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Recentemente, “dimenticato” tra le pagine di un libro, abbiamo ritrovato il 
ritaglio di un giornale contenente una breve intervista rilasciata da Silvia 
Montefoschi nei primi anni 80 quando ancora insegnava all’Università di 
Padova.
Abbiamo pensato di pubblicarla.
Questa intervista è riportata nell’Opera Omnia, Zephyro Edizioni.
C’è chi non guarda al di là del proprio naso…
Risponde Silvia Montefoschi, psicoanalista, Università di Padova
 
Felicità: cosa ne pensa?
“Della felicità penso che è anzitutto una parola ambigua proprio nel senso etimologico del termine il quale deriva 
dal latino ambigere che in italiano si traduce con l'espressione “essere discorde”.
“Opinione questa che mi è stata confermata dalla discordia che è nata tra l'uditorio e me al convegno tenuto a 
Prato sull'argomento in questione”
Che cosa è successo al convegno di Prato sulla felicità?
“Dovendo io parlare sulla felicità come ricchezza interiore, mi sono intesa autorizzata, dalla comune tradizione 
del pensiero occidentale, a riferirmi a quell'anelito che incalza l'uomo da che è uomo verso una dimensione 
universale dell'essere che abbracci l'intera umanità; e ciò perché è solo in questa dimensione che il singolo 
uomo può trovare il senso della sua esistenza nel mondo. E poiché questa dimensione universale in cui l'uomo 
si riconosce tale coincide, come ben si sa, con la conoscenza che produce e riproduce il mondo umano quale 
fatto culturale, questa mia visione è diventata immediatamente discorde con l'aspettativa della maggior parte 
delle persone che erano in ascolto le quali, trovando assolutamente astratto il mio discorso, ritenevano che, 
parlando di felicità, ci si dovesse riferire al modo più adeguato di appagare i bisogni personali cosiddetti naturali”. 
Anche appagare i nostri bisogni è felicità.
“Si. Ciò che infatti rende ambigua la parola felicità è che essa si può collocare, con identica legittimità, all'interno 
di due logiche diverse e contrapposte: l'una che vede l'uomo come ente relazionale, sociale e storico, l'altra 
viceversa che lo coglie nel limite della sua particolarità individuale. C'è da dire però che questa contrapposizione 
è conseguente a sua volta a un equivoco del pensiero (e non soltanto del pensiero comune) in base al quale si 
ritiene che la vita (la vita umana intendo) sia essenzialmente altro dalla conoscenza e a essa estranea. Equivoco 
che scaturisce da una vista corta che non va al di là del proprio naso, sì che non ci si accorge che, dal letto in 
cui si dorme, dal caffè che si beve, dal tram che si prende, dal vestito che si indossa, dalla pastasciutta che si 
mangia, dalle parolacce che si pronuncia e via via fino al concetto di felicità di cui si discuteva in quel convegno, 
e infine ogni realtà concreta dell'esistenza che intesse la nostra vita quotidiana, è prodotto della conoscenza, a 
partire da quei lontani millenni avanti Cristo in cui il genere umano ha fondato la sua vita sulla faccia della terra, 
e che è grazie alla conoscenza se l'uomo ha potuto affermare la propria presenza nel mondo”. 
L'uomo comune, chiuso nei propri bisogni e desideri, soffrirebbe dunque di ignoranza e vivendo in una 
dimensione limitata, non partecipando consapevolmente dei destini dell'intera umanità, non potrebbe 
conoscere la vera felicità?
“Già. E il problema non è quello di appurare se l'umanità ha sempre sofferto di questo limite visivo e ciò per 
soddisfare una curiosità teorica; il problema è ben altro e ben più grave; esso sta nel fatto che oggi questa vista 
corta mette in forse la sopravvivenza dell'umanità stessa. Sono stata accusata di astrattezza perché facevo 
appello all'amore per la conoscenza tutt'uno con l'amore per la vita, ma nessuno ha ricordato che una formula 
matematica (quanto di più astratto si possa immaginare), può oggi far scomparire dall'universo il pianeta terra 
con tutti i bisogni cosiddetti naturali della gente cosiddetta comune”.
Possiamo dire allora che la felicità è conoscenza? 
“Possiamo dire che soltanto se ritroviamo in ciascuno di noi la consapevolezza dell’appartenenza del nostro 
singolo organismo (fisico-psichico-spirituale) all’organismo umano universale di cui ogni atto della nostra vita 
quotidiana è momento essenziale, per la sua vita o per la sua morte, soltanto allora potremo uscire dall'infelicità. 
L'infelicità che ci viene dall'aver perduto la visione della continuità della nostra storia personale nel divenire della 
storia umana, perché ciò ci fa perdere a sua volta il senso della vita quotidiana. A che scopo alzarsi ogni mattina 
per operare nel mondo, anzi per creare il mondo, se il mondo sta per finire?”

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