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Claudia Serrano Mai più così vicina Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale. Fotografia in copertina: © Mihaela Ninic / Plainpicture www.giunti.it © 2015 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia ISBN 9788809813977 Prima edizione digitale: settembre 2015 http://www.giunti.it Presentazione Il libro Mai più così vicina Da un’assolata città del Sud, Antonia, una ragazza che mette i tacchi anche per fare la spesa, arriva a Milano accarezzando il sogno di scrivere un romanzo che ha in mente da tempo. L’impatto con la città e con il suo cielo senza colore non è dei più incoraggianti, finché un’amica non la trascina a una conferenza letteraria e in poche ore tutto quello che Antonia ha pensato non conta più. Milano le regala Vittorio, un uomo molto diverso da lei: Vittorio è un editore, appartiene ai ceti alti, è disinvolto, ha due occhi magnetici e quell’aria libera e sfrontata di chi non scende a compromessi. E soprattutto ha una vita sociale che intimidisce Antonia, ma nel contempo la affascina. Il bicchiere e la sigaretta sempre in mano, chiacchiere fino all’alba di cinema e libri con amici impegnati, romantiche gite in moto lungo i tornanti mozzafiato della Liguria. Antonia si innamora follemente di lui, ma qualcosa non funziona. Vittorio è sfuggente, sparisce, riappare, si sottrae, non programma e non promette. E proprio come la ragazzina down protagonista del suo romanzo, Antonia è costretta a misurarsi con i suoi limiti e le sue paure. Ogni donna sa che cosa significa incontrare il grande amore. E ogni donna sa bene che cosa significa perderlo. Con una scrittura poetica, coinvolgente, emozionante, Mai più così vicina racconta il disperato tentativo di non mandare in pezzi il sogno più grande e più bello della vita. L’autore Claudia Serrano Claudia Serrano è nata a Bari nel 1984 ed è laureata in Filologia Moderna. Come giornalista pubblicista ha vinto alcuni premi, tra i quali il “Premio di giornalismo Franco Sorrentino” per l’inchiesta condotta sul mondo dei non vedenti nella città di Bari. Ha frequentato il corso di alta formazione in Gestione della libreria presso la Scuola Librai Italiani di Orvieto e da alcuni anni esercita la professione di libraia. Per altre notizie sull’autore: http://www.giunti.it/autori/claudia-serrano/ http://www.giunti.it/autori/claudia-serrano/ Dicono del libro: http://www.giunti.it/libri/narrativa/mai-piu-cosi-vicina/ http://www.giunti.it/libri/narrativa/mai-piu-cosi-vicina/ Altri titoli in collana: http://www.giunti.it/editori/giunti/a/ http://www.giunti.it/editori/giunti/a/ Al prof. Mario Ziccolella, mio nonno, domenica dei miei occhi. Scrivere come sai dimenticare, scrivere e dimenticare. Tenere un mondo intero sul palmo e dopo soffiare. Pierluigi Cappello 1 Trentanove. Trentanove sono i nei che ho contato sulla sua schiena. Ho conosciuto molte notti insonni al suo fianco. Lui dopo l’amore crollava, spesso non restava neanche il tempo di una carezza. Io non riuscivo a dormire. Trentanove. Si girava su un fianco, dandomi la schiena. Una schiena bianca. Iniziavo a contare. Le macchie della pelle non andavano calcolate e a volte al buio era difficile distinguerle, così mi toccava ricominciare. Trentanove. Non osavo toccarlo. Seguivo, con il dito nell’aria, a pochi centimetri dalla pelle, il profilo delle sue forme. La curva del bacino, la salita lieve della schiena, la spigolosità della spalla. Se, per sbaglio, il mio dito indugiava su un lembo di pelle, se si infilava in quella distanza tra la mia e la sua carne il desiderio di sfiorarla, mi ritraevo svelta. Si può accarezzare un uomo anche da lontano. Si può raggiungerlo, e farsi raggiungere, anche senza toccarlo. Si può perdere tutto nel momento in cui si cede alla tentazione di farlo. Si può rinunciare alla parola amore e camuffarla con un numero: trentanove. E questo è tutto quel che lui mi ha insegnato. Il mio nome è Antonia. I nomi sono importanti: quando le nomini, le cose esistono. Lo ripeteva spesso il mio professore di letteratura francese quando ci perdevamo per ore con la testa nei romanzi dell’Ottocento. «Osservate l’importanza del linguaggio nelle relazioni amorose» diceva, mentre l’ultima luce del pomeriggio filtrava dalle finestre a vasistas. «Quando Adolphe scrive a Ellénore riversa nella sua lettera tutte le sue incertezze; eppure le sue stesse parole d’amore fanno sì che egli cominci a sentire le cose che scrive. Ecco la prima legge fondamentale: il linguaggio ha il potere di creare la realtà. Una cosa detta esiste.» Qualche anno dopo sarebbe toccato a Vittorio aggiungere una tessera al mosaico, un giorno di sole sul colle Aventino, quando parlava dei libri di De Lillo e delle parti che compongono una scarpa: «Allora il padre gesuita chiede al ragazzo di guardarsi le scarpe e nominarne le parti e lui comincia a balbettare stringhe, suola, tacco, ma non riesce ad andare oltre. Al che il gesuita gli dice che non li vede, la linguetta, l’occhiello, il rinforzo, perché non conosce i loro nomi. Il senso è tutto lì: le cose restano nascoste finché non sappiamo come si chiamano.» Era quando, stordita dalla sua presenza, pensavo che quello sarebbe stato l’inizio di qualcosa che riguardasse noi. Poi, be’, poi sono rimasta solo io col mio nome, Antonia, a dovermelo ripetere per essere sicura di esistere. E in qualche modo allora, mentre gli altri si accanivano a studiare piani di recupero, «meglio non chiederle più niente», «proponiamole un viaggio», e a decifrare i miei cambiamenti «mi sembra più serena», «le è passata», ho scoperto che mi avevano detto solo una parte della storia; se è vero che le cose diventano reali quando le chiami col loro nome, è altrettanto vero il contrario: ci sono cose che si ostinano a esistere anche quando non riesci neppure a nominarle. Così, la prima mattina del mio rientro a casa da Milano, mentre entravo in cucina e trovavo la tavola apparecchiata per la colazione con la tazza capovolta, i biscotti e la spremuta d’arancia, la cosa innominabile, la “cosa”, come la chiamava Vittorio se doveva parlare di noi, era lì. Ricordo l’imbarazzo di fronte a quegli oggetti schierati ad aspettarmi, e la voce dei miei genitori nell’altra stanza che confabulavano «si è alzata». Erano entrati insieme in cucina, si erano seduti davanti a me. Io mi ero versata il tè, avevo morso un biscotto. «Erano questi quelli che ti piacevano?» «Sì, grazie.» «Papà ricordava quelli alla panna, io gli dicevo che erano questi!» «Sì, sono questi, ma andavano bene anche gli altri.» «Hai visto che tazza ti ho scelto?» «Sì, bella.» «E la tovaglia?» Avevo sorriso, avevo portato la tazza alle labbra, ma le mani tremavano. Oltre le loro figure, dietro la finestra, c’era un cielo limpido e una distesa di tetti con le antenne della TV. Mia madre si era voltata nella direzione del mio sguardo: «Ti mancavano questi colori a Milano, eh?» e io avevo chiesto a Dio di spalancare una voragine sotto la mia sedia e di essere inghiottita seduta stante, io con tutto il servizio da tè e la tovaglia ricamata e i biscotti e quegli occhi di madre in attesa. Probabilmente, semplicemente, con certe verità bisogna prendere confidenza: accettare che le ferite, certe ferite, non si rimarginano; che le cose, alcune cose, non si risolvono, e che non tutti si salvano. Ho passato le prime settimane del mio rientro a ripetere lezioni disimparate: «Il pavimento della camera da letto è a rombi, marmorizzato; l’ho sempre detestato. Il pavimento del salotto è bianco, in cucina il cotto, rosa. Quello del bagno arancio, così kitsch che gli ospiti inventano scuse per tornare in quella stanza. Alcune notti verrà il vento di tramontana a scompigliare le piante del terrazzo, sentirò i vasi spostarsi da una parte all’altra e papà si alzerà per controllare, legare, bestemmiare. Il terrazzo con i mattoncini bollenti sotto i piedi, nelle sere d’estate.» Prima diarrendermi al fatto che quanto era stato mio non mi apparteneva più. Non mi restava che infilarmi una tuta, io che mettevo i tacchi anche per fare la spesa, e andare verso il mare a guardare i passanti, a seguirli, a volte, perché i loro corpi mi davano conforto. La carne del ciccione buttato sulla spiaggia, per esempio, me la ricordo ancora, insieme al pensiero, rassicurante, di poterla toccare: se l’avessi fatto, il dito sarebbe affondato nel bianco molle, tra la ragnatela azzurrognola delle vene. Mi ero sentita sollevata. Tornando a casa sbagliavo strada, ma mi vergognavo a chiedere indicazioni nella mia stessa città. «Sono stata via» mi sarei giustificata. Ho conosciuto un uomo che cantava una canzone che diceva «l’amore mette in ginocchio». Inserivo il CD nel lettore dell’auto; bastavano le prime note a farmi sprofondare. Adesso capivo cosa voleva dire quell’uomo quando faceva l’amore con me e mormorava «ma ti rendi conto?». «Di cosa?» «Di quanto sei bella. E che moriremo.» Le macchine dietro di me suonavano il clacson: «Ci muoviamo o no?». Prima o poi riuscivo a ritrovarla, la via di casa. Ma dove vanno a finire i pezzi di noi che abbiamo ceduto per un po’ di amore? Se dai, dai, diceva la strada che si srotolava davanti alla mia Twingo di seconda mano, è un calcolo semplice, ragionevole, accettabile. Accettabile? In ogni caso, il mio nome è Antonia. E ciò è vero come il colore di queste piastrelle e tutte queste cose reali alle quali adesso dobbiamo aggrapparci. Il suo, di nome, era Vittorio. Un nome pieno, solido. A volte, la notte, lo cerco nella rubrica del telefono e lo leggo ancora e ancora, il suo nome maiuscolo. Poi spingo un tasto e torno al menù principale e al mio letto da bambina: basterà un letto a una piazza ad accogliere la mia piccola vita futura. Ma adesso divento melodrammatica. In fondo posso non esserlo: riesco a passare ore a guardare il vaso di azalee sul davanzale e la corda della tapparella che pende e non fa altro che questo, tutto il giorno: pendere dietro una finestra. Devo aver imparato a trattenere. Anche quando vorrei scardinare le cancellate del terrazzo e urlare «fatemi uscire da qui», io no, non lo faccio. Io mi preparo un tè, mi rigiro la tazza fra le mani, mi concentro sulla qualità della ceramica. Anche se capita che poi dentro quel tè ci legga quelle mail telegrafiche e assurde che Vittorio mi spediva. Da: vittorioso@gmail.com A: antonia@libero.it Oggetto: bouganvillee a Tarutao Spiagge bianchissime, natura incontaminata, popolazione indigena amichevole. Caffè imbevibile. Ciò nonostante, il resort offre ogni genere di comfort per un soggiorno di qualità. Segue supporto iconografico. Quando torno, però, andiamo a mangiare una cotoletta. Dillo anche a Dukan (e metti il tubino nero). V. E mi viene da ridere e allora, mentre rido, arrivano le lacrime. «Caro Vittorio,» gli scriverei oggi, «ricordo molti sorrisi.» 2 La moto scivolava sui tornanti della costa ligure. Ai bordi della strada i fiori esplodevano. Ne potevi sentire i profumi. Con la testa appoggiata alla schiena di Vittorio, li vedevo tremare al nostro passaggio, onde di giallo e arancio che si ripiegavano sul nero dell’asfalto. I miei pantaloni di seta si gonfiavano d’aria mentre la moto andava; pure loro avevano dei fiori disegnati e alla caviglia, larghi com’erano, sventolavano nella corsa. Le ville antiche affacciate sul golfo, inerpicate sulla roccia, si intravedevano dietro i pini marittimi. «Vorrei essere in tutte queste case» avevo detto. «Vorrei entrare in ogni soggiorno, in ogni cucina, affacciarmi a ogni finestra. Vorrei vedere questo golfo da quel balcone e da quello e da quell’altro ancora!» Vittorio aveva riso sotto il casco. «E poi… poi vorrei aprire tutte le credenze che si vedono dalla strada, toccare tutte le tazze e i servizi da caffè e bere un tè in ogni casa! Non ti sembra che lì dentro non possa che viversi una vita bellissima? Che faranno? Andranno a giocare a tennis? Faranno colazione sulla terrazza? Io me li vedo camminare scalzi su piastrelle blu oltremare…» «Blu oltremare, niente meno!» aveva scherzato lui. «Ti sembra bellissima perché non è la tua vita.» Avevo poggiato le mani sui suoi fianchi, ne avevo sentito la morbidezza sotto la maglietta. «Vittorio, pensi che sarà sempre così per me? Sarò sempre su una strada a fantasticare sulle case degli altri?» Cosa aveva risposto Vittorio? Non me lo ricordo. Forse non aveva risposto niente e io devo essermi morsa le labbra e devo essere tornata a guardare il cielo, che pareva correre azzurro insieme a noi. Ho sentito le chiavi girare nella serratura, i ricordi sono corsi a nascondersi in un angolo. Anna mi ha trovata sul divano a gambe incrociate, fazzoletti usati ovunque. Erano le sette. «Già in piedi?» ha domandato. «Più o meno.» «Forse devi ancora abituarti ai nuovi ritmi.» Ha finto di non vedere i miei occhi rossi. Lei non organizza balletti di commiserazione intorno al mio dolore, non cerca un modo per consolarmi: pulisce il pesce mentre faccio colazione, fa bollire le rape mentre immergo i biscotti nel tè. Per lei ogni cosa “è la vita”, ma come lo dice lei, sorridendo senza tristezza mentre alza le spalle. Ha cinquant’anni ed è nonna di sette nipoti. A breve, la più grande la renderà bisnonna. Dice che io sono fortunata ad aver studiato e che per tutto il resto c’è tempo; anche se ogni tanto mi chiede quando trovo un marito: «Ti conviene farlo prima dei trenta» sentenzia. «Ho portato una cosa per te» ha detto frugando nelle borse del mercato. «Per me?» «Eccolo, è il dolce di Padre Pio.» «Cosa?» «Una catena.» Ha tirato fuori un bicchiere di plastica chiuso con della carta stagnola. Ho barcollato in pigiama fino a lei. «Me l’ha dato mia cognata e adesso io lo do a te. In questo bicchiere c’è l’impasto iniziale, devi solo seguire la ricetta. Ecco il foglio, capisci la mia scrittura? Ci vogliono dieci giorni per farlo, ogni giorno devi aggiungere un ingrediente.» L’ho guardata perplessa. «Ci sono delle regole, però. Devi cominciare di domenica e devi lasciare sempre tutto fuori dal frigorifero. Alla fine, togli tre bicchieri dal composto e li regali a tre persone, per continuare la catena.» «No, aspetta, come fa a stare dieci giorni fuori dal frigo?» «Non lo so, però viene buono.» Ho dato un’occhiata al foglio con la ricetta. «Dieci giorni per un dolce?» «Alla fine, quando lo inforni, puoi esprimere un desiderio. Per questo ci vuole tempo, cosa credi?» È andata sul terrazzo, comincia sempre da lì le pulizie. Mio padre è entrato in cucina mangiando uno yogurt. Con il cucchiaino ha indicato il bicchiere che avevo in mano «Cos’è?» «Niente.» Ho chiuso il bicchiere nel freezer. Stasera sono andata a una festa di compleanno. Eravamo in un ristorante, una specie di serata al femminile. Betta mi ha chiesto di lui, a tavola. «E a Vittorio ci pensi ancora?» Ho avvertito la tensione delle altre, ho percepito il movimento delle loro gambe che si irrigidivano sotto il tavolo. Betta è l’unica che trova il coraggio di nominarlo, Vittorio; le altre pensano che per me sia meglio fingere che non sia mai esistito. Ho abbassato gli occhi, ho rigirato la forchetta nel piatto; gli spaghetti hanno obbedito, si sono arrotolati attorno ai rebbi e io sono stata lì lì per dirla. Ma era oscena, la verità. Così ho fatto un gesto con la mano, ho allontanato l’ombra. «Dicevamo?» Le altre si sono affrettate a introdurre un nuovo argomento, nella foga si sono accavallate. Ho pensato, tra poco neanche Betta mi domanderà più di lui, e allora chi lo nominerà? Poi è arrivata la torta con una candelina accesa, abbiamo cantato «tanti auguri a Betta» mentre dagli altri tavoli ci guardavano. Betta ha soffiato, noi abbiamo battuto le mani. Io ho aspettato per tutto il tempo il momento in cui sarei stata davanti allo specchio del bagno a struccarmi, a lasciare il nero dell’ombretto sull’ovatta. Quando sono rientrata a casa, invece, ho preso il bicchiere dal freezer, ho tolto la carta stagnola che lo chiudevae ho spiato: dentro c’era un composto ripugnante, di un colore simile al beige. L’ho annusato: puzzava. «Non si può rifiutare il bicchiere che si riceve.» Mi è sembrato di sentire la voce di Anna. «Perché?» «Perché è una cosa di cui prendersi cura.» Ho provato ad aprire un libro; ho cominciato a leggere con una di quelle lampadine che si aggrappano con una molla alla pagina, ma bastava spostarla appena perché facesse contatto e così la luce sembrava tremare. Sono rimasta a lungo nel buio della cucina, a sentire mio padre russare qualche stanza più in là e mia madre rimproverarlo a intervalli: «Mino!». «La tenerezza che sento» continuava la canzone di Vittorio «mi porterà via?» E allora, quel composto nel bicchiere l’ho lasciato scongelare. Poi ho preso un quaderno e una penna e ho iniziato a scrivere queste pagine. Perché? Forse perché niente è difeso, neanche un bicchiere di impasto nel freezer. 3 Milano. M, come la chiamavo io, emme: una storia che non si può raccontare per intero, un nodo non sbrogliato. Era febbraio e nevicava dentro la stazione, il giorno del mio arrivo. La tettoia a campate sui binari era danneggiata e piccoli fiocchi piovevano su uomini e valigie. La casa in affitto era al quarto piano. La sera cercavo di sintonizzare i canali della televisione, la cena sul bracciolo del divano. Mi arrendevo subito e spegnevo. Ordinavo i libri sugli scaffali, appendevo un quadro, aspettavo qualcuno che si sarebbe strofinato le scarpe sullo zerbino dietro la porta, che avrebbe posato lo sguardo sulla scaletta di legno con i cactus distribuiti sui gradini, allungato una mano sui CD. Immaginavo discorsi e serate con nuovi amici seduti al mio tavolo: le borse accatastate sulla poltrona, qualcuno che fumava alla finestra. Mi addormentavo sul divano e il mattino dopo compravo un servizio di coppe da gelato, dei bicchieri nuovi, un cavatappi. La notte, a Milano, scendeva quasi invocata. Purché finisse quel grigio, purché si avesse un cielo come quello degli altri. «Ma quale uguale a quello degli altri? Non lo vedi che è arancione?» mi avrebbe detto Gioia un giorno. «E senza una sola stella. Anzi, se ne vedi una vuol dire che il giorno dopo nevica!» Comunque, arrivava sempre l’ora dell’aperitivo. La mezz’ora di trambusto all’uscita degli uffici, i cancelli dei giardini “Indro Montanelli” che si chiudevano, le rastrelliere delle biciclette che si svuotavano. «Dove sei? Cadorna? Sto entrando in metro, arrivo!» Tacchi, rossetto, un tram, i Navigli! «Cominciate a prendere un tavolo, dieci minuti e ci siamo!» Metti guanti e cappello, i guanti, soprattutto, se devi andare in moto. Il traffico si bloccava. I locali si riempivano. «Due calici di bianco fermo, grazie» sembrava di leggere sui labiali dalle vetrine di un bar. Gruppi di amiche aspettavano davanti a un locale, poi la porta si apriva e loro si infilavano una dietro l’altra, i loro bei cappotti scomparivano insieme ai capelli profumati dello shampoo quotidiano. Gli ultimi indecisi tentennavano tra un bar e l’altro. Poi, improvviso, il silenzio totale. Le strade deserte. Restava solo il cielo notturno – sì, arancione. Tornavo a casa e abbassavo le tapparelle. Milano. Imparai espressioni come happening e apericena. Ad avere dei vestiti belli, ma mai quanto quelli degli altri. A camminare con la schiena dritta, facendo ticchettare rumorosamente gli stivali. A sorridere più di quanto fossi contenta. Perché è così che Milano ti insegna a diventare adulto, togliendoti la sedia da dietro quando hai la tentazione di accasciarti. Ma spiavo ancora i ragazzi che leggevano il giornale sportivo, desideravo ancora, sopra ogni cosa, un cestino da picnic. Poi conobbi Vittorio. Quel giorno, nella sala della conferenza, entrava una gran luce dalle finestre. Le hostess posavano bottiglie d’acqua sul tavolo dei relatori, battevano con l’indice sui microfoni; e intanto la stanza si riempiva di cappotti, profumi e strette di mano, e si svuotava di esigui gruppi di fumatori, il tempo di un’ultima sigaretta. Io ero già seduta al mio posto, arrivata con mezz’ora di anticipo, il cappotto che premeva dietro la schiena, mal piegato sulla sedia. E aspettavo Laura, l’unica persona che conoscessi a Milano, che mi aveva invitata a quel convegno sull’editoria e adesso non si presentava. Era un sabato luminoso e vuoto. Dell’acqua ristagnava in un sottovaso, sul davanzale della finestra. Nuvole passeggere coprivano e scoprivano il sole, così i raggi si infilavano nella trasparenza dell’acqua e si ritiravano, lanciavano riflessi gialli – facevano brillare i rimasugli di terra sul fondo – e se li riprendevano. Tutto si muoveva sul filo di un’attesa sottile, e quella luce mi diceva che finito il convegno avrei fatto una follia, sarei andata in via della Spiga e avrei comprato delle calze nuove, delle calze da festa. Una scarpa irruppe sul quadrato di luce che la finestra disegnava sul pavimento. Un mocassino testa di moro. Il suo sguardo, quello dell’uomo che l’indossava, cadde sulle mie gambe. Le guardai anch’io: ginocchia magre sotto calze color carne. A Milano tutti sanno che non si usano le calze color carne. Tirai maldestramente la gonna per coprire le ginocchia; quando alzai gli occhi l’uomo non c’era più. «Oh menomale che ci sei! Sono in ritardo, lo so!» Laura si fece largo nella fila col suo corpo da donnone, asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzolettino di carta «mi scusi, permesso…». Un sorriso beato le si allargò sul viso quando mi alzai ad accoglierla e lei sollevò le braccia come quando si recita il Padre Nostro e gridò «beeellaaa!» prima di abbracciarmi energicamente. Poi si accasciò sulla sedia e tutta la fila subì il contraccolpo. Dalla tasca tirò fuori un cioccolatino – ne volevo uno? – lo infilò in bocca, chiuse gli occhi. «Delizioso!» Sorrisi. «Hai visto che sole?» riprese, mentre lottava con il cappotto nel tentativo di sfilarselo. «Pensare alle previsioni che avevano dato!» «Milano fa sempre di testa sua» risposi, aiutandola a liberare il braccio da una manica. «E a Venezia c’è l’allarme acqua alta, me lo diceva il tassista. Siamo a due passi dall’alta marea, ma incolumi!» rise rumorosamente. Nella sala si diffusero i primi shhh stizziti, ci fu ancora qualche momento di trambusto. «Una giornalista senza penna, ne hai una da prestarmi?» poi calò il silenzio. Vittorio fu uno dei primi editori a intervenire. Ne seguii il tragitto dalla prima fila al microfono, sul podio dei relatori. Era giovane, piccolo di statura. Percorse quei pochi metri molleggiando appena sulle gambe, come a volersi dare uno slancio. Era l’uomo con i mocassini sul quadrato di luce. «Vittorio Solmani, un buon motivo per venire ad annoiarsi a queste conferenze!» sospirò Laura. «In che senso?» Le donne sedute davanti a noi si scambiarono gomitate. Laura portò una mano sulle labbra per nascondere la risata. La prima cosa che pensai io, invece, quando vidi quel ragazzo alzarsi e prendere la parola, fu che avrebbe fatto bene a tagliare quelle basette anni Settanta e a sfilarsi la giacca di tweed a quadri che aveva indosso. «Lo trovo così affascinante» sussurrò Laura. Bastava fingere di aver frugato in un mercatino vintage per essere attraenti a Milano? Vittorio entrò quel giorno nella mia vita accompagnato da un commento sul suo fascino, e credo di non averglielo perdonato mai. «The miles of distance away from everything would end. It would all meet.» Cominciò con questa citazione il suo intervento. Senza schiarirsi la voce. Che era bella, avvolgente, scura. «Mentre venivo qui, stamattina…» Improvvisava. I capelli erano brizzolati, fintamente scomposti; gli occhiali di osso rettangolari, come dettava la moda hipster del momento. E portava un cerchietto all’orecchio, come per dire “ho una posizione, ma non sono allineato”. In platea gli uomini erano sprofondati nelle sedie, avevano accavallato le gambe, incrociato con sufficienza le braccia sul petto. Laura prendeva appunti, accompagnava ogni parola annuendo con la testa grossa ericcia. Dov’era il trucco? Aveva poche espressioni il suo volto; apriva e chiudeva sorrisi, erano solo quelli che si muovevano sul viso abbronzato. Però lo illuminavano e questo probabilmente non era previsto. O forse sì, visto che a intervalli regolari si protendeva verso la platea, impercettibilmente, e le donne di mezza età con le labbra rifatte si aggrappavano alla sedia. Raccontò di un recente viaggio in Fiesta, «Ci incontravamo al bar della piazza, con Giovanni e Gabriele, improvvisavamo tavole rotonde a base di Malvasia.» Ci lasciò il tempo di meravigliarci che non avesse un’Audi. «Giovanni Ascolti e Gabriele Galli, i fondatori della casa editrice Marea» mi spiegò Laura nell’orecchio. «Ah.» Galleggiò il silenzio in sala, quando le sue labbra si chiusero. I secondi rimasero sospesi tra noi e lui, a mezz’aria, come sorpresi di trovarsi lì. Ma poi Vittorio si sfilò gli occhiali, sorrise, disse «grazie» e il tempo obbedì a quel sorriso e riprese a scorrere, il pubblico applaudì e i secondi, anche loro, tornarono al proprio posto, nel ticchettio degli orologi. E bravo Solmani, ma io lo trovo il trucco. Lui scosse la testa brizzolata e riccia, un gesto frivolo, ironico (rispondeva alla mia minaccia?) e intanto il sole si era spostato e il quadrato di luce sul pavimento si era allungato fino alle mie gambe. Durante il coffee break, Laura mi presentò i suoi amici. Strinsi mani, ripetei più volte il mio nome, dimenticai in un attimo quelli degli altri. Poi tutti tornarono ad ascoltarla, lasciandomi al margine del cerchio che avevano creato attorno a lei. Io stringevo sotto il braccio la pochette e mi sentivo sciocca a non averla lasciata in sala come le altre. Raggiunsi il tavolo delle bevande senza avere sete. Una ragazza gridò il nome di Vittorio dall’altra parte della stanza. Mi voltai e la vidi gettarsi fra le sue braccia. «Quanto tempo!» Lui la accolse con gentile distacco ridendo, mi parve, del suo slancio. Si avvicinarono al tavolo. «Allora, fammi sentire che combini» esordì Vittorio. Fece cenno al cameriere di non preoccuparsi, versò da sé del succo di frutta alla ragazza che aveva un piercing al naso e una frangia scura sugli occhi (avrà sì e no la mia età, valutai, ed è piuttosto brutta), e fece tintinnare i loro bicchieri in un brindisi intimo. Fuori luogo, pensai. Distolsi lo sguardo. Mi defilai il prima possibile. Ritrovai Vittorio in sala, prima che gli altri rientrassero, mentre sistemava i suoi appunti nella cartella. Gli passai accanto per tornare al mio posto, così vicino che lessi il titolo di un libro che stava rimettendo in borsa e, riconoscendolo, gli dissi: «L’ho letto e mi è piaciuto moltissimo». Sollevò lo sguardo. Dietro i grandi occhiali, due occhi di un azzurro imbarazzante. Mi affrettai a guardare altrove; recuperai l’equilibrio sull’immagine di una pelliccia abbandonata su una sedia. «Mi fa molto piacere. È uno dei nostri migliori autori, purtroppo ancora poco conosciuto in Italia.» Mi parve di riconoscere dello stupore nel suo sguardo, una specie di sorpresa infantile. Era rimasto chino sulla cartella aperta, bloccato nel gesto di rimettere a posto il volume. «Hai letto altri libri del nostro catalogo?» «I desideri.» «Accidenti, il meno venduto di sempre!» rise. Alzai le spalle. Si mise dritto, lasciando la cartella aperta, il libro ancora in mano. Dov’era l’uomo seduttivo che parlava dal podio dei relatori? Di fronte a me avevo un ragazzo, ed eravamo alti uguali. Sapevo che l’autore veniva spesso in Italia? – mi chiese. – Aveva una casa in Sicilia. Mi domandai perché mi fossi avvicinata a parlargli. Quel ragazzo non faceva che mettere le cose al loro posto: ora il tempo si ferma, ora riprende il suo corso, ora questa ragazza che non sa truccarsi e ha il fondotinta a chiazze sul viso si avvicina e mi parla. In realtà, Vittorio chiacchierava e sorrideva. Aggiunse qualcosa a proposito della felicità, io indietreggiai di fronte alla sua allegria perché mi parve che fosse una cosa dalla quale difendersi. Presto gli altri uditori cominciarono a rientrare in sala. Ora bisognava alzare la voce per farsi sentire, la mia era così bassa che continuamente Vittorio si sporgeva verso di me per farsi ripetere le frasi nell’orecchio. Così lasciai che continuasse a parlare lui, limitandomi ad annuire. «Permesso?» chiese qualcuno alle mie spalle. Prima ancora che potessi spostarmi, Vittorio mi attirò a sé e mi ritrovai a pochi centimetri dalla sua giacca di tweed. Tolse la mano dalla mia scapola: «È stato a Brooklyn» riprese il filo del discorso con disinvoltura; io invece feci un passo indietro e incrociai le braccia sul petto, e così facendo persi la presa sulla pochette. «Bene,» dissi, raccogliendola in fretta da terra «torno al mio posto.» «Allora ci salutiamo?» Vittorio si protesse gli occhi da un raggio di sole che entrava dalla finestra, un minuscolo gesto che andò a conficcarsi nella memoria. «Una splendida giornata, oggi» ammiccò tendendomi la mano. «Anche a Venezia c’è il sole, ma l’acqua sale di tre centimetri ogni mezz’ora» precisai sulla difensiva. Vittorio mi guardò con aria interrogativa, poi sfoderò un sorriso placido. «Resterò in città, allora» disse. E io, con l’acqua già alle caviglie, tornai al mio posto. «Ci hanno invitate al ristorante, a convegno concluso» sussurrò Laura. «Preferisco tornare a casa, grazie, tu vai?» «Certo, con questa giornata! Guarda che tra tutti questi bacucchi noiosi ci sarà Solmani, sicura di non voler venire?» «Ancora con questo Vittorio?» «Ma come fa a non piacerti?» Lo cercai con lo sguardo, trovai i suoi riccioli brizzolati, la barba fintamente incolta, il profilo marmoreo. «Non è il mio genere» risposi scuotendo la testa. 4 Primo giorno: versare il composto in una ciotola di vetro. Aggiungere un bicchiere di farina e un bicchiere di zucchero. NON MESCOLARE. Se Vittorio sapesse. «Il dolce di Padre Pio?» sgranerebbe gli occhi. «Sì, okay, si chiama così, forse perché c’è quel desiderio finale che si avvera, cioè, che si dovrebbe avverare, però nessuno crede davvero che…» «Non credevo esistessero ancora queste cose nel ventunesimo secolo!» Scrollerebbe la cenere della sigaretta, un sorriso ironico sulle labbra. «Un retaggio terrone,» gli risponderei, allora, stizzita «come il corredo e tutto il resto!» «Non dirmi che hai il corredo… hai il corredo?» Ma al decimo giorno, lo so, mi stupirebbe con un SMS: «Non finivi oggi il dolce?». Vittorio. Comunque, ho seguito la ricetta. Ho preso il bicchiere con l’impasto orrendo e l’ho svuotato in una coppa di vetro. Ho usato quello stesso bicchiere per aggiungere la farina e lo zucchero e non ho mescolato. Sono rimasta a guardare zucchero e farina ammonticchiati sulla massa iniziale. Che senso ha buttare delle cose sulle altre lasciandole separate? Ma forse è questo il primo errore: la fretta di mescolare, di fare di due uno. Quest’ansia di perdersi nell’altro. Vittorio non avrebbe mai commesso un simile sbaglio. «Che devi fare stamattina?» Mia madre è entrata in cucina. «Vieni con noi?» Ha preso delle bistecche dal surgelatore. «Non posso.» «Hai qualche articolo da consegnare?» «Sì.» Invece ho preso la penna per scrivere queste due stupide righe, per dire che è domenica e mentre gli altri andavano a passeggiare io ho seguito la ricetta. «L’essenziale è tenersi occupati. E ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo preparare la cena. “Merluzzo e salsicce. Credo che scrivendone si possano in qualche modo dominare le salsicce e il merluzzo”.» Lo scrisse Virginia Woolf nel suo diario; me lo ricordo perché è stata la sua ultima annotazione prima di riempirsi le tasche di sassi e lasciarsi annegare nel fiume Ouse. Venezia. Ci sono nomi che non hanno bisogno d’altro. Atterrai in tarda mattinata. La giornata era limpida e azzurra, e nell’oblò apparve tutto nitidamente: il verde petrolio della laguna, il rosso mattone dei tetti, le forme sinuose delle isole; e al centro, come una regina, l’ansa del Canal Grande che brillava. Peril tempo in cui sorvolammo la città, tenni la mano incollata al finestrino. La letteratura sommersa era il nome del convegno che Laura mi aveva rifilato adducendo una scusa, e io mi ero affrettata a comprare un tubino nuovo e a tagliare i capelli, così i ricci ora erano alti e solo due ciuffi più lunghi sfioravano il collo. Il piumino, invece, me l’ero fatto prestare, e sulla cima della scaletta, lasciato alle spalle l’arrivederci della hostess, ballavo in quelle due taglie in più. In tasca, però, stringevo il dépliant dell’albergo: cinque stelle, affacciato sulla laguna e con un punto d’attracco privato con fioriere di petunie rosa. Presa dall’entusiasmo, avevo messo in valigia dei vestiti troppo eleganti. Durante le conferenze mi distraevo sulle camicie sobrie degli altri, sui dolcevita a tinta unita. Chiudevo con vergogna il cappotto sui miei abiti. Invidiavo gli occhiali seriosi di Gioia, la ragazza che seguiva con me il convegno, la semplicità con cui parlava degli autori contemporanei, il fatto che si piacesse struccata. Io, invece, non facevo che riempirmi le tasche della carta da lettere dell’albergo, e al mattino gareggiavo con un ospite napoletano, le macchie di dentifricio ancora sulle labbra, per occupare il tavolo della colazione con vista sulla laguna. Correvo per le scale, la gonna si sollevava appena, e con gran classe superavo tutti e mi sedevo al tavolo. Da lì si vedeva il sole sorgere su San Giorgio Maggiore e la chiesa che diventava una sagoma grigio fumo su un fondale arancio. Dovevano essere le sette. Le prue delle gondole ormeggiate erano bagnate di luce, le increspature dell’acqua brillavano. Io guardavo con la tazza fra le mani. Il tè, puntualmente, si raffreddava. Si chiamava Oliviero Mari, l’organizzatore del convegno, ed era alto, altissimo. Nelle fotografie di Palazzo Cini spuntava ovunque: un pennacchio sullo sfondo della laguna. La sera, durante le cene offerte dagli editori, si accapigliava con tutti sul ruolo delle case editrici. Il risotto al radicchio fumava sulle forchette a mezz’aria: cerchi di fumo si disegnavano mentre gesticolava con la posata in mano. Solo il liquore conclusivo portava la pace e nei baicoli inzuppati si spegneva ogni questione di principio. Dopo cena filavamo via dai ristoranti e rimanevamo solo io, Gioia e un ragazzo di nome Marco – portava una giacca a vento rossa e una grossa macchina fotografica al collo (Silvia pensava che assomigliasse a un pesce rosso). Ci lasciavamo alle spalle il caffè Florian e la sua orchestra, piazza San Marco, i portici come grotte magiche e ci dicevamo che quei giorni non li avremmo dimenticati mai. Gioia intanto si invaghiva di un giovane professore di latino che si ostinava a presentarsi al convegno con una maglia di pile. Marco mi chiedeva di fare una fotografia con lui. Ci mettemmo in posa sulla banchina dell’isola di San Giorgio Maggiore, quando gli dissi sì. Dio, se era più alto di me! «Volevo fare una foto con il sorriso più dolce del convegno» disse, mentre scattava il flash. Venni come una nanetta persa nel suo piumino nero, la sciarpa bianca arrotolata a casaccio attorno al collo e le ginocchia strette per l’imbarazzo. È un rumore quello che viene dall’altra stanza? Sollevo la penna, vado a controllare. In cucina l’impasto riposa al buio. Ingredienti rigorosamente separati – Vittorio allargherebbe le braccia compiaciuto. Io, invece, vorrei ancora alzare il dito per chiedere parola, «ma perché non mescolare?». Una volta, per telefono, Vittorio mi ha detto: «Non ti ho insegnato proprio niente, allora?». Ci penso spesso, tutte le volte che cado nella stessa tentazione di fusione, di dono totale. Penso al modo in cui concluse quella telefonata: «Ognuno è rimasto con i suoi difetti, a quanto pare». Ricordo il pezzo di parete che i miei occhi fissarono dopo la sua affermazione. Ebbi la sensazione che fosse quel pezzo di parete a fissare me, sgomento; sollevato, forse, di essere solo un ammasso di mattoni e intonaco. Intanto anche il soggiorno sta diventando buio, mentre in lontananza un cielo rosa sfiora la striscia di mare che questa finestra concede. Aspetto ancora un po’ prima di accendere la luce e riprendere a scrivere. In questa penombra ogni cosa è sospesa: i battellieri che mi tendevano la mano dicendo «prego, madame», il «ciao ciao bambina» di una fisarmonica su una gondola di sposi e un gruppetto di americani che gridava «ehi, ehi!» per attirare la loro attenzione. E io che Venezia non l’avevo mai vista e dal vaporetto vidi brillare nell’acqua un piccolo oggetto rettangolare: se ne stava per metà a mollo e per metà sommerso, aveva il colore e la superficie aggrinzita di un foglio d’alluminio. Doveva essere leggero, perché quando levammo gli ormeggi la nostra fiancata lo sfiorò appena e quello girò su se stesso un paio di volte: rifletté più intensamente un raggio di sole, fu come un breve lampo, poi si perse nella nostra scia. L’ultima sera fu l’editrice Elsa Carraro a invitarci a cena. Palazzo Carraro era nel sestiere di Cannaregio. Dietro i finestrini del vaporetto sfilavano la facciata della chiesa degli Scalzi, il Ponte delle guglie, la Fondamenta dei mori. I canali erano pozze scure. Quando si aprì il portone, ci trovammo di fronte una larga scalinata in marmo. Alle pareti dell’androne erano appese antiche cartografie di Venezia. «Il canale in rosso, vedete,» indicò sulla carta Oliviero Mari «doveva deviare dalla laguna le acque dei fiumi Sile, Muson… Comunque, il pezzo forte è più avanti, sono del primo Ottocento.» «Cosa?» «Le due gondole nelle rientranze laterali. Affrettiamoci, così entriamo tutti insieme». Per lo stupore inciampai nel gradino. Qualcuno ridacchiò alle mie spalle. Al nostro arrivo c’era già un centinaio di invitati e un servizio di catering confusionario. Gli ospiti erano illustri e affamati. Finita la battaglia per il cibo, si riunivano in capannelli coi bicchieri di vino in mano, paonazzi, cercando di sovrastare gli altri con toni più alti del dovuto. Una cantante slava di mezza età intonava improbabili nenie accompagnata da un’arpa. Aveva un seno enorme e molti occhi puntati addosso. «Mai vista una casa con tanti libri» sospirava intanto Gioia, indicando le librerie che correvano lungo le pareti e le scale. In un angolo un uomo sulla quarantina accese lo stereo e cominciò a molleggiarsi con gli occhi chiusi. Era grosso e agile, quando aprì gli occhi scoprì un verde limpido e spento. «È Damiano Certi» mi informò Gioia. «Ha una casa editrice indipendente.» Di lì a breve in molti lo circondarono ballando scomposti con i bicchieri in mano. «Oh mio Dio!» risi. «Sono più vecchi dei miei genitori!» Fu allora che qualcuno mi prese per il gomito. «Signorina…» Sobbalzai. Era un uomo sottile e alto. Indossava spessi occhiali neri, ovali, che deturpavano i lineamenti del viso. Mi indicò una porta: «Ha già visto la stanza più interessante della casa?». Era tappezzata di quadri di nudi, quella camera: scene di autoerotismo, di sadismo, nudità avvilenti di anziani. Le linee spigolose, il tratto nervoso e un colore nero che colava sulla tela. Al centro della parete, un uomo e una donna, frontali. Nudi, l’uno con la mano sul sesso dell’altro e lo sguardo morbosamente fisso sullo spettatore, come se lo stessero invitando a partecipare. Con stupore riconobbi nella donna del quadro la padrona di casa. «Prego, da questa parte.» L’uomo si diresse verso il balconcino, io lo seguii. «Vede quella palazzina con la trifora piena di fiori? È la casa del Tintoretto.» «Davvero?» Si accese una sigaretta, due uomini passarono chiacchierando sotto il balcone. «Ogni volta che Elsa mi invita a cena vengo qui, a spiare quel palazzo. Ah, quella del Tintoretto, una pittura furiosa…» Fissai anch’io gli occhi su quella trifora lontana, il pensiero ancora al nudo della Carraro. E l’uomo del quadro chi era? «Mi perdoni, deformazione professionale» aggiunse subito dopo, lisciandosi i capelli. «Curo la collana di storia dell’arte delle edizioni P.» Mi tese la mano, disseil suo nome. «Perché furiosa, la pittura del Tintoretto?» chiesi. «Non è facile cercare il divino nell’umano, no?» replicò; poi si voltò verso di me, il suo sguardo sembrò penetrarmi. Incrociai le braccia per nascondere il seno. «E lei, cosa cerca?» «Non credo di saperlo.» Sentii la mia voce uscire stridula. «Quando ero giovane passavo interi pomeriggi in un caffè di campo San Barnaba con i miei amici» indicò un punto lontano da qualche parte della città. «Interi pomeriggi a scambiarci libri di storia dell’arte, a progettare grandi cose, uno con la passione per la scultura, un altro per l’architettura. Vivevamo trascinati dalle nostre utopie…» Io pensai alla mia adolescenza, alle vasche in via Sparano. Ai ragazzini dei quartieri popolari che sotto carnevale ci riempivano dalla testa ai piedi di schiuma bianca, senza che potessimo dire una parola. Forse fu per questo che quando mi chiese «Ha una passione?» risposi «La scrittura» e quando domandò ancora «La scrittura… accidenti. Poesia? Racconti?» io confidai «Sto scrivendo un romanzo.» E gli dissi il titolo, Il mandorlo perfetto, e il nome della protagonista, Silvia, con il viso bollente per la vergogna perché non l’avevo rivelato mai a nessuno. L’uomo adesso mi fissava con una specie di adorazione negli occhi, mentre io balbettavo perché stessi scrivendo quella storia e lui mi domandava: «Ci crede davvero a quel messaggio finale?». Si avvicinò, mi allontanai. Intravidi degli ospiti passare nel corridoio, cercai un appiglio per rientrare. Tuttavia, non lo feci. È che io, quella notte, dovevo parlare. Perché quella notte Venezia era uno specchio delle fiabe, di quelli che scegli chi essere e per incanto lo sei; perché ero in quel palazzo magnifico, tra persone che mi sembravano eccezionali e non importava in quale senso: loro erano splendenti. Perché quella notte non ero altro che una nave che ha sciolto gli ormeggi e, preso il largo, finalmente tutt’intorno la bagna il suo elemento: c’è solo acqua, acqua che non chiede, acqua che non guarda; casa è lontana e allora si può essere quel che si vuole, forse quel che si è. «Hai l’occhio sinistro malinconico» disse passando al tu. «Guarda» mi scostò un ciuffo di capelli dalla fronte «questo destro è più piccolo, più diffidente, più attento. È incredibile la differenza: il destro guarda, il sinistro sogna. Sì, senza dubbio sogna.» Cominciai a sudare. «Non ti vergognare, sono belli entrambi, ma stai attenta a quello sinistro, perché è un canto di sirena.» «Peggio per gli altri» risi con finta disinvoltura. «Non ne sono convinto.» «È che mi sento divisa in due, sempre» gli confessai allora. Mi lanciò uno sguardo soddisfatto, da animale che ha stanato la preda. «Divisa in due? Forse sei una ma tenti disperatamente di essere un’altra. Oppure…» «Oppure?» «Oppure sei un po’ schizofrenica!» Fu la violenza di quella parola, l’oscenità della risata che l’accompagnò a svegliarmi. «È tardi, abbiamo il vaporetto prenotato per quest’ora, gli altri staranno andando via senza di me.» Rientrai in casa. Lo congedai. Lui mi seguì lungo il corridoio, cercò di fermarmi. Arrivò fin dentro il guardaroba. «Permesso» dissi con la voce che tremava. Mi cercò la mano, la sciolsi dalla presa. Mi diede un bacio umido sulla guancia – pensai a una lumaca. Mi porse un biglietto da visita. «Se stanotte ne hai voglia, chiamami. Passeggiamo per Venezia.» «Buonanotte.» «Perché scappi? Sembri la piccola Lilì! Calmati! Dove scappi, petite Lilì?» rise. «Non so chi sia la piccola Lilì!» confessai tra i denti mentre uscivo da Palazzo Carraro. E chi fosse l’avrei scoperto molto, molto più tardi. Sulla banchina mi imbattei in Gioia. «Antonia! Eccoti finalmente! Non ti trovavo, il vaporetto è partito senza di noi!» Le raccontai in fretta e furia, continuando a chiedere scusa. «Tranquillizzati, ci sono loro: ci danno un passaggio con il motoscafo, dormono nel nostro stesso albergo.» Salii a bordo. Chi fossero loro non mi interessava, avevo solo voglia di tornare nella mia camera e dimenticare la vergogna che provavo per me stessa. Ma me ne accorsi non appena ci sedemmo dentro: sollevai gli occhi e di fronte a me, eccolo, Vittorio. 5 Secondo giorno. Mi sono sorpresa quando sono entrata in cucina e ho trovato la coppa con l’impasto; me n’ero quasi dimenticata. «Hai cominciato!» ha detto Anna soddisfatta, poi ha ripreso a stirare il mio vestito. Mi hanno invitata a teatro. Un ragazzo, che fa l’attore, ha promesso che dopo lo spettacolo mi farà entrare nei camerini. Bisogna andare avanti, accettare ogni invito, lasciarsi corteggiare. Farsi fare promesse, fingere di crederci. Sedurre per sentirsi qualcosa di più che fantasmi. «Fai bene a uscire» ha commentato Anna, accanendosi su una piega. «Già.» Mi verrà a prendere impalato in un cappotto elegante, già lo vedo. Mi offrirà da bere nel foyer. Io mangerò e berrò, allontanando e avvicinando le ginocchia sotto il tavolino, come una bambina, mentre lui si alzerà ogni minuto a salutare qualcuno. Durante lo spettacolo si volterà spesso a guardarmi, valuterà il mio livello di divertimento – anche lui. Tenterà un approccio posandomi appena la mano sul braccio, io sposterò il mio. «Ecco qui» Anna mi ha mostrato compiaciuta il risultato del suo lavoro. Mi farò portare dietro il palco, su per le scale tappezzate di manifesti di vecchi spettacoli. Mi mostrerò esaltata dalla conoscenza degli attori, saprò dire «complimenti» stringendo le loro mani. «Te lo appendo fuori dall’armadio così non si sgualcisce.» Risaliremo in macchina, lui mi chiederà «facciamo un giro?» e io dirò «grazie, ma sono stanca, è tardi». Aggiungerò un «sono stata bene» sotto casa quando lui, spento il motore, si metterà su un fianco, al posto di guida, e mi accarezzerà il cappotto; scapperò dalla macchina, armeggerò con le chiavi del portone, nell’ascensore non mi guarderò allo specchio. «No, mettilo pure nell’armadio. Ci penso io poi.» La verità, Anna, è che non posso. Perché Vittorio si è portato via anche la gioia di andare a teatro, di comprare un vestito, di mettere lo smalto; e vorrei, ma proprio non so come perdonarlo per il fatto che mi venga il vomito al solo pensiero di entrare in una macchina che non sia la sua, col lettore CD che andava a singhiozzi e i libri incastrati nel portaoggetti… «Seguiamo la ricetta?» Secondo giorno. Mescolare l’impasto e coprire con carta stagnola. Mescolare. Mescolare. Mescolare. (No, Vittorio, non mi hai insegnato niente.) Benché il composto fosse piuttosto solido, il cucchiaio di legno, girando, ha formato dei cerchi concentrici: i cerchi del tronco di un albero. Gioia aveva appena detto a me e al professore di latino «non trovate bellissima la corteccia di quest’albero?». Era metà pomeriggio, eravamo nel parco del Palazzo dei congressi, sull’isola di San Giorgio Maggiore. C’era ancora luce, ma era una luce sottile, di quelle che cominciano a cadere oblique allungando le ombre. Sì, quella corteccia era bellissima, e io guardavo Gioia con riconoscenza, perché aveva visto quel tronco, perché me l’aveva fatto vedere. Squillò il telefono, mi allontanai per rispondere. «Sì, Laura, va tutto benissimo». Seguii il viale, arrivai all’argine. Conclusa la telefonata, mi fermai a guardare. C’era pace, c’era silenzio, c’era il languore di Venezia in ogni cosa. In lontananza, Marco, sdraiato sull’erba a pancia in su, scattava fotografie. A cosa? A cose che solo lui poteva vedere. Era l’ultimo giorno. Eccola Venezia, quella città da poster che mostrava solo le sue facciate, come se non ci fosse tridimensionalità. Eppure io ero entrata nei suoi portoni, nei suoi alberghi, nei suoi palazzi. Finalmente c’era stato qualcosa che non fosse solo da guardare. «Allora, che ne pensi di questi giorni?» Vittorio non era tipo da chiedere se disturbava piombandoti alle spalle in un parco. Indossava una camicia bianca e un completo nero. Era elegante e straordinariamente sorridente. «Sono stati molto belli. Strani ma belli» Mi guardai attorno, dov’era Gioia? «Non è venuto al convegnoil tuo collega?» improvvisai. «Damiano? Non so, anche lui sarà stato “sommerso”.» «Dall’alcol di ieri sera, forse.» Quanto era largo il suo sorriso? La sera prima, in motoscafo, non ci eravamo rivolti parola. Se anche mi aveva riconosciuta, non aveva fatto nulla per darlo a vedere. E poi era piuttosto ubriaco. Era seduto accanto a Damiano Certi, parlottavano. A un certo punto della corsa il motoscafo si era fermato. Il pilota aveva provato a riaccendere il motore, ma gli aveva risposto un brontolio poco confortante. Eravamo rimasti zitti, in apprensione, la laguna più silenziosa di noi. «Tacagà!» aveva sbottato a un certo punto il nostro conducente e si era accasciato sul sedile. Vittorio si era alzato: faticava a mantenersi in equilibrio. «Bene» aveva detto. «Questo ci dice tutto sulla situazione in cui siamo, editori, ricercatori e giornalisti!» «Be’, quanto meno siamo tutti sulla stessa barca!» si era inserito Damiano. Ci avevano intrattenuto con queste scenette fino a quando un altro motoscafo non era venuto a trasbordarci. Il secondo viaggio era stato più silenzioso: Damiano dormiva stordito dall’alcol, Vittorio sedeva di fronte a me. Il motoscafo correva all’impazzata per la laguna. «Neanche Lara Croft!» avevo commentato con Gioia. Avevamo riso. Vittorio aveva alzato lo sguardo su di noi, l’avevo guardato dritto in faccia. Estratto dalla tasca un cappellino di lana nera, se l’era infilato reggendo lo sguardo; aveva sopracciglia folte, brizzolate, delle borse sotto gli occhi che erano diventati di un celeste grigio. Ero stata io ad abbassare i miei. «È proprio così evidente che siamo una banda di sciamannati?» mi chiese nel parco del Palazzo dei congressi. Sciamannati, registrai. Rendeva bene. «La verità?» «Certo.» «Mai visti tanti matti insieme!» Mi morsi la lingua. Ma Vittorio rise di gusto. Mi chiese «perché?» e non mi lasciò in pace finché non si sentì soddisfatto della risposta. Mentre io inciampavo nelle parole, i suoi occhi andavano sui miei, sull’uno, poi sull’altro, scendevano sulle labbra, secondo uno schema triangolare. O era il naso che guardava? Me lo coprii con una mano, un attimo, il mio naso troppo lungo, mi morsi le labbra. Vittorio mi distolse. «Quindi sei una giornalista?» «Ma non voglio fare la giornalista.» «Perché?» «Perché il giorno dopo i giornali sono carta straccia.» Sollevai gli occhi su di lui per constatare l’effetto delle mie parole. Vittorio si accese una sigaretta senza una sola smorfia. «Dovresti leggere Canzone di fine estate, sono sicuro che ti piacerebbe. È un libro che abbiamo pubblicato l’anno scorso. È la storia di un professore in pensione. Un giorno…» Vittorio parlava e io entravo nel suo cerchio. Calamitata dai suoi gesti, dal modo di scuotere la testa quando il discorso si faceva intenso, dalla macchia sulla pelle che aveva sotto l’occhio destro; dalle labbra carnose che non volevo guardare e invece guardavo. In capo a pochi minuti un sorriso idiota si impose sul mio viso. «Allora sei a Milano, per ora» disse all’improvviso. «Sì.» Spostai un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, incrociai le gambe. «Come ti chiami?» «Antonia.» «Antonia» ripeté. Una gioia infantile si posò sulle sue labbra. La luce nel parco si faceva più arrendevole. Vittorio guardò l’orologio, aspirò un’ultima boccata dalla sigaretta appena accesa e la gettò in acqua. Provai un vago disappunto per la noncuranza del suo gesto. «Fa freddo» disse sfregandosi le braccia. «Torniamo in sala?» Camminò precedendomi, così vidi che nella tasca posteriore aveva il giornale arrotolato che fuoriusciva di un pezzo. «Niente meno che col playboy della compagnia» commentò Marco, vedendoci rientrare insieme. «Ti facevo più originale.» A convegno finito facemmo una fotografia di gruppo. Mentre ci invitavano a guardare nell’obiettivo, colsi in flagrante Vittorio che, dall’altra parte della sala, mi indicava a un amico. Si avvicinò ancora. «Devo rientrare con gli altri a Milano» mi ritrassi per gioco. Mi passò il suo biglietto da visita. «Scrivimi, raccontami, se ti va.» Molto tempo dopo, una notte, nel suo letto, gli avrei domandato di quel giorno. «Ti ricordi?» «No.» «Ma come no?» «Ci hanno presentato.» «Non ci hanno presentato! Sei un testone!» Gli avrei dato un bacio sulla fronte, ma mi sarei avvolta il corpo nudo tra le lenzuola. Tu mi hai fermato, tu hai attaccato bottone. E mi hai anche indicato al tuo amico. Ti ricordi almeno perché?» «Boh, avrò pensato che eri carina.» «Mmm.» «Sì, ho pensato “è carina”. Dormiamo?» e avrebbe chiuso gli occhi senza aspettare una risposta. 6 Milano di domenica. Le maratone ecologiche, il blocco del traffico, quartieri addormentati. Marciapiedi come trampolini vuoti: dove lanciarsi la domenica mattina? «Come è bella Milano senza auto!» dicevano alla radio. La spensi. Rimase il rumore delle pentole impilate l’una dentro l’altra, che cercavo di separare, inginocchiata sulle caviglie, la testa nel mobiletto della cucina. Nella mia città la mia famiglia doveva aver già finito di pranzare. Potevo vedere mamma sparecchiare la tavola, lo zio difendere il bicchiere: «Ma che fretta del diavolo avete?». Certamente papà aveva già preso la strada per il divano, nonno accendeva il fuoco sotto il caffè. Nonna, con pochi cenni, dirigeva le operazioni. Intanto io aggiungevo sale all’acqua di cottura e guardavo oltre la finestra: c’era la vicina affacciata, le feci un cenno con la mano per salutarla, forse non capì che era per lei, non rispose. Accesi il computer, lo sistemai accanto alla tovaglietta. Ora si saranno divisi, immaginavo: gli uomini in soggiorno, a sonnecchiare davanti alla TV in attesa della partita, mamma e nonna, sedute sul divano del salotto, avranno preso tra le mani il lavoro a maglia. Mia zia starà ancora spazzando in cucina. «Ida vieni, abbiamo già pulito, il resto lo farà domani Caterina!» le starà gridando la nonna. Ma Ida deve passare il panno tra i fornelli, deve eliminare le incrostazioni, deve farli brillare. Poi si accenderà una sigaretta e la fumerà affacciata alla finestra. Eccola: i ricci rossi appena mossi dal vento mentre aspira e soffia via il fumo, i suoi occhi che guardano la strada deserta della domenica pomeriggio. So che i suoi pensieri volano in quel momento. Se fossi lì, immaginavo, mi metterei accanto a lei, e sì che farebbero un rumore assordante i nostri pensieri messi insieme. Una voce la chiamerà ancora, un’ultima fantasia di libertà la farà sorridere appena, prima di tornare in salotto. Da ragazzina, quando accompagnava nonna a fare spese, si toglieva le scarpe per strada: ne abbandonava prima una, qualche isolato dopo l’altra. Mia nonna se ne accorgeva solo quando erano tornate a casa e doveva attraversare di nuovo tutta la città per ritrovarle. Per quanto poi si cresca, certe cose non si disimparano mai. Cominciai a navigare senza criterio in Internet. Digitai “Vittorio Solmani”, cancellai ancor prima di premere INVIO. Avrei potuto usare il suo bigliettino, scrivergli una mail. Come l’aveva definito Marco? Il dongiovanni del convegno. O aveva detto proprio playboy? Allontanai il computer. Dopo pranzo mi sdraiai sul divano con un libro, sprofondata nel silenzio. Ecco, questo non sarebbe stato possibile a casa mia. Forse perciò mentre leggevo mi sembrava di respirare a pieni polmoni e si faceva più sfocata l’immagine del gomitolo di lana che mamma certamente aveva fatto cadere vicino ai piedi – lana grossa, arancio, questa volta riuscirà a finire il maglione prima che cambi stagione? – delle chiacchiere sulle ultime ricette trovate sul giornale… Quante volte mi ero assopita ascoltandole? Poi le urla dall’altra stanza mi svegliavano senza riguardo: «Gol!» o più spesso imprecazioni per un calcio di rigore sbagliato. Eccolo, il senso di malessere, proprio nello stomaco. Mi chiudevo nello studio di mio nonno, aprivo i suoi libri antichi. Ma proprio quando una frase letta pareva accendere una luce nella mente e la stanza intera al confronto diventava un’immagine sfocata, un ultimo insultotrovava la strada nonostante la porta chiusa. «Arbitro di merda! Venduto!» Una sedia veniva sbattuta, una manata cadeva rabbiosa sul tavolo; e dal salotto nessuna reazione, si continuava a lavorare a maglia e chiacchierare. Chiudevo il libro e sognavo di scappare dove la vita non avesse il sottofondo avvilente di una cronaca calcistica. Da: antonia@libero.it A: vittorioso@gmail.com Oggetto: fermata XXIV maggio Ciao Vittorio, non so se ti ricordi di me. Ci siamo parlati sull’isola di San Giorgio Maggiore, mi hai consigliato Canzone di fine estate. Volevo dirti che l’ho comprato quel giorno stesso. Poi ho preso l’ultimo vaporetto, sono salita sul treno, Venezia è scomparsa. Avevo una strana sensazione, come di fine di qualcosa e di inizio di qualcos’altro. Se l’hai mai provato, sai che non è doloroso: gli inizi finiscono sempre per avere la meglio. Comunque, il libro l’ho divorato sul treno per Milano, senza riuscire ad alzare gli occhi un attimo, e poi sulla metro, con il trolley che si rovesciava continuamente sulle gambe degli altri passeggeri, e poi ancora sul tram che mi portava a casa… ero così presa che quando ho sentito una voce dire «capolinea» mi sono resa conto che casa era ormai molte fermate fa. È che parlava di Venezia, quel libro, anche se era Amsterdam. E di me che ero andata via, anche se si chiamava Farrow ed era un professore con la prostatite, il protagonista. “Bene, sei andato via. Di che ti meravigli? È la perdita l’essenza della vita» disse Bill sotto il suo cappellaccio. Intanto ad Amsterdam la neve si era sciolta del tutto, era aprile e qualcuno stava arrivando in stazione con una grande valigia. Un fascio di luce entrava in quella che fu la mia stanza.” E allora è diventato tutto più leggero, persino Milano, di notte, alla fermata sbagliata, con un trolley sempre più pesante, una calza smagliata, anche, e una fame da lupi. Che stupore. Perciò, insomma, grazie. Antonia («quella» del seminario di Venezia) Mentre premevo il tasto INVIO pensai: In fondo, cosa può succedere? Il mandorlo perfetto ALLEGRE PER NON SO QUALE DOLCEZZA Il paese di San F. aveva il sole in fronte quando Silvia lo attraversava, a tarda mattinata. Lungo le strade, grandi reti da pesca erano distese ad asciugare su sedie di plastica. Una chitarra nella testa di Silvia suonava qualcosa di allegro, i piedi scivolavano ora a destra ora a sinistra, come in un tango. La strada per la spiaggia scendeva ripida. Le pietre sconnesse della pavimentazione facevano sobbalzare sul sellino della bicicletta Franco il postino, che superava Silvia in picchiate sgraziate e punteggiava la mattina di «ohi», «ahi», e conti alla rovescia per la pensione. A Silvia, invece, quelle pietre sembravano ammorbidirsi sotto i suoi passi. «Prego signorina, dove la portiamo oggi?» le chiedevano, e i balconi, con le loro cascate di gerani, rispondevano: «Silvia va in spiaggia ogni mattina, quando lo imparerete?». Nella testa cominciava a suonare un flauto. La bicicletta appoggiata al muro interveniva: «Posso avere l’onore di accompagnarla io, signorina Silvia?». Lei faceva un inchino e proseguiva. Sull’uscio delle macellerie i bambini si dondolavano appesi ai fili delle tende – non le toglievano gli occhi di dosso. I polli al girarrosto sembravano ruotare al ritmo della musica. Al bar, che era anche tabacchino, giornalaio e rivenditore di shampoo, cotton fioc e cartoline ingiallite, i vecchi erano riuniti attorno al tavolo della briscola. «Buongiorno! Buongiorno! Buongiorno!» salutava Silvia. Loro sollevavano la testa dalle carte – sospendevano i battibecchi – e le strizzavano l’occhio. Allora nella testa arrivavano le maracas a dare il ritmo ed era tutto un concerto fino al mare. Avvicinandosi alla spiaggia si moltiplicavano i dadi di cemento nudo: erano le case in costruzione da anni, fatte erigere da qualche imprenditore improvvisato dell’entroterra e sequestrate dall’autorità giudiziaria; dimenticate lì, mentre i soldi venivano meglio spesi per un parcheggio che si riempisse il tempo della stagione estiva, con un trenino azzurro che portava ai lidi. Così restavano le case a San F. come bocche sdentate, con le finestre senza vetri affacciate sul mare. La casa rosa pastello però era bella, scalcinata e odorosa di salsedine, l’ultima del paese e già tutta protesa verso la spiaggia. Un cactus immenso ne occupava metà facciata, pareva una scultura di candelabri tenuti in equilibrio l’uno sull’altro, e in confronto erano minuscole le persiane verdi alle quali Silvia ogni mattina bussava. Tre volte. Raccoglieva le girandole lasciate sui gradini, le conficcava nelle fioriere del davanzale, ci soffiava su con tutto il fiato che aveva, fino a quando non si decidevano a girare. Allora poggiava la bocca negli interstizi della persiana e gridava: «Motori accesi, signor Amilcare! Pronti a salpare!». Sentiva i passi strascicati del vecchio dietro la porta – odore di caffè? – poi la domanda di rito, pronunciata con la voce rauca della vecchiaia: «Com’è la giornata lì fuori, capitano Silvia?». Silvia fingeva di guardarsi attorno, valutava la limpidezza del cielo, la direzione del vento con l’indice bagnato di saliva: «Bella come l’Americaaa!» gridava, e riprendeva la sua corsa verso il mare, con i violini e le maracas e persino una tromba a suonare e, dietro, la risata del vecchio Amilcare e le girandole del suo davanzale a ruotare impazzite. 7 Da: vittorioso@gmail.com A: antonia@libero.it Oggetto: R: fermata XXIV maggio Antonia, proprio «quella» Antonia! È una splendida sorpresa. Sono contento: che il libro ti sia piaciuto, che tu mi abbia scritto, che il buon vecchio Farrow abbia lenito la tua nostalgia. Non capita spesso di incontrare persone capaci di stupirsi e di comunicare lo stupore con la tua immediatezza. Ma questo l’avevo intuito già mentre parlavamo a Venezia e io alla prima impressione non sbaglio (quasi) mai. Se ti fa piacere ti regalo qualche libro dei nostri, sempre che poi non abbia conseguenze sulla tua mobilità ferrotranviaria. A proposito, vicino alla fermata di piazza XXIV Maggio c’è una trattoria fantastica, se hai ancora un po’ di quella fame da lupi potremmo andarci insieme, così mi farei perdonare per le tue disavventure (ancora non riesco a decidermi se nel tuo «perciò grazie» ci sia dell’ironia…). Potrei persino insegnarti a non far cadere il trolley sui piedi degli altri nella metro – è un tipo di asana che richiede molta disciplina, in effetti. Fammi sapere per la cena, se ti va. Un bacio, V. P.S. Se qualcuno deve all’altro ore di stupore, quello sono io, a te. Al planetario c’era una conferenza notturna su amori e costellazioni. «Euridice, Andromeda e le altre: l’amore eterno raccontato dalle costellazioni.» Eravamo una trentina di persone, dietro l’alta cancellata dei giardini. I ghirigori in ferro battuto sul verde scuro della notte. Avanzammo in silenzio quando il custode sciolse il catenaccio, formando una fila composta sul viale. Un cono di luce scendeva dal lampione sulla ghiaia, facendola brillare di un bianco così bello che mi piegai a raccoglierla, come fosse fatta di conchiglie. Gli uccelli notturni cantavano. Noi aprivamo e chiudevamo le clip delle nostre borse, e già spiavamo il cielo, impazienti. Il suono impercettibile di una fontanella che sgocciolava nel parco. «Cinque minuti» disse una guardia. Una bambina sollevò lo sguardo verso il nonno, lui le strizzò l’occhio; la bambina gli prese la mano e si mise ad aspettare. Quella notte al planetario imparammo che la parola desiderio deriva da de e sidera (stelle), e che i desideri sono qualcosa di irraggiungibile, come le stelle; però quando le stelle cadono sembra che si facciano più vicine a noi, e allora anche i desideri ci vengono incontro. È per questo che si crede che le stelle cadenti li esaudiscano. Imparammo molto altro ancora, che oggi abbiamo dimenticato. Ma la verità è che quando prendemmo posto all’interno del planetario e si spensero tutte le luci e rimase solo il cielo pieno di stelle su di noi, quante non immaginavamoneanche potessero entrarci, perdemmo tutto in una volta il respiro, la percezione delle cose, dove eravamo. «Cristo santo» disse solo Gioia, e io la rimproverai di aver rotto il silenzio. All’uscita brancolammo stordite. Cercando un tram per tornare a casa non riuscimmo a dire una parola che non fosse “bellissimo”. «Sai cosa desidero io?» farfugliò Gioia. «Un uomo con cui andare al planetario. Che capisca.» «Già» risposi, ma forse Gioia era già scesa alla sua fermata e sul tram eravamo rimasti soltanto io, l’autista e il mattino che si faceva strada. Vittorio Solmani inorridirebbe alla sola idea, pensai, ma non lo dissi. Da: antonia@libero.it A: vittorioso@gmail.com Oggetto: stazione Genova Ciao Vittorio, spero non ti dispiaccia se ho cambiato fermata, ma la quiete non è tra le mie maggiori virtù. Non so mai dove fare l’uovo, per dirla con mia nonna. E infatti questo fine settimana sarò fuori. Perché non mi stupisci tu, raggiungendomi? A Porto Venere, domenica, per un pranzo. Poi facciamo insieme la strada del ritorno. Antonia «Sai cosa mi ripeteva sempre il mio professore di letteratura greca?» feci l’occhiolino a Silvia. «Antonia, guarda come cadono gli dèi!» Silvia rise. «Io e te non ci facciamo mica fregare così facilmente!» aggiunsi. Accesi la musica, com’era bello quella sera il mio soggiorno. «Pensi che andrà bene il completo beige?» 8 Ditelo alla donna che ha abbordato alla festa sul fiume, alla bionda alla quale ha offerto un calice di vino mentre le sciorinava il copione delle sue ossessioni quotidiane per farla ridere. Ditelo alla bella bionda con la giacchetta rossa griffata e stretta in vita, che adesso si sta spazzolando i capelli sul bordo del letto di Vittorio e tra poco volerà in ufficio, non prima di averlo salutato con un «ci sentiamo» da donna di mondo. Diteglielo che io ho camminato in quella stanza, a piedi nudi. Ho rifatto il letto mentre Vittorio era sotto la doccia. Ho guardato i libri che aveva sugli scaffali senza osare sfiorarli. L’ho visto rientrare con l’accappatoio indosso, i capelli bagnati; si asciugava il viso con la manica e, con la voce roca del mattino e la erre moscia, mi chiedeva: «Tu sei già pronta?». Chiedetelo alla bionda con la coda di cavallo che gli parla con la schiena dritta e qualche fredda smorfia, e che oggi andrà dicendo che ha scopato con Vittorio Solmani; dirà così, né più né meno. Lei lo sa che Vittorio compra la pasta fresca sempre dalla stessa signora? Che la sua maglietta preferita è rossa, di una rivista di filosofia? Che ha sempre un pezzo di camicia che gli esce dai pantaloni? Che non sa ballare (la notte in cui provò, a casa mia, ridemmo al punto da sentirci male), che aggiunge rosmarino a ogni piatto, che ha delle pantofole orrende? Io avrei tagliato tutti i miei capelli per lui. Ditelo alla bionda che adesso toglie i suoi dalla spazzola con disappunto. In quella stessa stanza Vittorio, nudo, apriva l’armadio e sceglieva che camicia indossare. La sua spina dorsale mi stava davanti. Seduta sul letto, già con la matita sugli occhi e la borsa a tracolla, ne seguivo la linea. Il mattino avanzava piano nella camera: si formava un triangolo di luce sul pavimento a scacchi, tra il letto e l’armadio, cadeva sul piede scalzo di Vittorio. E adesso trovo una sua fotografia su un giornale e mi domando: «Ma si è tinto i capelli?». Vado in cucina, cerco il dolce. Dammi qualcosa da fare stasera, Padre Pio, sono stanca di piangere dentro un cuscino. Vale come preghiera? Ma neanche l’impasto mi è amico, oggi. Terzo giorno: lasciare riposare l’impasto senza mescolare. A volte non si può proprio farci niente. Tocca aspettare. Perché accade che a un certo punto le nostre emozioni prendano una direzione inaspettata? All’improvviso, deragliano. Nel treno che mi riportava a Milano, quella domenica notte, cercai a lungo di riportarle sulla strada maestra, ma loro erano già andate via. Il vetro del finestrino rifletteva ostinatamente la mia immagine, il contorno dei capelli scarmigliati, la luce protettiva del vagone, l’abbandono sonnolento degli altri passeggeri. Il paesaggio notturno non era che un’intermittenza di luci in fuga su un fondale scuro. Vittorio non era venuto. D’altronde, il mio era stato un invito assurdo. Una sfida, un modo per metterlo alla prova, per sconfessarlo. «Se qualcuno deve all’altro ore di stupore, quello sono io, a te.» Non si dovrebbero scrivere cose del genere. Perché qualcuno, nel leggerle, potrebbe spalancare gli occhi, indugiare un minuto in più sulla frase imprevista, ripetersela in un momento banale della giornata. Ero certa che quelle parole fossero per lui solo un’esca per guadagnarsi una delle sue avventure. Io non sono una sciocca da abbindolare con certe banalità, mi ero detta leggendo una volta in più la frase, e se davvero l’ho stupito verrà a Porto Venere. Vittorio non era venuto. Lo immaginai seduto al mio fianco su quel treno. Il mio corpo non sarebbe stato rivolto tutto al finestrino, quasi rannicchiato. Gli avrei nascosto il mio profilo, per il quale provavo una certa vergogna; lui avrebbe parlato a lungo, con la sua aria sorniona e forse a un certo punto si sarebbe zittito, mi avrebbe accarezzato una guancia e avrebbe detto: «Se qualcuno deve all’altro ore di stupore…». Ma Vittorio non era venuto. L’avevo smascherato, ero stata brava, non avevo abboccato al suo amo, io no, potevo essere soddisfatta di me. Ma cos’era quella mancanza nel petto, quel senso di cose perdute, di ultimo giorno d’estate? Che sciocchezza, mi ripetevo, non è niente che riguardi lui. È solo vocazione a fantasticare. È solo un mio vuoto da colmare. È stanchezza per la lunga giornata. È nostalgia di casa, un po’ di solitudine. Non è per lui questa tristezza: è il treno che viaggia di notte, è il paesaggio che si nega alla vista, è lo sguardo assente del signore seduto di fronte a me, è il cellulare che non vibra da ore, è il rumore leggero delle pagine sfogliate di una rivista nel silenzio assorto dello scompartimento… Mentre il treno mi riportava a Milano, io tradivo la strada maestra. 9 Intanto Silvia cresceva. Tra le righe che scrivevo su di lei, a notte inoltrata, strizzando gli occhi miopi sullo schermo di un portatile troppo piccolo, e attorno a me, come fosse stata vera. Sbucava sulla banchina della metropolitana, nascosta dietro un quotidiano per fare la spiritosa, mi aspettava all’uscita del supermercato per prendere l’altro manico della busta della spesa e dividerne il peso. Attraversavamo la strada così, unite da un sacchetto di plastica sempre sul punto di rompersi, e lei parlava parlava parlava, io la tiravo quando le macchine non rallentavano, lei indicava le strisce pedonali con aria imbronciata, poi cominciava a saltellarci su, un piede per ogni striscia, chi sbagliava tornava al punto di partenza. Silvia aveva vent’anni ed era piccola come una bambina e grande come una donna. Era affetta da sindrome di Down, «ma questo è un particolare», come diceva lei, e chissà chi le aveva insegnato a dire così. Silvia, semplicemente, aveva gli occhi a mandorla. Perché era nata sotto un mandorlo. Così le aveva spiegato il padre, Ruggero. «I bambini nascono sotto gli alberi e ogni albero determina la forma o il colore dei loro occhi. La mamma, per esempio, è nata sotto un castagno, perché i suoi occhi hanno il colore delle castagne, e anche un po’ la forma, se guardi bene. Io sono nato sotto un pino, vedi il verde della mia iride? E tu, come i tuoi amici dell’associazione, sei nata sotto un mandorlo.» «Quello che abbiamo in cortile?» «Proprio sotto la tua finestra.» Aveva le sue idee, Silvia, e una gioia primitiva, elementare; forse per questo non potevo fare a meno di lei. La verità era che non si domandava dove mettere le mani quando qualcuno le parlava. Come atteggiare le braccia, dove posare gli occhi. Non si chiedeva: dovrò raddrizzare la schiena? Come sarà la mia voce? Una cosa terribile questa della voce. Il fatto che nessuno di noi la senta come arriva agli altri, apre un abissosu tutto quel che noi siamo: siamo la voce che sentiamo noi o quella che sentono gli altri? Che strana cosa la vita, non si può che restarne perplessi. Ma Silvia no, Silvia non conosceva questa perplessità; in lei la vita era immediata, in Silvia era come se la voce interna e quella esterna coincidessero e non si può dire che non sia una forma di felicità, questa. Almeno fino a quando non si innamorò di Antonio. L’amore stravolge tutto, accidenti. 10 «Ho bisogno di cambiare continuamente casa. Dopo massimo un paio d’anni devo traslocare.» Vittorio mi aveva portata in un lounge bar di Milano, con grandi lampadari e divanetti bianchi larghi, più simili a letti. Forse era questa l’impressione che gli avevo fatto, di una da locale alla moda. «Come ci sdraiamo?» aveva scherzato, indicando i cuscini rossi sparpagliati sui divani. Non avevo capito la battuta. «È che ci sono già delle certezze nella mia vita: il lavoro, per esempio, e ho bisogno di sapere che non è tutto già definito, che ci sono dei margini di cambiamento.» «Un po’ impegnativo un trasloco ogni due anni!» «In realtà ho pochissime cose con me, ormai mi sono organizzato!» Un ragazzo venne a prendere le ordinazioni. Tentennai. «Non ci sono analcolici?» Vittorio rise. «Analcolici?» «Non bevo» alzai le spalle. «Fumi almeno, spero!» «No. Non bevo neanche caffè, se è per questo!» «Credo di non aver mai conosciuto nessuno che non faccia nessuna di queste tre cose!» Ordinai un cocktail alla frutta, mentre Vittorio scuoteva la testa divertito. Quella sera non avremmo dovuto essere lì. Mi aveva invitata a uscire, io l’avevo dirottato all’ex lanificio, dove ero con i miei amici per un concerto. Non volevo restare sola con lui. «Per mettere le cose in chiaro!» avevo spiegato a Gioia. «Cosa c’è da mettere in chiaro?» Non avevo saputo rispondere. Ma poi Vittorio aveva tardato, per tutto il concerto avevo tenuto d’occhio l’entrata e litigato con la gonna che continuamente saliva sui fianchi. Fino a quando era arrivato un SMS: «Sono qui fuori, non so neanche dove parcheggiare. Ti aspetto.» Si era fatto come diceva lui. «Però,» si tolse gli occhiali e li posò sul tavolino «ho delle abitudini sacre: il caffè delle quattro, per esempio, è irrinunciabile.» «Ovunque tu sia?» «Ovunque. Come un musulmano si inginocchia al suono del muezzin. Il cinema del lunedì sera, anche. La cena con gli amici del martedì, il frullato della domenica mattina…» elencava compiaciuto. «E queste abitudini non possono essere sconvolte.» «No.» «Piuttosto cambi casa?» «Sì!» Gli guardai le mani. Erano belle, ma di una bellezza senza grazia. Da manubrio di una moto. «Quando saltano, mi sento disorientato. Però poi ho bisogno di sapere che intorno a queste certezze c’è un mondo che può essere inventato ogni giorno. La libertà, la parola più bella» concluse allargando le braccia. «La libertà di restare costretto nelle tue abitudini?» Si rimise gli occhiali. Allargò le gambe, si protese verso di me (beato lui che sapeva come sistemarsi su quei divanetti, pensai). «La libertà di scegliere di cosa essere schiavo» aggrottò la fronte. «La libertà non è uno spazio sconfinato nel quale non si intravede neanche un orizzonte. Non è questa la libertà in cui credo, almeno.» «Signorina, le è caduto il cappotto a terra» mi disse una cameriera. Mi chinai a raccoglierlo, imbarazzata. Adesso cominciavo a far cadere le cose. «E poi non si chiede libertà, ma qualche apparenza di libertà. Emil Cioran docet» mangiò un’oliva e sputò il nocciolo nel tovagliolino. Mi avvicinò la ciotola, offrendomene una. L’idea di sputare il nocciolo davanti a un uomo che sì e no conoscevo mi imbarazzava. Feci segno di no col dito. Arrivò il cameriere con le nostre ordinazioni. Vittorio si tolse di nuovo gli occhiali, scoprendo l’azzurro degli occhi, e brindammo. Dalla vetrata si poteva vedere l’Arco della Pace. «Passeggiamo un po’, dopo?» chiesi. «Non ti piace questo posto?» «Sì, certo, ho solo voglia di fare due passi.» «Non so dove potremmo andare. A Milano non si passeggia, a Milano ci si sposta da un punto a un altro con uno scopo.» Mi guardò per qualche istante, mi sorrise con una certa dolcezza. Mi accarezzai la nuca. «E tu?» chiese infilzando un’oliva con lo stuzzicadenti. «Io cosa?» «Hai un fidanzato?» «Perché me lo chiedi come se tu mi avessi parlato della tua fidanzata?» «Ti ho parlato della mia relazione con la libertà.» «Non è una donna.» «Ma è un amore.» «Io ho un neo e quando ero bambina decisi che l’uomo che l’avrebbe notato sarebbe stato quello della vita.» «L’uomo della vita!» mi fece eco. «Erano anni che non sentivo qualcuno esprimersi così!» «Un difetto dell’immaginario romantico, forse» misi le mani avanti. Le parole mi uscirono di fretta, incespicando. Vittorio bevve un sorso del suo drink. «È in un posto tanto nascosto, il neo?» «No, è visibile a tutti, in teoria; in pratica lo nota solo un occhio attento, è un particolare riservato ad animi nobili!» «Addirittura? Devo cercarlo, allora.» Si sporse sul tavolo, facendo finta di squadrarmi. «Non lo troveresti.» «No, credo di no.» Parve un attimo interdetto dalla mia stoccata. «E qualcuno è stato più degno di me?» «Un ragazzo l’ha notato, sì, alla nostra prima uscita. Siamo stati insieme molti anni, siamo stati felici insieme. Ci volevamo sposare, ma poi è andata diversamente…» «Quanti anni avevi?» «Ventidue.» «Menomale che non ti sei sposata.» «Perché?» «Come perché? A ventidue anni!» «Mah.» Nel bar si diffuse la musica. «Un neo, ma pensa un po’!» e fece una delle sue belle risate che gli riempivano il viso. Cominciò a muovere la testa e il piede a ritmo di musica. Mi lanciava delle occhiate allegre, io non potevo che sorridergli, anche se non volevo, assolutamente non volevo. «Ma cosa fai, lasci anche l’analcolico?» «Non mi va più.» Usciti dal locale, passeggiammo nel freddo di Milano, mentre lui mi faceva da cicerone. Conosceva la storia di ogni monumento, piazza, quartiere. «Come sai tutte queste cose?» «È la mia città.» Aveva smesso da poco di piovere e sembrava che Milano sospirasse – uno di quei sospiri lunghi che scappano a fine giornata, l’attimo prima di addormentarsi. Vittorio continuava a elencare date e nomi, le vetrine dei negozi illuminati mi sembravano così sciocche in confronto, da scivolare via senza seminare desideri. Io non sapevo che dire, ascoltavo e basta. Cercavo delle domande da fargli, ma non le trovavo. Degli argomenti da introdurre, ma non arrivavano. Camminavo sbandando appena, una cosa che facevo sempre. Quando per un attimo mi ritrovai quasi addosso a lui, mi venne voglia di restargli vicina. Ma lui non mi guardava mai? Mi aveva prestato i suoi guanti. Con le mani in tasca per non farmi vedere sfregavo pollice e indice, per sentirne la consistenza. Era una lana ruvida. All’improvviso si fermò e tacque. Ma era davvero “bastard” che leggevo sulla sua giacca di pelle? Tirò fuori la pezza degli occhiali e pulì le lenti. Mi guardai attorno, cercai qualcosa da dire. Ma qualunque pensiero mi sembrava stupido rispetto ai suoi discorsi. «Ti dispiace se fumo un’altra sigaretta?» chiese rompendo il silenzio. Mi parve deluso dalla mia assenza di argomenti. «No, perché dovrebbe?» Si appoggiò a un portone per fumare, a qualche metro da me. Mi sentii sotto esame. «Fa scena muta la signorina?» «Poi ti accompagno a casa.» Rimasi sola in mezzo alla carreggiata, confusa. Guardai il cielo. «Di’ qualcosa Antonia, di’ qualcosa, ce l’hai la lingua?» «Per i Greci la luna era una ragazza che attraversava il cielo su un carro d’argento trainato da cavalli bianchi» mi uscì. Vittorio buttò fuori il fumo in modo brusco, fu come uno sbuffo. Tacqui. «Qual è il tuo cognome?» chiese, leggendo i nomi sul citofono quando arrivammo sotto casa mia. Gli indicai il tasto. «Lucida handwriting?» «Cosa?» «Il font che hai usato. Per l’etichetta.» Una nuvola di vapore gli uscì dalla bocca. Si avvicinò, io finsi di guardare il mio nome sul citofono. «Non so, non mi ricordo…» Mi sfilò un guanto per riprenderselo,
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