in effetti la distribuzione del carico tributario avvenga non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo. Il che costituisce una grave ingiustizia sociale, che va eliminata, con una meditata e seria riforma tributaria.
Un’affermazione di tal genere potrebbe essere datata, indifferentemente, nell’arco di quasi un secolo. In questo libro, la cui periodizzazione centrale resta quella dell’Italia liberale, il lettore incontrerà più volte considerazioni analoghe. 
Si tratta invece della citazione da un intervento del deputato Salvatore Scoca all’Assemblea Costituente[footnoteRef:29] nel 1947. [29: Dal verbale dell'Assemblea Costituente: ASSEMBLEA COSTITUENTE IN SEDUTA PLENARIA, Venerdi 23 Maggio 1947.] 
Tre anni dopo, uno dei più autorevoli studiosi di scienza della finanza, membro, in tempi diversi, di numerose commissioni di riforma, poteva ancora affermare:
Oggi il nostri sistema tributario, nelle sue linee essenziali è rimasto quello dell’unificazione. L’esigenza sempre sentita di riunire le varie imposte reali in un’imposta unica è rimasto sempre insoluto. Si è introdotta, e vero, l’imposta complementare progressiva e quella patrimoniale, ma quest’ultima venne poco dopo soppressa[footnoteRef:30]. [30: C. Cosciani, La riforma tributaria. Analisi critica del sistema tributario italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1950, p. 17.] 
Non che la legislazione tributaria fosse rimasta quella precedente la prima guerra mondiale, anzi il quadro legislativo si era enormemente gonfiato, ma erano state le urgenti necessità belliche a determinare un ampliamento che in genere era costituito da imposte straordinarie. Anche l’imposta patrimoniale istituita nel 1920 ebbe carattere straordinario, seppure di lungo periodo perché fu ripartita su 20 annualità[footnoteRef:31]. [31: S. Steve, Il sistema tributario italiano e le sue prospettive, Milano, Rizzoli & C., 1947.] 
Nella sostanza tutti i nuovi polloni venivano fissati nel vecchi tronco. Anche il sistema d’imposizione personale risultava ancora basato sulla tassa di ricchezza mobile istituita con la legge 14 luglio 1864, tassa sulla quale nel libro avremo modo di ragionare in maniera più ampia. È vero che tale tassa, «moderna», come è sta spesso giudicata, sembrava somigliare all’income tax inglese, anzi si sottolineava anche il fatto che in Italia la distinzione tra redditi di lavoro e redditi di capitale era stata introdotta già nel 1864, mentre in Inghilterra la distinzione tra redditi earned e redditi unearned fu introdotto soltanto nel 1907, ma nella sostanza gli effetti erano decisamente diversi. Nella parte proporzionale della tassazione inglese erano presenti elementi personali molto rilevanti praticamente inesistenti in Italia. Ciò comportava che l’aliquota, in virtù di ampio di sistema di detrazioni basate appunto sulle condizioni personali, pur essendo formalmente proporzionale, manifestava effetti progressivi in relazione al reddito totale, «con un effetto molto sensibile nei più bassi livelli di reddito»[footnoteRef:32]. [32: Ivi, p. 17. Vedi anche Le imposte sul reddito, a cura di Gino Borgatta, Allegato a Rapporto della commissione economica alla Costituente, vol V, Finanza, Allegati, Ministero per la Costituente, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1946.] 
Non è un caso che Sergio Steve indichi questo modello ancora nel 1945 come proposta di riforma tributaria del Partito liberale. In quel clima la spinta alla progressività fiscale era fortissima. Ancorarla ad un meccanismo che accentuasse «gli elementi di personalità delle imposte proporzionali di base»[footnoteRef:33] era porsi in continuità con l’impostazione di De Viti de Marco dell’inizio del secolo. [33: S. Steve, La riforma tributaria in Italia, Roma, Partito Liberale Italiano, 1945, pp. 20-24.] 
In un contesto di lunga continuità tributaria, in un contesto che tuttavia tendeva ad accentuare nel tempo la pressione politica e sociale verso forme di progressivismo fiscale, le diverse «ideologie» tributarie mantenevano l’equilibro tra legittimazione di interessi[footnoteRef:34] e capacità conoscitiva. In questa lunga continuità, tuttavia, proprio nel clima postbellico, si inseriva, un principio programmatico di rottura: quello concretizzatosi in un articolo della Costituzione della Repubblica italiana. [34: La legittimazione d’interessi veniva invece direttamente da Confindustria che per bocca del suo presidente Angelo Costa rispondeva in questi termini al questionario sottopostogli dalla Commissione Economica per la Costituente: «Non sembra opportuno nè conveniente affidare allo strumento fiscale, se non nei limiti in cui normalmente ed automaticamente le compie, funzioni di redistribuzione della ricchezza e di trasformazione della struttura sociale. (...) Soltanto se la pressione tributaria potrà scendere in futuro ad un livello più basso di quello prebellico sarà possibile aumentare il rapporto tra le imposte dirette ed indirette attraverso una riduzione proporzionale di queste ultime in maniera da attenuare la pressione dei consumi delle classi meno abbienti». (Rapporto.. cit. vol. V, Finanza, Allegati, p. 241). Su tale base si è giustamente affermato: «Dall’insieme delle risposte di Costa, e degli altri esponenti18 del mondo imprenditoriale sentiti nella medesima circostanza, si evince chiaramemente come la struttura desiderata del sistema tributario, tenendo conto dell’adesione alle teorie economiche all’epoca prevalenti, avrebbe dovuto avere le seguenti caratteristiche: 
- una preponderanza delle imposte sui consumi rispetto a quelle sul reddito, a cui era assegnato il duplice obiettivo di indurre un effetto di sostituzione a favore del risparmio e di far così gravare l’onere dei servizi pubblici in buona sostanza sulle classi meno abbienti; 
- coerentemente, per gli obiettivi di cui sopra, una prevalenza di imposte proporzionali sul reddito piuttosto che progressive, 
- una prevalenza dell’imposizione sui salari piuttosto che sui profitti (o, se si vuole, sul reddito d’impresa), nell’ipotesi che direttamente o indirettamente questi si traducano in investimenti». S. Bottarelli, Tra riforme mancate e riforme attuate: da Vanoni alla riforma degli anni ’70, Quaderni del Dipartimento di Economia Politica, Università di Siena, n. 434, settembre 2004, p. 7.] 
Nella seduta plenaria del 23 maggio 1947 l’Assemblea costituente, dopo un dibattito in cui erano aleggiate alcune preoccupazioni «quanto ad una radicale riforma del (…) sistema tributario»[footnoteRef:35], approvò proprio la formulazione più sintetica e radicale, proprio perché riferita all’intero sistema tributario e non ad alcune sue parti: Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività. [35: Il riferimento di Salvatore Scoca è ad Epicarpo Corbino, che peraltro si affrettò a smentire di avere quelle «preoccupazioni». Epicarmo Corbino e Meuccio Ruini (presidente della commissione) avevano avuto modo di partecipare anche alle vicende delle non riforme tributarie nell’Italia liberale.] 
Una formulazione di tal genere, diventato l’articolo 53 della Costituzione, era passibile, di per sé, di operare un distacco profondo dai modi in cui si era articolato per ottant’anni il sistema ideologico sulla questione tributaria dominante in Italia.
Non basta però l’affermazione di un principio, sia pure collocato in una sede così autorevole, a modificare immediatamente sia il quadro di riferimento ideologico, sia, soprattutto, a diventare operativo sul piano della legislazione ordinaria.
Per quanto riguarda il primo aspetto l’articolo 53 della Costituzione fu interpretato in maniera svalutativa del concetto di capacità contributiva, attraverso l’attribuzione di un senso vago ed indeterminato alla formulazione. Gli economisti, i primi adanalizzare questo concetto, lo considerarono come affermazione generica a cui il legislatore poteva attribuire la portata più varia a seconda delle scelte di politica fiscale contingenti. Finì per prevalere, quindi, l’idea che l’articolo 53 fosse una norma programmatica, quindi non di immediata applicazione. La conseguenza di tale interpretazione del principio di capacità contributiva fu che una norma che avesse potenzialmente violato tale principio, non potesse essere sottoposta al vaglio di legittimità da parte della Corte costituzionale. 
Con la sentenza 1 del 1956[footnoteRef:36], però, la Consulta stabilì che qualsiasi legge ordinaria poteva essere verificata nella logica della legittimità costituzionale. Con la sentenza, sempre della Consulta, 45 del 1964[footnoteRef:37], inoltre, fu specificato con precisione il concetto di «capacità contributiva». Sul piano della teoria giurisdizionale, dunque, niente si opponeva ad un coordinamento stretto tra principio costituzionale e leggi ordinarie sulla riforma tributaria. [36: «Gazzetta Ufficiale» n. 146 del 14 giugno 1956.] [37: «Gazzetta Ufficiale» n. 157 del 27 giugno 1964.] 
Per quanto riguarda il secondo aspetto per tutti gli anni Cinquanta la legislazione tributaria non si discostò dall’impostazione che Angelo Costa aveva esternato alla Commissione finanza della costituente. Gli stessi interventi legislativi che vanno sotto il nome di «riforma Vanoni» si caratterizzano più come opera di razionalizzazione che di riforma radicale ispirata all’articolo 53.
Soltanto con il mutamento dei rapporti di forza sociali e quindi anche del clima culturale a partire dagli anni Sessanta, concretizzatisi nelle riforme tributarie degli anni Settanta, il quadro ideologico nei confronti della progressività cambia radicalmente senza per questo perdere l’ampia gamma dei suoi significati.
Sarà il rovesciamento rapido di questo quadro a riportare ipersemplificazione concettuale nel sistema ideologico, ed in termini talmente schiacciati sulla logica degli interessi come quasi mai era apparso nella lunga storia delle riforme tributarie in Italia.
Le riforme degli anni Settanta infatti, tenuto conto delle condizioni della amministrazione fiscale italiana, dell’imponente area dell’evasione, solo molto molto imperfettamente si trovavano ad essere la traduzione effettuale dei principi costituzionali. In questo senso il panorama critico ai modi dell’imposizione progressiva poteva essere (lo fu) assai ampio. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta invece, fu l’imposta personale progressiva in sé ad essere sottoposta a critica radicale. E non per questioni di tecnica tributaria, bensì per un avvenuto mutamento di paradigma concernente la logica delle relazioni sociali, i rapporti tra le classi sociali, le logiche della lotta di classe, di cui il versante tributario è uno degli aspetti fondamentali.
Nel 1875 si tenne a Milano un congresso di economisti italiani, di quegli economisti italiani che si ponevano il problema di affrontare la «questione sociale», i problemi posti dalle varie culture socialiste, non in termini repressivi, ma in termini di legislazione sociale, legislazione tributaria compresa. L’economista italiano principe del periodo, Francesco Ferrara, di fronte a qualsiasi manifestazione di pensiero che potesse tradursi in ipotesi di legislazione sociale avvertiva l’aura del socialismo e minacciosamente avvertiva che il socialismo «non si discute[va]: si schiaccia[va]»[footnoteRef:38]. In questo caso, è del tutto ovvio, le posizioni relative al problema di una funzione anche sociale dell’imposta non potevano essere che immediatamente e piattamente ideologiche; qualsiasi funzione conoscitiva era esclusa. [38: F. Ferrara, L’italianità della scienza economica. Lettere al sen. Fedele Lampertico, in «L’economista», 1975, rist. in Opere complete di Francesco Ferrara, Roma, Associazione bancaria italiana, vol. VIII, (a cura di R. Faucci), p. 319.] 
Da allora, per più di un secolo, scienza e legittimazione di interessi, in vario modo ed in diverse combinazioni, restano il terreno su cui si elaborano teorie e pratiche tributarie. Terreno tanto più sicuro quanto le teorie si misurano con i processi storici in atto.
Oggi, dopo più di un secolo di storia (e che storia) ci vediamo riproporre risposte ferrariane, senza neppure l’autorità scientifica che comunque emanava da personalità come quelle di Francesco Ferrara.
La scelte concernenti le questioni tributarie, in particolare quelle relative all’imposizione progressiva, non sono scelte economiche bensì «morali», perché sottintendono la scelta di fondo «fra liberismo e socialismo». E l’etica non ha niente a che vedere con «la prospettiva dei libri di scienza della finanza». Questo è l’asse intorno a cui ruota tutta l’argomentazione dei nipotini, peraltro del tutto scolastici, di Friedrich von Hayek. 
In tale ottica (è molto discutibile, tra l’altro, che attenga alla dimensione dell’etica) qualsiasi sistema di prelievo fiscale che oltrepassi quello necessario al mantenimento dello «stato minimo» «è liberticida e ingiusto», per cui è «semplicistico [dire che] le imposte sono da pagare»; è semplicistico porre la questione fiscale come lotta all’evasione.
Di fronte a questioni di «morale» non ci sono dettami costituzionali che valgano: «quel che importa è che sopra le costituzioni ci sono i diritti naturali intangibili». In particolare non si può ricorrere a dettami costituzionali per l’imposta progressiva, un’imposta attraverso cui una maggioranza di non abbienti può «spogliare» una minoranza di abbienti[footnoteRef:39]. Il termine «spoliazione» era quello più usato, a proposito della imposta progressiva, dai ferrariani di fine XIX secolo. [39: S. Ricossa, Fisco e libertà: un dispotismo mascherato, in Vivere scegliere. Scritti di libertà,
curato da Paolo Del Debbio ed edito a cura della Fondazione Achille e Giulia Boroli, ripreso da «Il Giornale», 1.12.2006.] 
Sarebbe un errore considerare queste evidentissime (ed estreme) formulazioni ideologiche come elementi marginali di una discussione che ha ben altri punti di equilibrio. Certo è difficile che un impianto fiscale di tipo lockiano, moderno dopo la «gloriosa rivoluzione» inglese del XVII secolo, possa davvero generalizzarsi in quei termini, per lo meno nella parte del mondo che ha conosciuto l’evoluzione democratica dei diritti. Tali formulazioni possono però diventare, per molti aspetti lo sono diventate, elementi d’ispirazione in ultima istanza in contesti nei quali si rimette in discussione, anche nella pratica, quel sistema di diritti maturato nell’ambito della spinta inesaustiva all’uguaglianza che, seppure non lineare, è il vero carattere distintivo della modernità. Contesti in cui la ripresa di modelli teorici tardo secenteschi e/o tardo ottocenteschi si accompagna a reale inversione di tendenza per quella che era stata un lunga stagione di restringimento della forbice delle disuguaglianze. Non a caso la polemica contro gli eccessi della progressività comincia negli anni Ottanta del Novecento, così come la proposizione della flat tax, magari raggiungibile per detrazione.
 In particolare si stabilisce un rapporto tra il fenomeno dell’evasione fiscale e la «ripidità» delle aliquote di progressività. L’esperienza storica italiana, a cui si farà largo riferimento in questo libro, dimostra quanto sia fondata tale tesi.
A partire dalla metà degli anni Ottanta, il momento in cui, come abbiamo visto, comincia rafforzarsi e a diffondersi, nelle forme più varie, la critica alla progressività fiscale, comincia anche a diventare visibile il processo di inversione della tendenza all’eguaglianza tipica dell’«età dell’oro». L’indice di Gini, che aveva toccato il suo punto più basso nel 1982 (poco sopra lo 0,30), nel 2005 raggiunge lo 0,35[footnoteRef:40]. La tendenza alla divaricazione nella forbice della disuguaglianza, è, come ben sappiamo fenomeno generale. Indicativo, però, il fatto che nell’ambito dei 30 paesi OCSE l’Italia sia al sesto posto nella classificadegli indici di Gini, dopo Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti, Polonia e ben al di sopra della media OCSE, che si situa intorno allo 0,30. Agli ultimi due posti nella classifica della disuguaglianza Danimarca e Svezia, appena sopra lo 0,20. Danimarca e Svezia si contraddistinguono anche per essere ai vertici del prelievo fiscale (e della conseguente politica redistributiva) ed insieme per essere ai vertici della classifica dei 50 maggiori Paesi per il Pil pro-capite 2008: rispettivamente al terzo e al quinto posto. L’Italia si colloca al ventesimo. Nel 2004 la pressione fiscale in Svezia è stata del 50,5%, quella della media UE del 39,9%, quella italiana del 40,7, praticamente la stessa di 10 anni fa[footnoteRef:41]. [40: Oecd (2008), Growing Unequal? Income distribution and poverty in Oecd countries.] [41: Politiche pubbliche e redistribuzione, Rapporto Istituto di Studi e Analisi Economica (ISAE), Novembre 2007, p. 15.] 
Naturalmente non sono solo le dinamiche fiscale ad influire sul progressivo aumento dell’indice di Gini. In Italia, ad esempio, ma solo per quello che riguarda l’Irpef, non sembra che nell’ultimo decennio, su tale aspetto, l’imposizione fiscale, abbia prodotto mutamenti di rilievo[footnoteRef:42]. Resta il fatto che l’Italia ha uno dei peggiori indici per quel che concerne l’effetto redistributivo dell’intervento dello Stato tra i paesi OCSE. [42: M.R. Marino, C. Rapallini, La composizione familiare e l’imposta sul reddito delle persone fisiche: un’analisi degli effetti redistributivi e alcune considerazioni sul benessere sociale, Banca d’Italia, Temi di discussione del Servizio Studi, n. 477, giugno 2003.] 
Quanto pesa su tale situazione l’alta evasione fiscale e quanto pesa la struttura stessa della tassazione e dei trasferimenti? È possibile ipotizzare una «grande riforma» fiscale del tutto in controtendenza rispetto alle logiche che hanno prevalso negli ultimi 25 anni?
È possibile «mettere allo studio una riforma fiscale in senso fortemente redistributivo: un pacchetto di massiccio recupero dell’evasione, di nuove aliquote sui redditi più alti e sui redditi da capitale e un’imposta sui grandi patrimoni accumulati in questi anni»[footnoteRef:43]? [43: R. Realfonzo, Un fisco progressivo e redistributivo contro la crisi, in «economiaepolitica», 9 dicembre 2008.] 
Persino liberisti conclamati, protagonisti di primo piano delle politiche economiche e fiscali europee alla base della crisi in atto, cominciano ad avere ripensamenti[footnoteRef:44] a proposito degli effetti, che sono stati e sono dirompenti, della «concorrenza fiscale», considerata fino ad ieri colonna portante di un nuovo ordine tributario internazionale. [44: M. Monti, Gerarchie tra sistemi, ruolo del paese. Un patto (vero) per lEuropa, in «Corriere della Sera», 10 maggio 2009.] 
Solo l’impegno per una nuova «grande riforma», ispirata alle linee dette sopra, restituirebbe ai riformisti l’onore e l’onere del nome.
Gli itinerari estremi, ma che paesi di alta civiltà e di alta prosperità si trovano a percorrere, sono particolarmente adatti alla comprensione di esiti frutto di meccanismi riformisti o controriformisti.
Nel libro che è servito come momento iniziale del discorso sul riformismo di cui questo volume è l’altro polo, ho fatto riferimento alle vicende dell’imposta regressiva, alle motivazioni teorico-politiche per tale imposta, relative alla riforma fiscale del Cantone svizzero di Obwalden nel 2006. Come sa chi ha letto quelle pagine[footnoteRef:45], la riforma regressiva, è stata respinta da una sentenza del Tribunale Federale di Berna (la Consulta Elvetica), sulla base di una serie di principi costituzionali relativi alla questione dell’uguaglianza dei cittadini svizzeri indipendentemente dal Cantone di appartenenza. Obwalden ha dovuto ripiegare sulla più moderata flat-tax. [45: P. Favilli, Il riformismo e il suo rovescio, cit., pp. 111-112.] 
Le autorità obwaldesi, però, avvertono la giusta percezione del fatto che esiste un preciso rapporto tra tassazione regressiva e/o flat-tax, e logiche di separazione del corpo sociale, per cui hanno deciso di utilizzare le ampie riserve di territorio cantonale per spostare la concorrenza fiscale al livello delle singole parcelle abitative. In una legge approvata dal Gran consiglio cantonale (parlamento cantonale) il 30 aprile scorso, il territorio viene pianificato «per istituire delle zone residenziali speciali», riservate a persone che hanno «hanno particolari esigenze edilizie»[footnoteRef:46]. [46: Aree edificabili per i ricchi: la sfida di Obvaldo, «Swissinfo.ch», 14 maggio 2009.] 
Il Consigliere Federale (ministro dell'ambiente federale) Moritz Leuenberger ha scritto che la legge «non è nient'altro che una nuova forma di apartheid».
Il direttore cantonale delle costruzioni, Hans Matter, ha fatto notare, dal canto suo, che le «zone con costruzioni di alta qualità» non sono necessariamente «zone per i ricchi». Non esistono norme che mettano in relazione il diritto di costruire in queste zone con il reddito o la sostanza delle persone. Come in tutti i cantoni, sarà il mercato a regolare l'accesso alle parcelle.
È la mano invisibile a regolare il ritorno ad una situazione di ancien régime, dove il diritto ad essere esentati dalle tasse si accompagnava anche alla separazione fisica rispetto a quelli che tale diritto non avevano?
Il riformismo difficile
«Il socialismo [è] difficile», così quarant’anni fa affermava André Gorz attraverso il titolo di un suo libro che dedicava ampio spazio a quella ch’egli chiamava «strategia socialista delle riforme»[footnoteRef:47]. Tra le molte cose che lo rendevano difficile era anche il fatto che per quelli che Gorz chiamava «i partiti marxisti europei» era «impossibile assumere l’esperienza sovietica come punto di riferimento per il socialismo»[footnoteRef:48] di società industriali avanzate. L’implosione di quell’esperienza, la «fine del comunismo», erano, allora, al di fuori di qualsiasi orizzonte di pensiero. [47: A. Gorz, Il socialismo difficile, Bari, Laterza, 1968, pp. 79-132.] [48: Ivi, p. 181.] 
Dopo la «fine del comunismo» il riformismo socialista è ancora più difficile, proprio perché tale riformismo non è altro che l’asse fondamentale intorno al quale ruota la costruzione in progress del socialismo stesso. Per il riformismo generico, per quel riformismo di oggi che nella logica socialista è semplice controriformismo, il discorso è altro. Non è quello il riformismo difficile, il riformismo alla prova con cui si sono misurati i socialisti alle prese con la «grande riforma».
Come ben sappiamo la «grande riforma» non si fece, e su questo piano, dunque, i riformisti risultarono perdenti. Il giudizio storico sul riformismo non può, però, essere condizionato da tali esiti. Si pensi solo all’importanza del «socialismo riformista come fatto sociale»[footnoteRef:49]. Pur tuttavia la meccanica che portò a tali esiti è necessario oggetto di riflessione tanto per la storia quanto per le sue rivelazioni nella nostra contemporaneità. [49: T. Detti, Il socialismo riformista in Italia, Milano, La Pietra, 1980, p. 13.] 
Già in età giolittiana importanti protagonisti di parte socialista come Ciccotti e Salvemini, e di parte liberale, come de Johannis, avevano delineato un’immagine dei riformisti come insieme scarsamente capace a sviluppare una concreta opera riformatrice. Soprattutto si metteva l’accento, Salvemini e de Johannis quasi con le stesse parole[footnoteRef:50], sulla episodicità dell’impegno socialista in proposito, sulla mancanza di una scala di priorità a cui fare costante riferimento, sul continuo disperdersi del già limitato impegno in troppi e diversi rivoli. [50: «La loro [dei dirigenti socialisti] abitudine è sempre stata di iniziare le agitazioni con un grande slancio e subito, dopo quindici giorni, lasciare la prima per iniziarne un’altra: così mentre l’una spuntava, l’altra non maturava». Rerum Scriptor, Il suffragio universale e le riforme, «Critica Sociale», 1906, pp. 5-8. La

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