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Mai più così vicina

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Claudia Serrano
Mai più così vicina
Questa è un’opera di fantasia.
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.
Fotografia in copertina: © Mihaela Ninic / Plainpicture
www.giunti.it
© 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
ISBN 9788809813977
Prima edizione digitale: settembre 2015
http://www.giunti.it
Presentazione
Il libro
Mai più così vicina
Da un’assolata città del Sud, Antonia, una ragazza che mette i tacchi anche
per fare la spesa, arriva a Milano accarezzando il sogno di scrivere un
romanzo che ha in mente da tempo. L’impatto con la città e con il suo cielo
senza colore non è dei più incoraggianti, finché un’amica non la trascina a
una conferenza letteraria e in poche ore tutto quello che Antonia ha pensato
non conta più. Milano le regala Vittorio, un uomo molto diverso da lei:
Vittorio è un editore, appartiene ai ceti alti, è disinvolto, ha due occhi
magnetici e quell’aria libera e sfrontata di chi non scende a compromessi. E
soprattutto ha una vita sociale che intimidisce Antonia, ma nel contempo la
affascina. Il bicchiere e la sigaretta sempre in mano, chiacchiere fino all’alba
di cinema e libri con amici impegnati, romantiche gite in moto lungo i
tornanti mozzafiato della Liguria. Antonia si innamora follemente di lui, ma
qualcosa non funziona. Vittorio è sfuggente, sparisce, riappare, si sottrae, non
programma e non promette. E proprio come la ragazzina down protagonista
del suo romanzo, Antonia è costretta a misurarsi con i suoi limiti e le sue
paure. Ogni donna sa che cosa significa incontrare il grande amore. E ogni
donna sa bene che cosa significa perderlo. Con una scrittura poetica,
coinvolgente, emozionante, Mai più così vicina racconta il disperato tentativo
di non mandare in pezzi il sogno più grande e più bello della vita.
L’autore
Claudia Serrano
Claudia Serrano è nata a Bari nel 1984 ed è laureata in Filologia Moderna.
Come giornalista pubblicista ha vinto alcuni premi, tra i quali il “Premio di
giornalismo Franco Sorrentino” per l’inchiesta condotta sul mondo dei non
vedenti nella città di Bari. Ha frequentato il corso di alta formazione in
Gestione della libreria presso la Scuola Librai Italiani di Orvieto e da alcuni
anni esercita la professione di libraia.
Per altre notizie sull’autore:
http://www.giunti.it/autori/claudia-serrano/
http://www.giunti.it/autori/claudia-serrano/
Dicono del libro:
http://www.giunti.it/libri/narrativa/mai-piu-cosi-vicina/
http://www.giunti.it/libri/narrativa/mai-piu-cosi-vicina/
Altri titoli in collana:
http://www.giunti.it/editori/giunti/a/
http://www.giunti.it/editori/giunti/a/
Al prof. Mario Ziccolella, mio nonno,
domenica dei miei occhi.
Scrivere come sai dimenticare,
scrivere e dimenticare.
Tenere un mondo intero sul palmo
e dopo soffiare.
Pierluigi Cappello
1
Trentanove. Trentanove sono i nei che ho contato sulla sua schiena.
Ho conosciuto molte notti insonni al suo fianco. Lui dopo l’amore crollava,
spesso non restava neanche il tempo di una carezza. Io non riuscivo a
dormire.
Trentanove. Si girava su un fianco, dandomi la schiena. Una schiena
bianca. Iniziavo a contare. Le macchie della pelle non andavano calcolate e a
volte al buio era difficile distinguerle, così mi toccava ricominciare.
Trentanove.
Non osavo toccarlo. Seguivo, con il dito nell’aria, a pochi centimetri dalla
pelle, il profilo delle sue forme. La curva del bacino, la salita lieve della
schiena, la spigolosità della spalla.
Se, per sbaglio, il mio dito indugiava su un lembo di pelle, se si infilava in
quella distanza tra la mia e la sua carne il desiderio di sfiorarla, mi ritraevo
svelta.
Si può accarezzare un uomo anche da lontano. Si può raggiungerlo, e farsi
raggiungere, anche senza toccarlo. Si può perdere tutto nel momento in cui si
cede alla tentazione di farlo.
Si può rinunciare alla parola amore e camuffarla con un numero:
trentanove. E questo è tutto quel che lui mi ha insegnato.
Il mio nome è Antonia. I nomi sono importanti: quando le nomini, le cose
esistono.
Lo ripeteva spesso il mio professore di letteratura francese quando ci
perdevamo per ore con la testa nei romanzi dell’Ottocento. «Osservate
l’importanza del linguaggio nelle relazioni amorose» diceva, mentre l’ultima
luce del pomeriggio filtrava dalle finestre a vasistas. «Quando Adolphe scrive
a Ellénore riversa nella sua lettera tutte le sue incertezze; eppure le sue stesse
parole d’amore fanno sì che egli cominci a sentire le cose che scrive. Ecco la
prima legge fondamentale: il linguaggio ha il potere di creare la realtà. Una
cosa detta esiste.»
Qualche anno dopo sarebbe toccato a Vittorio aggiungere una tessera al
mosaico, un giorno di sole sul colle Aventino, quando parlava dei libri di De
Lillo e delle parti che compongono una scarpa: «Allora il padre gesuita
chiede al ragazzo di guardarsi le scarpe e nominarne le parti e lui comincia a
balbettare stringhe, suola, tacco, ma non riesce ad andare oltre. Al che il
gesuita gli dice che non li vede, la linguetta, l’occhiello, il rinforzo, perché
non conosce i loro nomi. Il senso è tutto lì: le cose restano nascoste finché
non sappiamo come si chiamano.»
Era quando, stordita dalla sua presenza, pensavo che quello sarebbe stato
l’inizio di qualcosa che riguardasse noi.
Poi, be’, poi sono rimasta solo io col mio nome, Antonia, a dovermelo
ripetere per essere sicura di esistere.
E in qualche modo allora, mentre gli altri si accanivano a studiare piani di
recupero, «meglio non chiederle più niente», «proponiamole un viaggio», e a
decifrare i miei cambiamenti «mi sembra più serena», «le è passata», ho
scoperto che mi avevano detto solo una parte della storia; se è vero che le
cose diventano reali quando le chiami col loro nome, è altrettanto vero il
contrario: ci sono cose che si ostinano a esistere anche quando non riesci
neppure a nominarle.
Così, la prima mattina del mio rientro a casa da Milano, mentre entravo in
cucina e trovavo la tavola apparecchiata per la colazione con la tazza
capovolta, i biscotti e la spremuta d’arancia, la cosa innominabile, la “cosa”,
come la chiamava Vittorio se doveva parlare di noi, era lì.
Ricordo l’imbarazzo di fronte a quegli oggetti schierati ad aspettarmi, e la
voce dei miei genitori nell’altra stanza che confabulavano «si è alzata».
Erano entrati insieme in cucina, si erano seduti davanti a me. Io mi ero
versata il tè, avevo morso un biscotto.
«Erano questi quelli che ti piacevano?»
«Sì, grazie.»
«Papà ricordava quelli alla panna, io gli dicevo che erano questi!»
«Sì, sono questi, ma andavano bene anche gli altri.»
«Hai visto che tazza ti ho scelto?»
«Sì, bella.»
«E la tovaglia?»
Avevo sorriso, avevo portato la tazza alle labbra, ma le mani tremavano.
Oltre le loro figure, dietro la finestra, c’era un cielo limpido e una distesa di
tetti con le antenne della TV.
Mia madre si era voltata nella direzione del mio sguardo: «Ti mancavano
questi colori a Milano, eh?» e io avevo chiesto a Dio di spalancare una
voragine sotto la mia sedia e di essere inghiottita seduta stante, io con tutto il
servizio da tè e la tovaglia ricamata e i biscotti e quegli occhi di madre in
attesa.
Probabilmente, semplicemente, con certe verità bisogna prendere confidenza:
accettare che le ferite, certe ferite, non si rimarginano; che le cose, alcune
cose, non si risolvono, e che non tutti si salvano.
Ho passato le prime settimane del mio rientro a ripetere lezioni disimparate:
«Il pavimento della camera da letto è a rombi, marmorizzato; l’ho sempre
detestato. Il pavimento del salotto è bianco, in cucina il cotto, rosa. Quello del
bagno arancio, così kitsch che gli ospiti inventano scuse per tornare in quella
stanza. Alcune notti verrà il vento di tramontana a scompigliare le piante del
terrazzo, sentirò i vasi spostarsi da una parte all’altra e papà si alzerà per
controllare, legare, bestemmiare. Il terrazzo con i mattoncini bollenti sotto i
piedi, nelle sere d’estate.» Prima diarrendermi al fatto che quanto era stato
mio non mi apparteneva più.
Non mi restava che infilarmi una tuta, io che mettevo i tacchi anche per fare
la spesa, e andare verso il mare a guardare i passanti, a seguirli, a volte,
perché i loro corpi mi davano conforto. La carne del ciccione buttato sulla
spiaggia, per esempio, me la ricordo ancora, insieme al pensiero, rassicurante,
di poterla toccare: se l’avessi fatto, il dito sarebbe affondato nel bianco molle,
tra la ragnatela azzurrognola delle vene. Mi ero sentita sollevata.
Tornando a casa sbagliavo strada, ma mi vergognavo a chiedere indicazioni
nella mia stessa città. «Sono stata via» mi sarei giustificata.
Ho conosciuto un uomo che cantava una canzone che diceva «l’amore
mette in ginocchio». Inserivo il CD nel lettore dell’auto; bastavano le prime
note a farmi sprofondare. Adesso capivo cosa voleva dire quell’uomo quando
faceva l’amore con me e mormorava «ma ti rendi conto?».
«Di cosa?»
«Di quanto sei bella. E che moriremo.»
Le macchine dietro di me suonavano il clacson: «Ci muoviamo o no?».
Prima o poi riuscivo a ritrovarla, la via di casa. Ma dove vanno a finire i
pezzi di noi che abbiamo ceduto per un po’ di amore?
Se dai, dai, diceva la strada che si srotolava davanti alla mia Twingo di
seconda mano, è un calcolo semplice, ragionevole, accettabile.
Accettabile?
In ogni caso, il mio nome è Antonia. E ciò è vero come il colore di queste
piastrelle e tutte queste cose reali alle quali adesso dobbiamo aggrapparci.
Il suo, di nome, era Vittorio. Un nome pieno, solido. A volte, la notte, lo
cerco nella rubrica del telefono e lo leggo ancora e ancora, il suo nome
maiuscolo. Poi spingo un tasto e torno al menù principale e al mio letto da
bambina: basterà un letto a una piazza ad accogliere la mia piccola vita
futura.
Ma adesso divento melodrammatica. In fondo posso non esserlo: riesco a
passare ore a guardare il vaso di azalee sul davanzale e la corda della
tapparella che pende e non fa altro che questo, tutto il giorno: pendere dietro
una finestra.
Devo aver imparato a trattenere. Anche quando vorrei scardinare le
cancellate del terrazzo e urlare «fatemi uscire da qui», io no, non lo faccio. Io
mi preparo un tè, mi rigiro la tazza fra le mani, mi concentro sulla qualità
della ceramica. Anche se capita che poi dentro quel tè ci legga quelle mail
telegrafiche e assurde che Vittorio mi spediva.
Da: vittorioso@gmail.com
A: antonia@libero.it
Oggetto: bouganvillee a Tarutao
Spiagge bianchissime, natura incontaminata, popolazione indigena amichevole.
Caffè imbevibile. Ciò nonostante, il resort offre ogni genere di comfort per un
soggiorno di qualità. Segue supporto iconografico.
Quando torno, però, andiamo a mangiare una cotoletta. Dillo anche a Dukan (e
metti il tubino nero).
V.
E mi viene da ridere e allora, mentre rido, arrivano le lacrime.
«Caro Vittorio,» gli scriverei oggi, «ricordo molti sorrisi.»
2
La moto scivolava sui tornanti della costa ligure. Ai bordi della strada i fiori
esplodevano. Ne potevi sentire i profumi. Con la testa appoggiata alla schiena
di Vittorio, li vedevo tremare al nostro passaggio, onde di giallo e arancio che
si ripiegavano sul nero dell’asfalto. I miei pantaloni di seta si gonfiavano
d’aria mentre la moto andava; pure loro avevano dei fiori disegnati e alla
caviglia, larghi com’erano, sventolavano nella corsa.
Le ville antiche affacciate sul golfo, inerpicate sulla roccia, si intravedevano
dietro i pini marittimi.
«Vorrei essere in tutte queste case» avevo detto. «Vorrei entrare in ogni
soggiorno, in ogni cucina, affacciarmi a ogni finestra. Vorrei vedere questo
golfo da quel balcone e da quello e da quell’altro ancora!»
Vittorio aveva riso sotto il casco.
«E poi… poi vorrei aprire tutte le credenze che si vedono dalla strada,
toccare tutte le tazze e i servizi da caffè e bere un tè in ogni casa! Non ti
sembra che lì dentro non possa che viversi una vita bellissima? Che faranno?
Andranno a giocare a tennis? Faranno colazione sulla terrazza? Io me li vedo
camminare scalzi su piastrelle blu oltremare…»
«Blu oltremare, niente meno!» aveva scherzato lui. «Ti sembra bellissima
perché non è la tua vita.»
Avevo poggiato le mani sui suoi fianchi, ne avevo sentito la morbidezza
sotto la maglietta.
«Vittorio, pensi che sarà sempre così per me? Sarò sempre su una strada a
fantasticare sulle case degli altri?»
Cosa aveva risposto Vittorio? Non me lo ricordo. Forse non aveva risposto
niente e io devo essermi morsa le labbra e devo essere tornata a guardare il
cielo, che pareva correre azzurro insieme a noi.
Ho sentito le chiavi girare nella serratura, i ricordi sono corsi a nascondersi in
un angolo.
Anna mi ha trovata sul divano a gambe incrociate, fazzoletti usati ovunque.
Erano le sette.
«Già in piedi?» ha domandato.
«Più o meno.»
«Forse devi ancora abituarti ai nuovi ritmi.» Ha finto di non vedere i miei
occhi rossi.
Lei non organizza balletti di commiserazione intorno al mio dolore, non
cerca un modo per consolarmi: pulisce il pesce mentre faccio colazione, fa
bollire le rape mentre immergo i biscotti nel tè. Per lei ogni cosa “è la vita”,
ma come lo dice lei, sorridendo senza tristezza mentre alza le spalle.
Ha cinquant’anni ed è nonna di sette nipoti. A breve, la più grande la
renderà bisnonna. Dice che io sono fortunata ad aver studiato e che per tutto
il resto c’è tempo; anche se ogni tanto mi chiede quando trovo un marito: «Ti
conviene farlo prima dei trenta» sentenzia.
«Ho portato una cosa per te» ha detto frugando nelle borse del mercato.
«Per me?»
«Eccolo, è il dolce di Padre Pio.»
«Cosa?»
«Una catena.»
Ha tirato fuori un bicchiere di plastica chiuso con della carta stagnola. Ho
barcollato in pigiama fino a lei.
«Me l’ha dato mia cognata e adesso io lo do a te. In questo bicchiere c’è
l’impasto iniziale, devi solo seguire la ricetta. Ecco il foglio, capisci la mia
scrittura? Ci vogliono dieci giorni per farlo, ogni giorno devi aggiungere un
ingrediente.»
L’ho guardata perplessa.
«Ci sono delle regole, però. Devi cominciare di domenica e devi lasciare
sempre tutto fuori dal frigorifero. Alla fine, togli tre bicchieri dal composto e
li regali a tre persone, per continuare la catena.»
«No, aspetta, come fa a stare dieci giorni fuori dal frigo?»
«Non lo so, però viene buono.»
Ho dato un’occhiata al foglio con la ricetta.
«Dieci giorni per un dolce?»
«Alla fine, quando lo inforni, puoi esprimere un desiderio. Per questo ci
vuole tempo, cosa credi?»
È andata sul terrazzo, comincia sempre da lì le pulizie.
Mio padre è entrato in cucina mangiando uno yogurt. Con il cucchiaino ha
indicato il bicchiere che avevo in mano «Cos’è?»
«Niente.»
Ho chiuso il bicchiere nel freezer.
Stasera sono andata a una festa di compleanno.
Eravamo in un ristorante, una specie di serata al femminile. Betta mi ha
chiesto di lui, a tavola.
«E a Vittorio ci pensi ancora?»
Ho avvertito la tensione delle altre, ho percepito il movimento delle loro
gambe che si irrigidivano sotto il tavolo.
Betta è l’unica che trova il coraggio di nominarlo, Vittorio; le altre pensano
che per me sia meglio fingere che non sia mai esistito. Ho abbassato gli
occhi, ho rigirato la forchetta nel piatto; gli spaghetti hanno obbedito, si sono
arrotolati attorno ai rebbi e io sono stata lì lì per dirla. Ma era oscena, la
verità. Così ho fatto un gesto con la mano, ho allontanato l’ombra.
«Dicevamo?»
Le altre si sono affrettate a introdurre un nuovo argomento, nella foga si
sono accavallate. Ho pensato, tra poco neanche Betta mi domanderà più di
lui, e allora chi lo nominerà?
Poi è arrivata la torta con una candelina accesa, abbiamo cantato «tanti
auguri a Betta» mentre dagli altri tavoli ci guardavano. Betta ha soffiato, noi
abbiamo battuto le mani. Io ho aspettato per tutto il tempo il momento in cui
sarei stata davanti allo specchio del bagno a struccarmi, a lasciare il nero
dell’ombretto sull’ovatta.
Quando sono rientrata a casa, invece, ho preso il bicchiere dal freezer, ho
tolto la carta stagnola che lo chiudevae ho spiato: dentro c’era un composto
ripugnante, di un colore simile al beige. L’ho annusato: puzzava.
«Non si può rifiutare il bicchiere che si riceve.» Mi è sembrato di sentire la
voce di Anna.
«Perché?»
«Perché è una cosa di cui prendersi cura.»
Ho provato ad aprire un libro; ho cominciato a leggere con una di quelle
lampadine che si aggrappano con una molla alla pagina, ma bastava spostarla
appena perché facesse contatto e così la luce sembrava tremare. Sono rimasta
a lungo nel buio della cucina, a sentire mio padre russare qualche stanza più
in là e mia madre rimproverarlo a intervalli: «Mino!».
«La tenerezza che sento» continuava la canzone di Vittorio «mi porterà
via?»
E allora, quel composto nel bicchiere l’ho lasciato scongelare. Poi ho preso
un quaderno e una penna e ho iniziato a scrivere queste pagine.
Perché? Forse perché niente è difeso, neanche un bicchiere di impasto nel
freezer.
3
Milano. M, come la chiamavo io, emme: una storia che non si può raccontare
per intero, un nodo non sbrogliato.
Era febbraio e nevicava dentro la stazione, il giorno del mio arrivo. La
tettoia a campate sui binari era danneggiata e piccoli fiocchi piovevano su
uomini e valigie.
La casa in affitto era al quarto piano.
La sera cercavo di sintonizzare i canali della televisione, la cena sul
bracciolo del divano. Mi arrendevo subito e spegnevo. Ordinavo i libri sugli
scaffali, appendevo un quadro, aspettavo qualcuno che si sarebbe strofinato le
scarpe sullo zerbino dietro la porta, che avrebbe posato lo sguardo sulla
scaletta di legno con i cactus distribuiti sui gradini, allungato una mano sui
CD.
Immaginavo discorsi e serate con nuovi amici seduti al mio tavolo: le borse
accatastate sulla poltrona, qualcuno che fumava alla finestra. Mi
addormentavo sul divano e il mattino dopo compravo un servizio di coppe da
gelato, dei bicchieri nuovi, un cavatappi.
La notte, a Milano, scendeva quasi invocata. Purché finisse quel grigio,
purché si avesse un cielo come quello degli altri.
«Ma quale uguale a quello degli altri? Non lo vedi che è arancione?» mi
avrebbe detto Gioia un giorno.
«E senza una sola stella. Anzi, se ne vedi una vuol dire che il giorno dopo
nevica!»
Comunque, arrivava sempre l’ora dell’aperitivo.
La mezz’ora di trambusto all’uscita degli uffici, i cancelli dei giardini
“Indro Montanelli” che si chiudevano, le rastrelliere delle biciclette che si
svuotavano. «Dove sei? Cadorna? Sto entrando in metro, arrivo!»
Tacchi, rossetto, un tram, i Navigli!
«Cominciate a prendere un tavolo, dieci minuti e ci siamo!»
Metti guanti e cappello, i guanti, soprattutto, se devi andare in moto.
Il traffico si bloccava. I locali si riempivano.
«Due calici di bianco fermo, grazie» sembrava di leggere sui labiali dalle
vetrine di un bar.
Gruppi di amiche aspettavano davanti a un locale, poi la porta si apriva e
loro si infilavano una dietro l’altra, i loro bei cappotti scomparivano insieme
ai capelli profumati dello shampoo quotidiano.
Gli ultimi indecisi tentennavano tra un bar e l’altro.
Poi, improvviso, il silenzio totale. Le strade deserte. Restava solo il cielo
notturno – sì, arancione. Tornavo a casa e abbassavo le tapparelle.
Milano. Imparai espressioni come happening e apericena. Ad avere dei
vestiti belli, ma mai quanto quelli degli altri. A camminare con la schiena
dritta, facendo ticchettare rumorosamente gli stivali. A sorridere più di quanto
fossi contenta. Perché è così che Milano ti insegna a diventare adulto,
togliendoti la sedia da dietro quando hai la tentazione di accasciarti.
Ma spiavo ancora i ragazzi che leggevano il giornale sportivo, desideravo
ancora, sopra ogni cosa, un cestino da picnic.
Poi conobbi Vittorio.
Quel giorno, nella sala della conferenza, entrava una gran luce dalle finestre.
Le hostess posavano bottiglie d’acqua sul tavolo dei relatori, battevano con
l’indice sui microfoni; e intanto la stanza si riempiva di cappotti, profumi e
strette di mano, e si svuotava di esigui gruppi di fumatori, il tempo di
un’ultima sigaretta.
Io ero già seduta al mio posto, arrivata con mezz’ora di anticipo, il cappotto
che premeva dietro la schiena, mal piegato sulla sedia. E aspettavo Laura,
l’unica persona che conoscessi a Milano, che mi aveva invitata a quel
convegno sull’editoria e adesso non si presentava.
Era un sabato luminoso e vuoto.
Dell’acqua ristagnava in un sottovaso, sul davanzale della finestra. Nuvole
passeggere coprivano e scoprivano il sole, così i raggi si infilavano nella
trasparenza dell’acqua e si ritiravano, lanciavano riflessi gialli – facevano
brillare i rimasugli di terra sul fondo – e se li riprendevano.
Tutto si muoveva sul filo di un’attesa sottile, e quella luce mi diceva che
finito il convegno avrei fatto una follia, sarei andata in via della Spiga e avrei
comprato delle calze nuove, delle calze da festa.
Una scarpa irruppe sul quadrato di luce che la finestra disegnava sul
pavimento. Un mocassino testa di moro.
Il suo sguardo, quello dell’uomo che l’indossava, cadde sulle mie gambe.
Le guardai anch’io: ginocchia magre sotto calze color carne. A Milano tutti
sanno che non si usano le calze color carne. Tirai maldestramente la gonna
per coprire le ginocchia; quando alzai gli occhi l’uomo non c’era più.
«Oh menomale che ci sei! Sono in ritardo, lo so!»
Laura si fece largo nella fila col suo corpo da donnone, asciugandosi il
sudore dalla fronte con un fazzolettino di carta «mi scusi, permesso…». Un
sorriso beato le si allargò sul viso quando mi alzai ad accoglierla e lei sollevò
le braccia come quando si recita il Padre Nostro e gridò «beeellaaa!» prima di
abbracciarmi energicamente. Poi si accasciò sulla sedia e tutta la fila subì il
contraccolpo.
Dalla tasca tirò fuori un cioccolatino – ne volevo uno? – lo infilò in bocca,
chiuse gli occhi.
«Delizioso!»
Sorrisi.
«Hai visto che sole?» riprese, mentre lottava con il cappotto nel tentativo di
sfilarselo. «Pensare alle previsioni che avevano dato!»
«Milano fa sempre di testa sua» risposi, aiutandola a liberare il braccio da
una manica.
«E a Venezia c’è l’allarme acqua alta, me lo diceva il tassista. Siamo a due
passi dall’alta marea, ma incolumi!» rise rumorosamente.
Nella sala si diffusero i primi shhh stizziti, ci fu ancora qualche momento di
trambusto. «Una giornalista senza penna, ne hai una da prestarmi?» poi calò
il silenzio.
Vittorio fu uno dei primi editori a intervenire. Ne seguii il tragitto dalla prima
fila al microfono, sul podio dei relatori. Era giovane, piccolo di statura.
Percorse quei pochi metri molleggiando appena sulle gambe, come a volersi
dare uno slancio. Era l’uomo con i mocassini sul quadrato di luce.
«Vittorio Solmani, un buon motivo per venire ad annoiarsi a queste
conferenze!» sospirò Laura.
«In che senso?»
Le donne sedute davanti a noi si scambiarono gomitate. Laura portò una
mano sulle labbra per nascondere la risata.
La prima cosa che pensai io, invece, quando vidi quel ragazzo alzarsi e
prendere la parola, fu che avrebbe fatto bene a tagliare quelle basette anni
Settanta e a sfilarsi la giacca di tweed a quadri che aveva indosso.
«Lo trovo così affascinante» sussurrò Laura.
Bastava fingere di aver frugato in un mercatino vintage per essere attraenti
a Milano?
Vittorio entrò quel giorno nella mia vita accompagnato da un commento sul
suo fascino, e credo di non averglielo perdonato mai.
«The miles of distance away from everything would end. It would all meet.»
Cominciò con questa citazione il suo intervento. Senza schiarirsi la voce.
Che era bella, avvolgente, scura.
«Mentre venivo qui, stamattina…» Improvvisava.
I capelli erano brizzolati, fintamente scomposti; gli occhiali di osso
rettangolari, come dettava la moda hipster del momento. E portava un
cerchietto all’orecchio, come per dire “ho una posizione, ma non sono
allineato”.
In platea gli uomini erano sprofondati nelle sedie, avevano accavallato le
gambe, incrociato con sufficienza le braccia sul petto. Laura prendeva
appunti, accompagnava ogni parola annuendo con la testa grossa ericcia.
Dov’era il trucco?
Aveva poche espressioni il suo volto; apriva e chiudeva sorrisi, erano solo
quelli che si muovevano sul viso abbronzato. Però lo illuminavano e questo
probabilmente non era previsto. O forse sì, visto che a intervalli regolari si
protendeva verso la platea, impercettibilmente, e le donne di mezza età con le
labbra rifatte si aggrappavano alla sedia.
Raccontò di un recente viaggio in Fiesta, «Ci incontravamo al bar della
piazza, con Giovanni e Gabriele, improvvisavamo tavole rotonde a base di
Malvasia.» Ci lasciò il tempo di meravigliarci che non avesse un’Audi.
«Giovanni Ascolti e Gabriele Galli, i fondatori della casa editrice Marea»
mi spiegò Laura nell’orecchio.
«Ah.»
Galleggiò il silenzio in sala, quando le sue labbra si chiusero. I secondi
rimasero sospesi tra noi e lui, a mezz’aria, come sorpresi di trovarsi lì. Ma poi
Vittorio si sfilò gli occhiali, sorrise, disse «grazie» e il tempo obbedì a quel
sorriso e riprese a scorrere, il pubblico applaudì e i secondi, anche loro,
tornarono al proprio posto, nel ticchettio degli orologi.
E bravo Solmani, ma io lo trovo il trucco.
Lui scosse la testa brizzolata e riccia, un gesto frivolo, ironico (rispondeva
alla mia minaccia?) e intanto il sole si era spostato e il quadrato di luce sul
pavimento si era allungato fino alle mie gambe.
Durante il coffee break, Laura mi presentò i suoi amici. Strinsi mani, ripetei
più volte il mio nome, dimenticai in un attimo quelli degli altri. Poi tutti
tornarono ad ascoltarla, lasciandomi al margine del cerchio che avevano
creato attorno a lei.
Io stringevo sotto il braccio la pochette e mi sentivo sciocca a non averla
lasciata in sala come le altre.
Raggiunsi il tavolo delle bevande senza avere sete.
Una ragazza gridò il nome di Vittorio dall’altra parte della stanza. Mi voltai
e la vidi gettarsi fra le sue braccia.
«Quanto tempo!»
Lui la accolse con gentile distacco ridendo, mi parve, del suo slancio. Si
avvicinarono al tavolo. «Allora, fammi sentire che combini» esordì Vittorio.
Fece cenno al cameriere di non preoccuparsi, versò da sé del succo di frutta
alla ragazza che aveva un piercing al naso e una frangia scura sugli occhi
(avrà sì e no la mia età, valutai, ed è piuttosto brutta), e fece tintinnare i loro
bicchieri in un brindisi intimo. Fuori luogo, pensai. Distolsi lo sguardo. Mi
defilai il prima possibile.
Ritrovai Vittorio in sala, prima che gli altri rientrassero, mentre sistemava i
suoi appunti nella cartella. Gli passai accanto per tornare al mio posto, così
vicino che lessi il titolo di un libro che stava rimettendo in borsa e,
riconoscendolo, gli dissi: «L’ho letto e mi è piaciuto moltissimo».
Sollevò lo sguardo. Dietro i grandi occhiali, due occhi di un azzurro
imbarazzante. Mi affrettai a guardare altrove; recuperai l’equilibrio
sull’immagine di una pelliccia abbandonata su una sedia.
«Mi fa molto piacere. È uno dei nostri migliori autori, purtroppo ancora
poco conosciuto in Italia.»
Mi parve di riconoscere dello stupore nel suo sguardo, una specie di
sorpresa infantile. Era rimasto chino sulla cartella aperta, bloccato nel gesto
di rimettere a posto il volume.
«Hai letto altri libri del nostro catalogo?»
«I desideri.»
«Accidenti, il meno venduto di sempre!» rise.
Alzai le spalle.
Si mise dritto, lasciando la cartella aperta, il libro ancora in mano. Dov’era
l’uomo seduttivo che parlava dal podio dei relatori? Di fronte a me avevo un
ragazzo, ed eravamo alti uguali.
Sapevo che l’autore veniva spesso in Italia? – mi chiese. – Aveva una casa
in Sicilia.
Mi domandai perché mi fossi avvicinata a parlargli. Quel ragazzo non
faceva che mettere le cose al loro posto: ora il tempo si ferma, ora riprende il
suo corso, ora questa ragazza che non sa truccarsi e ha il fondotinta a chiazze
sul viso si avvicina e mi parla.
In realtà, Vittorio chiacchierava e sorrideva. Aggiunse qualcosa a proposito
della felicità, io indietreggiai di fronte alla sua allegria perché mi parve che
fosse una cosa dalla quale difendersi.
Presto gli altri uditori cominciarono a rientrare in sala. Ora bisognava alzare
la voce per farsi sentire, la mia era così bassa che continuamente Vittorio si
sporgeva verso di me per farsi ripetere le frasi nell’orecchio. Così lasciai che
continuasse a parlare lui, limitandomi ad annuire.
«Permesso?» chiese qualcuno alle mie spalle. Prima ancora che potessi
spostarmi, Vittorio mi attirò a sé e mi ritrovai a pochi centimetri dalla sua
giacca di tweed. Tolse la mano dalla mia scapola: «È stato a Brooklyn»
riprese il filo del discorso con disinvoltura; io invece feci un passo indietro e
incrociai le braccia sul petto, e così facendo persi la presa sulla pochette.
«Bene,» dissi, raccogliendola in fretta da terra «torno al mio posto.»
«Allora ci salutiamo?» Vittorio si protesse gli occhi da un raggio di sole che
entrava dalla finestra, un minuscolo gesto che andò a conficcarsi nella
memoria. «Una splendida giornata, oggi» ammiccò tendendomi la mano.
«Anche a Venezia c’è il sole, ma l’acqua sale di tre centimetri ogni
mezz’ora» precisai sulla difensiva.
Vittorio mi guardò con aria interrogativa, poi sfoderò un sorriso placido.
«Resterò in città, allora» disse.
E io, con l’acqua già alle caviglie, tornai al mio posto.
«Ci hanno invitate al ristorante, a convegno concluso» sussurrò Laura.
«Preferisco tornare a casa, grazie, tu vai?»
«Certo, con questa giornata! Guarda che tra tutti questi bacucchi noiosi ci
sarà Solmani, sicura di non voler venire?»
«Ancora con questo Vittorio?»
«Ma come fa a non piacerti?»
Lo cercai con lo sguardo, trovai i suoi riccioli brizzolati, la barba fintamente
incolta, il profilo marmoreo.
«Non è il mio genere» risposi scuotendo la testa.
4
Primo giorno: versare il composto in una ciotola di vetro. Aggiungere un
bicchiere di farina e un bicchiere di zucchero. NON MESCOLARE.
Se Vittorio sapesse.
«Il dolce di Padre Pio?» sgranerebbe gli occhi.
«Sì, okay, si chiama così, forse perché c’è quel desiderio finale che si
avvera, cioè, che si dovrebbe avverare, però nessuno crede davvero che…»
«Non credevo esistessero ancora queste cose nel ventunesimo secolo!»
Scrollerebbe la cenere della sigaretta, un sorriso ironico sulle labbra.
«Un retaggio terrone,» gli risponderei, allora, stizzita «come il corredo e
tutto il resto!»
«Non dirmi che hai il corredo… hai il corredo?»
Ma al decimo giorno, lo so, mi stupirebbe con un SMS: «Non finivi oggi il
dolce?».
Vittorio.
Comunque, ho seguito la ricetta.
Ho preso il bicchiere con l’impasto orrendo e l’ho svuotato in una coppa di
vetro. Ho usato quello stesso bicchiere per aggiungere la farina e lo zucchero
e non ho mescolato. Sono rimasta a guardare zucchero e farina
ammonticchiati sulla massa iniziale.
Che senso ha buttare delle cose sulle altre lasciandole separate? Ma forse è
questo il primo errore: la fretta di mescolare, di fare di due uno. Quest’ansia
di perdersi nell’altro.
Vittorio non avrebbe mai commesso un simile sbaglio.
«Che devi fare stamattina?» Mia madre è entrata in cucina. «Vieni con
noi?» Ha preso delle bistecche dal surgelatore.
«Non posso.»
«Hai qualche articolo da consegnare?»
«Sì.»
Invece ho preso la penna per scrivere queste due stupide righe, per dire che
è domenica e mentre gli altri andavano a passeggiare io ho seguito la ricetta.
«L’essenziale è tenersi occupati. E ora, con un certo piacere, mi accorgo
che sono le sette e che devo preparare la cena. “Merluzzo e salsicce. Credo
che scrivendone si possano in qualche modo dominare le salsicce e il
merluzzo”.» Lo scrisse Virginia Woolf nel suo diario; me lo ricordo perché è
stata la sua ultima annotazione prima di riempirsi le tasche di sassi e lasciarsi
annegare nel fiume Ouse.
Venezia. Ci sono nomi che non hanno bisogno d’altro.
Atterrai in tarda mattinata. La giornata era limpida e azzurra, e nell’oblò
apparve tutto nitidamente: il verde petrolio della laguna, il rosso mattone dei
tetti, le forme sinuose delle isole; e al centro, come una regina, l’ansa del
Canal Grande che brillava.
Peril tempo in cui sorvolammo la città, tenni la mano incollata al
finestrino.
La letteratura sommersa era il nome del convegno che Laura mi aveva
rifilato adducendo una scusa, e io mi ero affrettata a comprare un tubino
nuovo e a tagliare i capelli, così i ricci ora erano alti e solo due ciuffi più
lunghi sfioravano il collo. Il piumino, invece, me l’ero fatto prestare, e sulla
cima della scaletta, lasciato alle spalle l’arrivederci della hostess, ballavo in
quelle due taglie in più. In tasca, però, stringevo il dépliant dell’albergo:
cinque stelle, affacciato sulla laguna e con un punto d’attracco privato con
fioriere di petunie rosa.
Presa dall’entusiasmo, avevo messo in valigia dei vestiti troppo eleganti.
Durante le conferenze mi distraevo sulle camicie sobrie degli altri, sui
dolcevita a tinta unita. Chiudevo con vergogna il cappotto sui miei abiti.
Invidiavo gli occhiali seriosi di Gioia, la ragazza che seguiva con me il
convegno, la semplicità con cui parlava degli autori contemporanei, il fatto
che si piacesse struccata.
Io, invece, non facevo che riempirmi le tasche della carta da lettere
dell’albergo, e al mattino gareggiavo con un ospite napoletano, le macchie di
dentifricio ancora sulle labbra, per occupare il tavolo della colazione con
vista sulla laguna. Correvo per le scale, la gonna si sollevava appena, e con
gran classe superavo tutti e mi sedevo al tavolo.
Da lì si vedeva il sole sorgere su San Giorgio Maggiore e la chiesa che
diventava una sagoma grigio fumo su un fondale arancio. Dovevano essere le
sette. Le prue delle gondole ormeggiate erano bagnate di luce, le increspature
dell’acqua brillavano. Io guardavo con la tazza fra le mani. Il tè,
puntualmente, si raffreddava.
Si chiamava Oliviero Mari, l’organizzatore del convegno, ed era alto,
altissimo. Nelle fotografie di Palazzo Cini spuntava ovunque: un pennacchio
sullo sfondo della laguna.
La sera, durante le cene offerte dagli editori, si accapigliava con tutti sul
ruolo delle case editrici. Il risotto al radicchio fumava sulle forchette a
mezz’aria: cerchi di fumo si disegnavano mentre gesticolava con la posata in
mano. Solo il liquore conclusivo portava la pace e nei baicoli inzuppati si
spegneva ogni questione di principio.
Dopo cena filavamo via dai ristoranti e rimanevamo solo io, Gioia e un
ragazzo di nome Marco – portava una giacca a vento rossa e una grossa
macchina fotografica al collo (Silvia pensava che assomigliasse a un pesce
rosso).
Ci lasciavamo alle spalle il caffè Florian e la sua orchestra, piazza San
Marco, i portici come grotte magiche e ci dicevamo che quei giorni non li
avremmo dimenticati mai.
Gioia intanto si invaghiva di un giovane professore di latino che si ostinava
a presentarsi al convegno con una maglia di pile. Marco mi chiedeva di fare
una fotografia con lui.
Ci mettemmo in posa sulla banchina dell’isola di San Giorgio Maggiore,
quando gli dissi sì. Dio, se era più alto di me! «Volevo fare una foto con il
sorriso più dolce del convegno» disse, mentre scattava il flash. Venni come
una nanetta persa nel suo piumino nero, la sciarpa bianca arrotolata a
casaccio attorno al collo e le ginocchia strette per l’imbarazzo.
È un rumore quello che viene dall’altra stanza? Sollevo la penna, vado a
controllare. In cucina l’impasto riposa al buio. Ingredienti rigorosamente
separati – Vittorio allargherebbe le braccia compiaciuto. Io, invece, vorrei
ancora alzare il dito per chiedere parola, «ma perché non mescolare?».
Una volta, per telefono, Vittorio mi ha detto: «Non ti ho insegnato proprio
niente, allora?».
Ci penso spesso, tutte le volte che cado nella stessa tentazione di fusione, di
dono totale. Penso al modo in cui concluse quella telefonata: «Ognuno è
rimasto con i suoi difetti, a quanto pare». Ricordo il pezzo di parete che i miei
occhi fissarono dopo la sua affermazione. Ebbi la sensazione che fosse quel
pezzo di parete a fissare me, sgomento; sollevato, forse, di essere solo un
ammasso di mattoni e intonaco.
Intanto anche il soggiorno sta diventando buio, mentre in lontananza un
cielo rosa sfiora la striscia di mare che questa finestra concede. Aspetto
ancora un po’ prima di accendere la luce e riprendere a scrivere. In questa
penombra ogni cosa è sospesa: i battellieri che mi tendevano la mano dicendo
«prego, madame», il «ciao ciao bambina» di una fisarmonica su una gondola
di sposi e un gruppetto di americani che gridava «ehi, ehi!» per attirare la loro
attenzione. E io che Venezia non l’avevo mai vista e dal vaporetto vidi
brillare nell’acqua un piccolo oggetto rettangolare: se ne stava per metà a
mollo e per metà sommerso, aveva il colore e la superficie aggrinzita di un
foglio d’alluminio. Doveva essere leggero, perché quando levammo gli
ormeggi la nostra fiancata lo sfiorò appena e quello girò su se stesso un paio
di volte: rifletté più intensamente un raggio di sole, fu come un breve lampo,
poi si perse nella nostra scia.
L’ultima sera fu l’editrice Elsa Carraro a invitarci a cena. Palazzo Carraro era
nel sestiere di Cannaregio. Dietro i finestrini del vaporetto sfilavano la
facciata della chiesa degli Scalzi, il Ponte delle guglie, la Fondamenta dei
mori. I canali erano pozze scure.
Quando si aprì il portone, ci trovammo di fronte una larga scalinata in
marmo. Alle pareti dell’androne erano appese antiche cartografie di Venezia.
«Il canale in rosso, vedete,» indicò sulla carta Oliviero Mari «doveva
deviare dalla laguna le acque dei fiumi Sile, Muson… Comunque, il pezzo
forte è più avanti, sono del primo Ottocento.»
«Cosa?»
«Le due gondole nelle rientranze laterali. Affrettiamoci, così entriamo tutti
insieme».
Per lo stupore inciampai nel gradino. Qualcuno ridacchiò alle mie spalle.
Al nostro arrivo c’era già un centinaio di invitati e un servizio di catering
confusionario. Gli ospiti erano illustri e affamati. Finita la battaglia per il
cibo, si riunivano in capannelli coi bicchieri di vino in mano, paonazzi,
cercando di sovrastare gli altri con toni più alti del dovuto. Una cantante slava
di mezza età intonava improbabili nenie accompagnata da un’arpa. Aveva un
seno enorme e molti occhi puntati addosso.
«Mai vista una casa con tanti libri» sospirava intanto Gioia, indicando le
librerie che correvano lungo le pareti e le scale.
In un angolo un uomo sulla quarantina accese lo stereo e cominciò a
molleggiarsi con gli occhi chiusi. Era grosso e agile, quando aprì gli occhi
scoprì un verde limpido e spento.
«È Damiano Certi» mi informò Gioia. «Ha una casa editrice indipendente.»
Di lì a breve in molti lo circondarono ballando scomposti con i bicchieri in
mano.
«Oh mio Dio!» risi. «Sono più vecchi dei miei genitori!»
Fu allora che qualcuno mi prese per il gomito. «Signorina…»
Sobbalzai. Era un uomo sottile e alto. Indossava spessi occhiali neri, ovali,
che deturpavano i lineamenti del viso.
Mi indicò una porta: «Ha già visto la stanza più interessante della casa?».
Era tappezzata di quadri di nudi, quella camera: scene di autoerotismo, di
sadismo, nudità avvilenti di anziani. Le linee spigolose, il tratto nervoso e un
colore nero che colava sulla tela.
Al centro della parete, un uomo e una donna, frontali. Nudi, l’uno con la
mano sul sesso dell’altro e lo sguardo morbosamente fisso sullo spettatore,
come se lo stessero invitando a partecipare. Con stupore riconobbi nella
donna del quadro la padrona di casa.
«Prego, da questa parte.» L’uomo si diresse verso il balconcino, io lo
seguii.
«Vede quella palazzina con la trifora piena di fiori? È la casa del
Tintoretto.»
«Davvero?»
Si accese una sigaretta, due uomini passarono chiacchierando sotto il
balcone.
«Ogni volta che Elsa mi invita a cena vengo qui, a spiare quel palazzo. Ah,
quella del Tintoretto, una pittura furiosa…»
Fissai anch’io gli occhi su quella trifora lontana, il pensiero ancora al nudo
della Carraro. E l’uomo del quadro chi era?
«Mi perdoni, deformazione professionale» aggiunse subito dopo,
lisciandosi i capelli. «Curo la collana di storia dell’arte delle edizioni P.»
Mi tese la mano, disseil suo nome.
«Perché furiosa, la pittura del Tintoretto?» chiesi.
«Non è facile cercare il divino nell’umano, no?» replicò; poi si voltò verso
di me, il suo sguardo sembrò penetrarmi. Incrociai le braccia per nascondere
il seno.
«E lei, cosa cerca?»
«Non credo di saperlo.» Sentii la mia voce uscire stridula.
«Quando ero giovane passavo interi pomeriggi in un caffè di campo San
Barnaba con i miei amici» indicò un punto lontano da qualche parte della
città. «Interi pomeriggi a scambiarci libri di storia dell’arte, a progettare
grandi cose, uno con la passione per la scultura, un altro per l’architettura.
Vivevamo trascinati dalle nostre utopie…»
Io pensai alla mia adolescenza, alle vasche in via Sparano. Ai ragazzini dei
quartieri popolari che sotto carnevale ci riempivano dalla testa ai piedi di
schiuma bianca, senza che potessimo dire una parola.
Forse fu per questo che quando mi chiese «Ha una passione?» risposi «La
scrittura» e quando domandò ancora «La scrittura… accidenti. Poesia?
Racconti?» io confidai «Sto scrivendo un romanzo.» E gli dissi il titolo, Il
mandorlo perfetto, e il nome della protagonista, Silvia, con il viso bollente
per la vergogna perché non l’avevo rivelato mai a nessuno.
L’uomo adesso mi fissava con una specie di adorazione negli occhi, mentre
io balbettavo perché stessi scrivendo quella storia e lui mi domandava: «Ci
crede davvero a quel messaggio finale?».
Si avvicinò, mi allontanai. Intravidi degli ospiti passare nel corridoio, cercai
un appiglio per rientrare. Tuttavia, non lo feci. È che io, quella notte, dovevo
parlare. Perché quella notte Venezia era uno specchio delle fiabe, di quelli
che scegli chi essere e per incanto lo sei; perché ero in quel palazzo
magnifico, tra persone che mi sembravano eccezionali e non importava in
quale senso: loro erano splendenti. Perché quella notte non ero altro che una
nave che ha sciolto gli ormeggi e, preso il largo, finalmente tutt’intorno la
bagna il suo elemento: c’è solo acqua, acqua che non chiede, acqua che non
guarda; casa è lontana e allora si può essere quel che si vuole, forse quel che
si è.
«Hai l’occhio sinistro malinconico» disse passando al tu. «Guarda» mi
scostò un ciuffo di capelli dalla fronte «questo destro è più piccolo, più
diffidente, più attento. È incredibile la differenza: il destro guarda, il sinistro
sogna. Sì, senza dubbio sogna.»
Cominciai a sudare.
«Non ti vergognare, sono belli entrambi, ma stai attenta a quello sinistro,
perché è un canto di sirena.»
«Peggio per gli altri» risi con finta disinvoltura.
«Non ne sono convinto.»
«È che mi sento divisa in due, sempre» gli confessai allora.
Mi lanciò uno sguardo soddisfatto, da animale che ha stanato la preda.
«Divisa in due? Forse sei una ma tenti disperatamente di essere un’altra.
Oppure…»
«Oppure?»
«Oppure sei un po’ schizofrenica!»
Fu la violenza di quella parola, l’oscenità della risata che l’accompagnò a
svegliarmi.
«È tardi, abbiamo il vaporetto prenotato per quest’ora, gli altri staranno
andando via senza di me.» Rientrai in casa. Lo congedai. Lui mi seguì lungo
il corridoio, cercò di fermarmi. Arrivò fin dentro il guardaroba.
«Permesso» dissi con la voce che tremava. Mi cercò la mano, la sciolsi
dalla presa. Mi diede un bacio umido sulla guancia – pensai a una lumaca. Mi
porse un biglietto da visita.
«Se stanotte ne hai voglia, chiamami. Passeggiamo per Venezia.»
«Buonanotte.»
«Perché scappi? Sembri la piccola Lilì! Calmati! Dove scappi, petite Lilì?»
rise.
«Non so chi sia la piccola Lilì!» confessai tra i denti mentre uscivo da
Palazzo Carraro.
E chi fosse l’avrei scoperto molto, molto più tardi.
Sulla banchina mi imbattei in Gioia.
«Antonia! Eccoti finalmente! Non ti trovavo, il vaporetto è partito senza di
noi!»
Le raccontai in fretta e furia, continuando a chiedere scusa.
«Tranquillizzati, ci sono loro: ci danno un passaggio con il motoscafo,
dormono nel nostro stesso albergo.»
Salii a bordo. Chi fossero loro non mi interessava, avevo solo voglia di
tornare nella mia camera e dimenticare la vergogna che provavo per me
stessa. Ma me ne accorsi non appena ci sedemmo dentro: sollevai gli occhi e
di fronte a me, eccolo, Vittorio.
5
Secondo giorno. Mi sono sorpresa quando sono entrata in cucina e ho trovato
la coppa con l’impasto; me n’ero quasi dimenticata.
«Hai cominciato!» ha detto Anna soddisfatta, poi ha ripreso a stirare il mio
vestito.
Mi hanno invitata a teatro. Un ragazzo, che fa l’attore, ha promesso che
dopo lo spettacolo mi farà entrare nei camerini.
Bisogna andare avanti, accettare ogni invito, lasciarsi corteggiare. Farsi fare
promesse, fingere di crederci. Sedurre per sentirsi qualcosa di più che
fantasmi.
«Fai bene a uscire» ha commentato Anna, accanendosi su una piega.
«Già.»
Mi verrà a prendere impalato in un cappotto elegante, già lo vedo. Mi
offrirà da bere nel foyer. Io mangerò e berrò, allontanando e avvicinando le
ginocchia sotto il tavolino, come una bambina, mentre lui si alzerà ogni
minuto a salutare qualcuno. Durante lo spettacolo si volterà spesso a
guardarmi, valuterà il mio livello di divertimento – anche lui. Tenterà un
approccio posandomi appena la mano sul braccio, io sposterò il mio.
«Ecco qui» Anna mi ha mostrato compiaciuta il risultato del suo lavoro.
Mi farò portare dietro il palco, su per le scale tappezzate di manifesti di
vecchi spettacoli. Mi mostrerò esaltata dalla conoscenza degli attori, saprò
dire «complimenti» stringendo le loro mani.
«Te lo appendo fuori dall’armadio così non si sgualcisce.»
Risaliremo in macchina, lui mi chiederà «facciamo un giro?» e io dirò
«grazie, ma sono stanca, è tardi». Aggiungerò un «sono stata bene» sotto casa
quando lui, spento il motore, si metterà su un fianco, al posto di guida, e mi
accarezzerà il cappotto; scapperò dalla macchina, armeggerò con le chiavi del
portone, nell’ascensore non mi guarderò allo specchio.
«No, mettilo pure nell’armadio. Ci penso io poi.»
La verità, Anna, è che non posso.
Perché Vittorio si è portato via anche la gioia di andare a teatro, di
comprare un vestito, di mettere lo smalto; e vorrei, ma proprio non so come
perdonarlo per il fatto che mi venga il vomito al solo pensiero di entrare in
una macchina che non sia la sua, col lettore CD che andava a singhiozzi e i
libri incastrati nel portaoggetti…
«Seguiamo la ricetta?»
Secondo giorno. Mescolare l’impasto e coprire con carta stagnola.
Mescolare. Mescolare. Mescolare. (No, Vittorio, non mi hai insegnato
niente.)
Benché il composto fosse piuttosto solido, il cucchiaio di legno, girando, ha
formato dei cerchi concentrici: i cerchi del tronco di un albero.
Gioia aveva appena detto a me e al professore di latino «non trovate
bellissima la corteccia di quest’albero?».
Era metà pomeriggio, eravamo nel parco del Palazzo dei congressi,
sull’isola di San Giorgio Maggiore. C’era ancora luce, ma era una luce
sottile, di quelle che cominciano a cadere oblique allungando le ombre. Sì,
quella corteccia era bellissima, e io guardavo Gioia con riconoscenza, perché
aveva visto quel tronco, perché me l’aveva fatto vedere.
Squillò il telefono, mi allontanai per rispondere. «Sì, Laura, va tutto
benissimo». Seguii il viale, arrivai all’argine. Conclusa la telefonata, mi
fermai a guardare. C’era pace, c’era silenzio, c’era il languore di Venezia in
ogni cosa. In lontananza, Marco, sdraiato sull’erba a pancia in su, scattava
fotografie. A cosa? A cose che solo lui poteva vedere.
Era l’ultimo giorno. Eccola Venezia, quella città da poster che mostrava
solo le sue facciate, come se non ci fosse tridimensionalità. Eppure io ero
entrata nei suoi portoni, nei suoi alberghi, nei suoi palazzi. Finalmente c’era
stato qualcosa che non fosse solo da guardare.
«Allora, che ne pensi di questi giorni?»
Vittorio non era tipo da chiedere se disturbava piombandoti alle spalle in un
parco.
Indossava una camicia bianca e un completo nero. Era elegante e
straordinariamente sorridente.
«Sono stati molto belli. Strani ma belli» Mi guardai attorno, dov’era Gioia?
«Non è venuto al convegnoil tuo collega?» improvvisai.
«Damiano? Non so, anche lui sarà stato “sommerso”.»
«Dall’alcol di ieri sera, forse.»
Quanto era largo il suo sorriso?
La sera prima, in motoscafo, non ci eravamo rivolti parola. Se anche mi
aveva riconosciuta, non aveva fatto nulla per darlo a vedere. E poi era
piuttosto ubriaco. Era seduto accanto a Damiano Certi, parlottavano.
A un certo punto della corsa il motoscafo si era fermato. Il pilota aveva
provato a riaccendere il motore, ma gli aveva risposto un brontolio poco
confortante. Eravamo rimasti zitti, in apprensione, la laguna più silenziosa di
noi.
«Tacagà!» aveva sbottato a un certo punto il nostro conducente e si era
accasciato sul sedile.
Vittorio si era alzato: faticava a mantenersi in equilibrio. «Bene» aveva
detto. «Questo ci dice tutto sulla situazione in cui siamo, editori, ricercatori e
giornalisti!»
«Be’, quanto meno siamo tutti sulla stessa barca!» si era inserito Damiano.
Ci avevano intrattenuto con queste scenette fino a quando un altro
motoscafo non era venuto a trasbordarci.
Il secondo viaggio era stato più silenzioso: Damiano dormiva stordito
dall’alcol, Vittorio sedeva di fronte a me. Il motoscafo correva all’impazzata
per la laguna.
«Neanche Lara Croft!» avevo commentato con Gioia. Avevamo riso.
Vittorio aveva alzato lo sguardo su di noi, l’avevo guardato dritto in faccia.
Estratto dalla tasca un cappellino di lana nera, se l’era infilato reggendo lo
sguardo; aveva sopracciglia folte, brizzolate, delle borse sotto gli occhi che
erano diventati di un celeste grigio. Ero stata io ad abbassare i miei.
«È proprio così evidente che siamo una banda di sciamannati?» mi chiese
nel parco del Palazzo dei congressi.
Sciamannati, registrai. Rendeva bene.
«La verità?»
«Certo.»
«Mai visti tanti matti insieme!»
Mi morsi la lingua. Ma Vittorio rise di gusto. Mi chiese «perché?» e non mi
lasciò in pace finché non si sentì soddisfatto della risposta.
Mentre io inciampavo nelle parole, i suoi occhi andavano sui miei, sull’uno,
poi sull’altro, scendevano sulle labbra, secondo uno schema triangolare. O
era il naso che guardava? Me lo coprii con una mano, un attimo, il mio naso
troppo lungo, mi morsi le labbra.
Vittorio mi distolse.
«Quindi sei una giornalista?»
«Ma non voglio fare la giornalista.»
«Perché?»
«Perché il giorno dopo i giornali sono carta straccia.»
Sollevai gli occhi su di lui per constatare l’effetto delle mie parole. Vittorio
si accese una sigaretta senza una sola smorfia.
«Dovresti leggere Canzone di fine estate, sono sicuro che ti piacerebbe. È
un libro che abbiamo pubblicato l’anno scorso. È la storia di un professore in
pensione. Un giorno…»
Vittorio parlava e io entravo nel suo cerchio. Calamitata dai suoi gesti, dal
modo di scuotere la testa quando il discorso si faceva intenso, dalla macchia
sulla pelle che aveva sotto l’occhio destro; dalle labbra carnose che non
volevo guardare e invece guardavo.
In capo a pochi minuti un sorriso idiota si impose sul mio viso.
«Allora sei a Milano, per ora» disse all’improvviso.
«Sì.» Spostai un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, incrociai le gambe.
«Come ti chiami?»
«Antonia.»
«Antonia» ripeté. Una gioia infantile si posò sulle sue labbra.
La luce nel parco si faceva più arrendevole. Vittorio guardò l’orologio,
aspirò un’ultima boccata dalla sigaretta appena accesa e la gettò in acqua.
Provai un vago disappunto per la noncuranza del suo gesto.
«Fa freddo» disse sfregandosi le braccia. «Torniamo in sala?»
Camminò precedendomi, così vidi che nella tasca posteriore aveva il
giornale arrotolato che fuoriusciva di un pezzo.
«Niente meno che col playboy della compagnia» commentò Marco,
vedendoci rientrare insieme. «Ti facevo più originale.»
A convegno finito facemmo una fotografia di gruppo. Mentre ci invitavano
a guardare nell’obiettivo, colsi in flagrante Vittorio che, dall’altra parte della
sala, mi indicava a un amico.
Si avvicinò ancora.
«Devo rientrare con gli altri a Milano» mi ritrassi per gioco.
Mi passò il suo biglietto da visita. «Scrivimi, raccontami, se ti va.»
Molto tempo dopo, una notte, nel suo letto, gli avrei domandato di quel
giorno.
«Ti ricordi?»
«No.»
«Ma come no?»
«Ci hanno presentato.»
«Non ci hanno presentato! Sei un testone!» Gli avrei dato un bacio sulla
fronte, ma mi sarei avvolta il corpo nudo tra le lenzuola. Tu mi hai fermato,
tu hai attaccato bottone. E mi hai anche indicato al tuo amico. Ti ricordi
almeno perché?»
«Boh, avrò pensato che eri carina.»
«Mmm.»
«Sì, ho pensato “è carina”. Dormiamo?» e avrebbe chiuso gli occhi senza
aspettare una risposta.
6
Milano di domenica. Le maratone ecologiche, il blocco del traffico, quartieri
addormentati. Marciapiedi come trampolini vuoti: dove lanciarsi la domenica
mattina?
«Come è bella Milano senza auto!» dicevano alla radio. La spensi.
Rimase il rumore delle pentole impilate l’una dentro l’altra, che cercavo di
separare, inginocchiata sulle caviglie, la testa nel mobiletto della cucina.
Nella mia città la mia famiglia doveva aver già finito di pranzare. Potevo
vedere mamma sparecchiare la tavola, lo zio difendere il bicchiere: «Ma che
fretta del diavolo avete?».
Certamente papà aveva già preso la strada per il divano, nonno accendeva il
fuoco sotto il caffè. Nonna, con pochi cenni, dirigeva le operazioni.
Intanto io aggiungevo sale all’acqua di cottura e guardavo oltre la finestra:
c’era la vicina affacciata, le feci un cenno con la mano per salutarla, forse non
capì che era per lei, non rispose.
Accesi il computer, lo sistemai accanto alla tovaglietta.
Ora si saranno divisi, immaginavo: gli uomini in soggiorno, a sonnecchiare
davanti alla TV in attesa della partita, mamma e nonna, sedute sul divano del
salotto, avranno preso tra le mani il lavoro a maglia. Mia zia starà ancora
spazzando in cucina. «Ida vieni, abbiamo già pulito, il resto lo farà domani
Caterina!» le starà gridando la nonna. Ma Ida deve passare il panno tra i
fornelli, deve eliminare le incrostazioni, deve farli brillare. Poi si accenderà
una sigaretta e la fumerà affacciata alla finestra. Eccola: i ricci rossi appena
mossi dal vento mentre aspira e soffia via il fumo, i suoi occhi che guardano
la strada deserta della domenica pomeriggio. So che i suoi pensieri volano in
quel momento. Se fossi lì, immaginavo, mi metterei accanto a lei, e sì che
farebbero un rumore assordante i nostri pensieri messi insieme. Una voce la
chiamerà ancora, un’ultima fantasia di libertà la farà sorridere appena, prima
di tornare in salotto.
Da ragazzina, quando accompagnava nonna a fare spese, si toglieva le
scarpe per strada: ne abbandonava prima una, qualche isolato dopo l’altra.
Mia nonna se ne accorgeva solo quando erano tornate a casa e doveva
attraversare di nuovo tutta la città per ritrovarle. Per quanto poi si cresca,
certe cose non si disimparano mai.
Cominciai a navigare senza criterio in Internet. Digitai “Vittorio Solmani”,
cancellai ancor prima di premere INVIO. Avrei potuto usare il suo bigliettino,
scrivergli una mail. Come l’aveva definito Marco? Il dongiovanni del
convegno. O aveva detto proprio playboy? Allontanai il computer.
Dopo pranzo mi sdraiai sul divano con un libro, sprofondata nel silenzio.
Ecco, questo non sarebbe stato possibile a casa mia. Forse perciò mentre
leggevo mi sembrava di respirare a pieni polmoni e si faceva più sfocata
l’immagine del gomitolo di lana che mamma certamente aveva fatto cadere
vicino ai piedi – lana grossa, arancio, questa volta riuscirà a finire il maglione
prima che cambi stagione? – delle chiacchiere sulle ultime ricette trovate sul
giornale… Quante volte mi ero assopita ascoltandole? Poi le urla dall’altra
stanza mi svegliavano senza riguardo: «Gol!» o più spesso imprecazioni per
un calcio di rigore sbagliato.
Eccolo, il senso di malessere, proprio nello stomaco.
Mi chiudevo nello studio di mio nonno, aprivo i suoi libri antichi. Ma
proprio quando una frase letta pareva accendere una luce nella mente e la
stanza intera al confronto diventava un’immagine sfocata, un ultimo insultotrovava la strada nonostante la porta chiusa.
«Arbitro di merda! Venduto!» Una sedia veniva sbattuta, una manata
cadeva rabbiosa sul tavolo; e dal salotto nessuna reazione, si continuava a
lavorare a maglia e chiacchierare. Chiudevo il libro e sognavo di scappare
dove la vita non avesse il sottofondo avvilente di una cronaca calcistica.
Da: antonia@libero.it
A: vittorioso@gmail.com
Oggetto: fermata XXIV maggio
Ciao Vittorio,
non so se ti ricordi di me. Ci siamo parlati sull’isola di San Giorgio Maggiore, mi
hai consigliato Canzone di fine estate.
Volevo dirti che l’ho comprato quel giorno stesso. Poi ho preso l’ultimo
vaporetto, sono salita sul treno, Venezia è scomparsa. Avevo una strana
sensazione, come di fine di qualcosa e di inizio di qualcos’altro. Se l’hai mai
provato, sai che non è doloroso: gli inizi finiscono sempre per avere la meglio.
Comunque, il libro l’ho divorato sul treno per Milano, senza riuscire ad alzare
gli occhi un attimo, e poi sulla metro, con il trolley che si rovesciava
continuamente sulle gambe degli altri passeggeri, e poi ancora sul tram che mi
portava a casa… ero così presa che quando ho sentito una voce dire
«capolinea» mi sono resa conto che casa era ormai molte fermate fa.
È che parlava di Venezia, quel libro, anche se era Amsterdam. E di me che ero
andata via, anche se si chiamava Farrow ed era un professore con la
prostatite, il protagonista.
“Bene, sei andato via. Di che ti meravigli? È la perdita l’essenza della vita»
disse Bill sotto il suo cappellaccio. Intanto ad Amsterdam la neve si era sciolta
del tutto, era aprile e qualcuno stava arrivando in stazione con una grande
valigia. Un fascio di luce entrava in quella che fu la mia stanza.”
E allora è diventato tutto più leggero, persino Milano, di notte, alla fermata
sbagliata, con un trolley sempre più pesante, una calza smagliata, anche, e
una fame da lupi.
Che stupore.
Perciò, insomma, grazie.
Antonia («quella» del seminario di Venezia)
Mentre premevo il tasto INVIO pensai: In fondo, cosa può succedere?
Il mandorlo perfetto
ALLEGRE PER NON SO QUALE DOLCEZZA
Il paese di San F. aveva il sole in fronte quando Silvia lo attraversava, a tarda
mattinata. Lungo le strade, grandi reti da pesca erano distese ad asciugare su sedie di
plastica.
Una chitarra nella testa di Silvia suonava qualcosa di allegro, i piedi scivolavano ora a
destra ora a sinistra, come in un tango.
La strada per la spiaggia scendeva ripida. Le pietre sconnesse della pavimentazione
facevano sobbalzare sul sellino della bicicletta Franco il postino, che superava Silvia in
picchiate sgraziate e punteggiava la mattina di «ohi», «ahi», e conti alla rovescia per la
pensione.
A Silvia, invece, quelle pietre sembravano ammorbidirsi sotto i suoi passi. «Prego
signorina, dove la portiamo oggi?» le chiedevano, e i balconi, con le loro cascate di
gerani, rispondevano: «Silvia va in spiaggia ogni mattina, quando lo imparerete?».
Nella testa cominciava a suonare un flauto.
La bicicletta appoggiata al muro interveniva: «Posso avere l’onore di accompagnarla
io, signorina Silvia?».
Lei faceva un inchino e proseguiva.
Sull’uscio delle macellerie i bambini si dondolavano appesi ai fili delle tende – non le
toglievano gli occhi di dosso. I polli al girarrosto sembravano ruotare al ritmo della
musica.
Al bar, che era anche tabacchino, giornalaio e rivenditore di shampoo, cotton fioc e
cartoline ingiallite, i vecchi erano riuniti attorno al tavolo della briscola.
«Buongiorno! Buongiorno! Buongiorno!» salutava Silvia. Loro sollevavano la testa
dalle carte – sospendevano i battibecchi – e le strizzavano l’occhio. Allora nella testa
arrivavano le maracas a dare il ritmo ed era tutto un concerto fino al mare.
Avvicinandosi alla spiaggia si moltiplicavano i dadi di cemento nudo: erano le case in
costruzione da anni, fatte erigere da qualche imprenditore improvvisato dell’entroterra
e sequestrate dall’autorità giudiziaria; dimenticate lì, mentre i soldi venivano meglio
spesi per un parcheggio che si riempisse il tempo della stagione estiva, con un trenino
azzurro che portava ai lidi. Così restavano le case a San F. come bocche sdentate, con
le finestre senza vetri affacciate sul mare.
La casa rosa pastello però era bella, scalcinata e odorosa di salsedine, l’ultima del
paese e già tutta protesa verso la spiaggia. Un cactus immenso ne occupava metà
facciata, pareva una scultura di candelabri tenuti in equilibrio l’uno sull’altro, e in
confronto erano minuscole le persiane verdi alle quali Silvia ogni mattina bussava. Tre
volte.
Raccoglieva le girandole lasciate sui gradini, le conficcava nelle fioriere del davanzale,
ci soffiava su con tutto il fiato che aveva, fino a quando non si decidevano a girare.
Allora poggiava la bocca negli interstizi della persiana e gridava: «Motori accesi,
signor Amilcare! Pronti a salpare!».
Sentiva i passi strascicati del vecchio dietro la porta – odore di caffè? – poi la domanda
di rito, pronunciata con la voce rauca della vecchiaia: «Com’è la giornata lì fuori,
capitano Silvia?».
Silvia fingeva di guardarsi attorno, valutava la limpidezza del cielo, la direzione del
vento con l’indice bagnato di saliva: «Bella come l’Americaaa!» gridava, e riprendeva
la sua corsa verso il mare, con i violini e le maracas e persino una tromba a suonare e,
dietro, la risata del vecchio Amilcare e le girandole del suo davanzale a ruotare
impazzite.
7
Da: vittorioso@gmail.com
A: antonia@libero.it
Oggetto: R: fermata XXIV maggio
Antonia, proprio «quella» Antonia! È una splendida sorpresa.
Sono contento: che il libro ti sia piaciuto, che tu mi abbia scritto, che il buon
vecchio Farrow abbia lenito la tua nostalgia. Non capita spesso di incontrare
persone capaci di stupirsi e di comunicare lo stupore con la tua immediatezza.
Ma questo l’avevo intuito già mentre parlavamo a Venezia e io alla prima
impressione non sbaglio (quasi) mai.
Se ti fa piacere ti regalo qualche libro dei nostri, sempre che poi non abbia
conseguenze sulla tua mobilità ferrotranviaria.
A proposito, vicino alla fermata di piazza XXIV Maggio c’è una trattoria
fantastica, se hai ancora un po’ di quella fame da lupi potremmo andarci
insieme, così mi farei perdonare per le tue disavventure (ancora non riesco a
decidermi se nel tuo «perciò grazie» ci sia dell’ironia…).
Potrei persino insegnarti a non far cadere il trolley sui piedi degli altri nella
metro – è un tipo di asana che richiede molta disciplina, in effetti.
Fammi sapere per la cena, se ti va.
Un bacio,
V.
P.S. Se qualcuno deve all’altro ore di stupore, quello sono io, a te.
Al planetario c’era una conferenza notturna su amori e costellazioni.
«Euridice, Andromeda e le altre: l’amore eterno raccontato dalle
costellazioni.»
Eravamo una trentina di persone, dietro l’alta cancellata dei giardini. I
ghirigori in ferro battuto sul verde scuro della notte.
Avanzammo in silenzio quando il custode sciolse il catenaccio, formando
una fila composta sul viale. Un cono di luce scendeva dal lampione sulla
ghiaia, facendola brillare di un bianco così bello che mi piegai a raccoglierla,
come fosse fatta di conchiglie.
Gli uccelli notturni cantavano. Noi aprivamo e chiudevamo le clip delle
nostre borse, e già spiavamo il cielo, impazienti. Il suono impercettibile di
una fontanella che sgocciolava nel parco.
«Cinque minuti» disse una guardia.
Una bambina sollevò lo sguardo verso il nonno, lui le strizzò l’occhio; la
bambina gli prese la mano e si mise ad aspettare.
Quella notte al planetario imparammo che la parola desiderio deriva da de e
sidera (stelle), e che i desideri sono qualcosa di irraggiungibile, come le
stelle; però quando le stelle cadono sembra che si facciano più vicine a noi, e
allora anche i desideri ci vengono incontro. È per questo che si crede che le
stelle cadenti li esaudiscano.
Imparammo molto altro ancora, che oggi abbiamo dimenticato. Ma la verità
è che quando prendemmo posto all’interno del planetario e si spensero tutte
le luci e rimase solo il cielo pieno di stelle su di noi, quante non
immaginavamoneanche potessero entrarci, perdemmo tutto in una volta il
respiro, la percezione delle cose, dove eravamo.
«Cristo santo» disse solo Gioia, e io la rimproverai di aver rotto il silenzio.
All’uscita brancolammo stordite.
Cercando un tram per tornare a casa non riuscimmo a dire una parola che
non fosse “bellissimo”. «Sai cosa desidero io?» farfugliò Gioia. «Un uomo
con cui andare al planetario. Che capisca.»
«Già» risposi, ma forse Gioia era già scesa alla sua fermata e sul tram
eravamo rimasti soltanto io, l’autista e il mattino che si faceva strada.
Vittorio Solmani inorridirebbe alla sola idea, pensai, ma non lo dissi.
Da: antonia@libero.it
A: vittorioso@gmail.com
Oggetto: stazione Genova
Ciao Vittorio,
spero non ti dispiaccia se ho cambiato fermata, ma la quiete non è tra le mie
maggiori virtù. Non so mai dove fare l’uovo, per dirla con mia nonna. E infatti
questo fine settimana sarò fuori. Perché non mi stupisci tu, raggiungendomi? A
Porto Venere, domenica, per un pranzo. Poi facciamo insieme la strada del
ritorno.
Antonia
«Sai cosa mi ripeteva sempre il mio professore di letteratura greca?» feci
l’occhiolino a Silvia. «Antonia, guarda come cadono gli dèi!»
Silvia rise.
«Io e te non ci facciamo mica fregare così facilmente!» aggiunsi.
Accesi la musica, com’era bello quella sera il mio soggiorno.
«Pensi che andrà bene il completo beige?»
8
Ditelo alla donna che ha abbordato alla festa sul fiume, alla bionda alla quale
ha offerto un calice di vino mentre le sciorinava il copione delle sue
ossessioni quotidiane per farla ridere. Ditelo alla bella bionda con la
giacchetta rossa griffata e stretta in vita, che adesso si sta spazzolando i
capelli sul bordo del letto di Vittorio e tra poco volerà in ufficio, non prima di
averlo salutato con un «ci sentiamo» da donna di mondo.
Diteglielo che io ho camminato in quella stanza, a piedi nudi. Ho rifatto il
letto mentre Vittorio era sotto la doccia. Ho guardato i libri che aveva sugli
scaffali senza osare sfiorarli. L’ho visto rientrare con l’accappatoio indosso, i
capelli bagnati; si asciugava il viso con la manica e, con la voce roca del
mattino e la erre moscia, mi chiedeva: «Tu sei già pronta?».
Chiedetelo alla bionda con la coda di cavallo che gli parla con la schiena
dritta e qualche fredda smorfia, e che oggi andrà dicendo che ha scopato con
Vittorio Solmani; dirà così, né più né meno. Lei lo sa che Vittorio compra la
pasta fresca sempre dalla stessa signora? Che la sua maglietta preferita è
rossa, di una rivista di filosofia? Che ha sempre un pezzo di camicia che gli
esce dai pantaloni? Che non sa ballare (la notte in cui provò, a casa mia,
ridemmo al punto da sentirci male), che aggiunge rosmarino a ogni piatto,
che ha delle pantofole orrende?
Io avrei tagliato tutti i miei capelli per lui. Ditelo alla bionda che adesso
toglie i suoi dalla spazzola con disappunto.
In quella stessa stanza Vittorio, nudo, apriva l’armadio e sceglieva che
camicia indossare. La sua spina dorsale mi stava davanti. Seduta sul letto, già
con la matita sugli occhi e la borsa a tracolla, ne seguivo la linea. Il mattino
avanzava piano nella camera: si formava un triangolo di luce sul pavimento a
scacchi, tra il letto e l’armadio, cadeva sul piede scalzo di Vittorio.
E adesso trovo una sua fotografia su un giornale e mi domando: «Ma si è
tinto i capelli?».
Vado in cucina, cerco il dolce. Dammi qualcosa da fare stasera, Padre Pio,
sono stanca di piangere dentro un cuscino. Vale come preghiera?
Ma neanche l’impasto mi è amico, oggi.
Terzo giorno: lasciare riposare l’impasto senza mescolare.
A volte non si può proprio farci niente. Tocca aspettare.
Perché accade che a un certo punto le nostre emozioni prendano una
direzione inaspettata? All’improvviso, deragliano.
Nel treno che mi riportava a Milano, quella domenica notte, cercai a lungo
di riportarle sulla strada maestra, ma loro erano già andate via.
Il vetro del finestrino rifletteva ostinatamente la mia immagine, il contorno
dei capelli scarmigliati, la luce protettiva del vagone, l’abbandono sonnolento
degli altri passeggeri. Il paesaggio notturno non era che un’intermittenza di
luci in fuga su un fondale scuro.
Vittorio non era venuto. D’altronde, il mio era stato un invito assurdo. Una
sfida, un modo per metterlo alla prova, per sconfessarlo. «Se qualcuno deve
all’altro ore di stupore, quello sono io, a te.» Non si dovrebbero scrivere cose
del genere. Perché qualcuno, nel leggerle, potrebbe spalancare gli occhi,
indugiare un minuto in più sulla frase imprevista, ripetersela in un momento
banale della giornata.
Ero certa che quelle parole fossero per lui solo un’esca per guadagnarsi una
delle sue avventure. Io non sono una sciocca da abbindolare con certe
banalità, mi ero detta leggendo una volta in più la frase, e se davvero l’ho
stupito verrà a Porto Venere. Vittorio non era venuto.
Lo immaginai seduto al mio fianco su quel treno. Il mio corpo non sarebbe
stato rivolto tutto al finestrino, quasi rannicchiato. Gli avrei nascosto il mio
profilo, per il quale provavo una certa vergogna; lui avrebbe parlato a lungo,
con la sua aria sorniona e forse a un certo punto si sarebbe zittito, mi avrebbe
accarezzato una guancia e avrebbe detto: «Se qualcuno deve all’altro ore di
stupore…».
Ma Vittorio non era venuto.
L’avevo smascherato, ero stata brava, non avevo abboccato al suo amo, io
no, potevo essere soddisfatta di me.
Ma cos’era quella mancanza nel petto, quel senso di cose perdute, di ultimo
giorno d’estate?
Che sciocchezza, mi ripetevo, non è niente che riguardi lui. È solo
vocazione a fantasticare. È solo un mio vuoto da colmare. È stanchezza per la
lunga giornata. È nostalgia di casa, un po’ di solitudine. Non è per lui questa
tristezza: è il treno che viaggia di notte, è il paesaggio che si nega alla vista, è
lo sguardo assente del signore seduto di fronte a me, è il cellulare che non
vibra da ore, è il rumore leggero delle pagine sfogliate di una rivista nel
silenzio assorto dello scompartimento…
Mentre il treno mi riportava a Milano, io tradivo la strada maestra.
9
Intanto Silvia cresceva. Tra le righe che scrivevo su di lei, a notte inoltrata,
strizzando gli occhi miopi sullo schermo di un portatile troppo piccolo, e
attorno a me, come fosse stata vera. Sbucava sulla banchina della
metropolitana, nascosta dietro un quotidiano per fare la spiritosa, mi
aspettava all’uscita del supermercato per prendere l’altro manico della busta
della spesa e dividerne il peso. Attraversavamo la strada così, unite da un
sacchetto di plastica sempre sul punto di rompersi, e lei parlava parlava
parlava, io la tiravo quando le macchine non rallentavano, lei indicava le
strisce pedonali con aria imbronciata, poi cominciava a saltellarci su, un
piede per ogni striscia, chi sbagliava tornava al punto di partenza.
Silvia aveva vent’anni ed era piccola come una bambina e grande come una
donna. Era affetta da sindrome di Down, «ma questo è un particolare», come
diceva lei, e chissà chi le aveva insegnato a dire così. Silvia, semplicemente,
aveva gli occhi a mandorla. Perché era nata sotto un mandorlo. Così le aveva
spiegato il padre, Ruggero.
«I bambini nascono sotto gli alberi e ogni albero determina la forma o il
colore dei loro occhi. La mamma, per esempio, è nata sotto un castagno,
perché i suoi occhi hanno il colore delle castagne, e anche un po’ la forma, se
guardi bene. Io sono nato sotto un pino, vedi il verde della mia iride? E tu,
come i tuoi amici dell’associazione, sei nata sotto un mandorlo.»
«Quello che abbiamo in cortile?»
«Proprio sotto la tua finestra.»
Aveva le sue idee, Silvia, e una gioia primitiva, elementare; forse per
questo non potevo fare a meno di lei.
La verità era che non si domandava dove mettere le mani quando qualcuno
le parlava. Come atteggiare le braccia, dove posare gli occhi. Non si
chiedeva: dovrò raddrizzare la schiena? Come sarà la mia voce?
Una cosa terribile questa della voce. Il fatto che nessuno di noi la senta
come arriva agli altri, apre un abissosu tutto quel che noi siamo: siamo la
voce che sentiamo noi o quella che sentono gli altri? Che strana cosa la vita,
non si può che restarne perplessi.
Ma Silvia no, Silvia non conosceva questa perplessità; in lei la vita era
immediata, in Silvia era come se la voce interna e quella esterna
coincidessero e non si può dire che non sia una forma di felicità, questa.
Almeno fino a quando non si innamorò di Antonio. L’amore stravolge tutto,
accidenti.
10
«Ho bisogno di cambiare continuamente casa. Dopo massimo un paio d’anni
devo traslocare.»
Vittorio mi aveva portata in un lounge bar di Milano, con grandi lampadari
e divanetti bianchi larghi, più simili a letti. Forse era questa l’impressione che
gli avevo fatto, di una da locale alla moda.
«Come ci sdraiamo?» aveva scherzato, indicando i cuscini rossi sparpagliati
sui divani. Non avevo capito la battuta.
«È che ci sono già delle certezze nella mia vita: il lavoro, per esempio, e ho
bisogno di sapere che non è tutto già definito, che ci sono dei margini di
cambiamento.»
«Un po’ impegnativo un trasloco ogni due anni!»
«In realtà ho pochissime cose con me, ormai mi sono organizzato!»
Un ragazzo venne a prendere le ordinazioni. Tentennai.
«Non ci sono analcolici?»
Vittorio rise. «Analcolici?»
«Non bevo» alzai le spalle.
«Fumi almeno, spero!»
«No. Non bevo neanche caffè, se è per questo!»
«Credo di non aver mai conosciuto nessuno che non faccia nessuna di
queste tre cose!»
Ordinai un cocktail alla frutta, mentre Vittorio scuoteva la testa divertito.
Quella sera non avremmo dovuto essere lì. Mi aveva invitata a uscire, io
l’avevo dirottato all’ex lanificio, dove ero con i miei amici per un concerto.
Non volevo restare sola con lui.
«Per mettere le cose in chiaro!» avevo spiegato a Gioia.
«Cosa c’è da mettere in chiaro?»
Non avevo saputo rispondere.
Ma poi Vittorio aveva tardato, per tutto il concerto avevo tenuto d’occhio
l’entrata e litigato con la gonna che continuamente saliva sui fianchi. Fino a
quando era arrivato un SMS: «Sono qui fuori, non so neanche dove
parcheggiare. Ti aspetto.»
Si era fatto come diceva lui.
«Però,» si tolse gli occhiali e li posò sul tavolino «ho delle abitudini sacre:
il caffè delle quattro, per esempio, è irrinunciabile.»
«Ovunque tu sia?»
«Ovunque. Come un musulmano si inginocchia al suono del muezzin. Il
cinema del lunedì sera, anche. La cena con gli amici del martedì, il frullato
della domenica mattina…» elencava compiaciuto.
«E queste abitudini non possono essere sconvolte.»
«No.»
«Piuttosto cambi casa?»
«Sì!»
Gli guardai le mani. Erano belle, ma di una bellezza senza grazia. Da
manubrio di una moto.
«Quando saltano, mi sento disorientato. Però poi ho bisogno di sapere che
intorno a queste certezze c’è un mondo che può essere inventato ogni giorno.
La libertà, la parola più bella» concluse allargando le braccia.
«La libertà di restare costretto nelle tue abitudini?»
Si rimise gli occhiali. Allargò le gambe, si protese verso di me (beato lui
che sapeva come sistemarsi su quei divanetti, pensai).
«La libertà di scegliere di cosa essere schiavo» aggrottò la fronte. «La
libertà non è uno spazio sconfinato nel quale non si intravede neanche un
orizzonte. Non è questa la libertà in cui credo, almeno.»
«Signorina, le è caduto il cappotto a terra» mi disse una cameriera. Mi
chinai a raccoglierlo, imbarazzata. Adesso cominciavo a far cadere le cose.
«E poi non si chiede libertà, ma qualche apparenza di libertà. Emil Cioran
docet» mangiò un’oliva e sputò il nocciolo nel tovagliolino.
Mi avvicinò la ciotola, offrendomene una. L’idea di sputare il nocciolo
davanti a un uomo che sì e no conoscevo mi imbarazzava. Feci segno di no
col dito.
Arrivò il cameriere con le nostre ordinazioni. Vittorio si tolse di nuovo gli
occhiali, scoprendo l’azzurro degli occhi, e brindammo.
Dalla vetrata si poteva vedere l’Arco della Pace.
«Passeggiamo un po’, dopo?» chiesi.
«Non ti piace questo posto?»
«Sì, certo, ho solo voglia di fare due passi.»
«Non so dove potremmo andare. A Milano non si passeggia, a Milano ci si
sposta da un punto a un altro con uno scopo.»
Mi guardò per qualche istante, mi sorrise con una certa dolcezza. Mi
accarezzai la nuca.
«E tu?» chiese infilzando un’oliva con lo stuzzicadenti.
«Io cosa?»
«Hai un fidanzato?»
«Perché me lo chiedi come se tu mi avessi parlato della tua fidanzata?»
«Ti ho parlato della mia relazione con la libertà.»
«Non è una donna.»
«Ma è un amore.»
«Io ho un neo e quando ero bambina decisi che l’uomo che l’avrebbe notato
sarebbe stato quello della vita.»
«L’uomo della vita!» mi fece eco. «Erano anni che non sentivo qualcuno
esprimersi così!»
«Un difetto dell’immaginario romantico, forse» misi le mani avanti. Le
parole mi uscirono di fretta, incespicando.
Vittorio bevve un sorso del suo drink.
«È in un posto tanto nascosto, il neo?»
«No, è visibile a tutti, in teoria; in pratica lo nota solo un occhio attento, è
un particolare riservato ad animi nobili!»
«Addirittura? Devo cercarlo, allora.»
Si sporse sul tavolo, facendo finta di squadrarmi.
«Non lo troveresti.»
«No, credo di no.» Parve un attimo interdetto dalla mia stoccata. «E
qualcuno è stato più degno di me?»
«Un ragazzo l’ha notato, sì, alla nostra prima uscita. Siamo stati insieme
molti anni, siamo stati felici insieme. Ci volevamo sposare, ma poi è andata
diversamente…»
«Quanti anni avevi?»
«Ventidue.»
«Menomale che non ti sei sposata.»
«Perché?»
«Come perché? A ventidue anni!»
«Mah.»
Nel bar si diffuse la musica.
«Un neo, ma pensa un po’!» e fece una delle sue belle risate che gli
riempivano il viso. Cominciò a muovere la testa e il piede a ritmo di musica.
Mi lanciava delle occhiate allegre, io non potevo che sorridergli, anche se
non volevo, assolutamente non volevo.
«Ma cosa fai, lasci anche l’analcolico?»
«Non mi va più.»
Usciti dal locale, passeggiammo nel freddo di Milano, mentre lui mi faceva
da cicerone. Conosceva la storia di ogni monumento, piazza, quartiere.
«Come sai tutte queste cose?»
«È la mia città.»
Aveva smesso da poco di piovere e sembrava che Milano sospirasse – uno
di quei sospiri lunghi che scappano a fine giornata, l’attimo prima di
addormentarsi.
Vittorio continuava a elencare date e nomi, le vetrine dei negozi illuminati
mi sembravano così sciocche in confronto, da scivolare via senza seminare
desideri.
Io non sapevo che dire, ascoltavo e basta. Cercavo delle domande da fargli,
ma non le trovavo. Degli argomenti da introdurre, ma non arrivavano.
Camminavo sbandando appena, una cosa che facevo sempre. Quando per un
attimo mi ritrovai quasi addosso a lui, mi venne voglia di restargli vicina. Ma
lui non mi guardava mai?
Mi aveva prestato i suoi guanti. Con le mani in tasca per non farmi vedere
sfregavo pollice e indice, per sentirne la consistenza. Era una lana ruvida.
All’improvviso si fermò e tacque. Ma era davvero “bastard” che leggevo
sulla sua giacca di pelle?
Tirò fuori la pezza degli occhiali e pulì le lenti.
Mi guardai attorno, cercai qualcosa da dire. Ma qualunque pensiero mi
sembrava stupido rispetto ai suoi discorsi.
«Ti dispiace se fumo un’altra sigaretta?» chiese rompendo il silenzio.
Mi parve deluso dalla mia assenza di argomenti.
«No, perché dovrebbe?»
Si appoggiò a un portone per fumare, a qualche metro da me. Mi sentii sotto
esame. «Fa scena muta la signorina?»
«Poi ti accompagno a casa.»
Rimasi sola in mezzo alla carreggiata, confusa. Guardai il cielo. «Di’
qualcosa Antonia, di’ qualcosa, ce l’hai la lingua?»
«Per i Greci la luna era una ragazza che attraversava il cielo su un carro
d’argento trainato da cavalli bianchi» mi uscì.
Vittorio buttò fuori il fumo in modo brusco, fu come uno sbuffo. Tacqui.
«Qual è il tuo cognome?» chiese, leggendo i nomi sul citofono quando
arrivammo sotto casa mia.
Gli indicai il tasto.
«Lucida handwriting?»
«Cosa?»
«Il font che hai usato. Per l’etichetta.» Una nuvola di vapore gli uscì dalla
bocca.
Si avvicinò, io finsi di guardare il mio nome sul citofono.
«Non so, non mi ricordo…»
Mi sfilò un guanto per riprenderselo,

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