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I lupi del Vaticano

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Titolo originale: The Wolves of St. Peter’s
Copyright © by Gina Buonaguro and Janice Kirk, 2012
Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria
and Westwood Creative Artists Ltd
Prima edizione: agosto 2013
Traduzione dall’inglese di Silvia D’Ovidio
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5671-5
www.newtoncompton.com
http://www.newtoncompton.com
Gina Buonaguro – Janice Kirk
 
I lupi del Vaticano
 
 
 
 
Newton Compton editori
A John Pearce
Il saggio è guidato dalla ragione,
le menti mediocri dall’esperienza,
lo stupido dalla necessità
e il bruto dall’istinto.
Marco Tullio Cicerone
1
Non era la prima volta che vedeva ripescare un cadavere dal Tevere, ma
era la prima volta che ne riconosceva uno. Riusciva quasi a sentire la sua
voce nella pioggia. Calendula. Mi hanno dato il nome del fiore. Si fermò ai
piedi del ponte, a guardare i due poliziotti che tentavano di agganciare il
corpo con dei lunghi bastoni per tirarlo a riva. Era rimasto impigliato a uno
dei piloni del ponte, confuso fra i detriti e le alghe. Sporgendosi dal
parapetto, un gruppo di ragazzini strillava istruzioni ai poliziotti, chiassosi
come i gabbiani eccitati che volavano in circolo come avvoltoi.
Francesco Angeli si sentiva inquieto, i suoi stivali affondavano nel fango
putrido fino alle caviglie, e la pioggerellina insistente si infilava nel mantello
e penetrava sin nelle ossa. Alzò lo sguardo su Castel Sant’Angelo, grigio
come il cielo, che incombeva all’altro capo del ponte, e si disse che doveva
andare, consegnare il sacco che aveva con sé e mettersi al riparo dall’ira del
suo padrone, Michelangelo. Ma non poteva. Persino nell’acqua sudicia, i suoi
capelli apparivano ancora dorati come il fiore di cui portava il nome, dorati
come quelli della sua amata Giulietta.
La prima volta che aveva incontrato Calendula l’aveva scambiata davvero
per Giulietta, e l’aveva quasi chiamata per nome. Ma poi era stato travolto
dallo sbalordimento, dalla delusione, aveva sentito il cuore spezzarsi un’altra
volta; e Calendula aveva pensato che tutto quel subbuglio dipendesse da lei.
Non hai mai visto dei capelli d’oro come i miei, vero?, aveva domandato,
avvolgendosi una ciocca lucente intorno al dito. Parlava con una voce da
bambina, anche se aveva vent’anni, la sua stessa età. Invece sì, aveva risposto
lui quando era riuscito a ritrovare le parole. Non su una puttana, però. Voleva
sembrare crudele, ma gli era tremata la voce.
I ragazzi esultarono quando i poliziotti riuscirono finalmente a
disincagliare il corpo di Calendula dal pilone e lo tirarono a riva. Sfuggì alla
presa, cominciando a ruotare molto lentamente, mentre il peso del vestito
fradicio minacciava di trascinarlo a fondo.
Ci fu un frenetico agitarsi di bastoni mentre i poliziotti cercavano di
riacchiappare il corpo, e i ragazzini iniziarono a lanciare sassi, tanto per dare
una mano. Poi, con loro grande ilarità, uno dei poliziotti scivolò sulla
banchina fangosa e si ritrovò nell’acqua fredda fino alla vita. Si tirò su e,
imprecando contro le risate dei ragazzini, si sfilò il mantello, lo lanciò a riva,
e avanzò finché l’acqua non gli arrivò al petto. Afferrò un lembo del vestito e
barcollò sino a uscire dall’acqua.
Francesco avrebbe potuto andarsene. Ma qualcosa lo costringeva a
continuare a guardare.
Il secondo poliziotto corse ad aiutare il primo: trascinarono il corpo sulla
banchina e poi lo lasciarono cadere. Uno di loro le scostò i capelli con uno
stivale, e Francesco trasalì alla vista del suo volto, pesto e insanguinato. Gli
occhi blu erano ancora aperti, fissi e iniettati di sangue. I capelli di cui andava
così fiera, che gli uomini avevano adorato, e le donne invidiato, erano spenti
dalla melma, dalle alghe e dai resti marci di un vecchio sacco. L’abito, scelto
con cura perché si intonasse al colore della sua chioma, si era attorcigliato
intorno al suo corpo snello, ed esponeva agli sguardi un seno dello stesso
colore di una carpa morta. Francesco sentì la bile salirgli in gola, e si voltò in
fretta.
Era stata ritratta con quel vestito. Non da Francesco, ma da Marco. Un
ritratto della Vergine con Gesù Bambino, con Calendula in un campo di
margherite gialle e un bambino con i boccoli brillanti come i suoi sparsi tra le
pieghe scintillanti del suo vestito. La Madonna della calendula. Splendente
di una luce misteriosa, era la cosa migliore che Marco avesse mai dipinto. Il
capolavoro di un pittore solitamente mediocre, almeno secondo Francesco.
Era stato commissionato da un ricco mercante marittimo noto come il Turco,
e Marco aveva fatto un’enorme fatica a lasciarlo nelle mani di quell’uomo.
Mi dà la nausea pensare agli occhi di quel bastardo lardoso su di lei, aveva
detto. Calendula non era soltanto la modella di Marco, era la sua amante, e lui
era geloso di tutti quelli che pagavano per avere un breve assaggio della sua
bellezza.
“Era così bella”, pensò Francesco, bella quanto la donna che gli ricordava.
Ma ora, con il braccio sinistro piegato dietro la schiena, il destro disteso sulla
banchina, le dita piegate come artigli, stava diventando difficile richiamare
alla mente quel fascino.
L’aveva vista appena due sere prima nell’elegante bordello di Imperia,
posto di ritrovo prediletto degli artisti di Roma. Alla luce sfavillante delle
candele Imperia, con indosso un abito viola, metteva a proprio agio i clienti,
mescendo con la stessa generosità lusinghe e vino. Una coppia di valletti, di
cinque o sei anni, vestiti da cherubini con tanto di ali dalle punte dorate,
porgevano vassoi d’uva e dolcetti mentre una ragazza a seno nudo suonava
un liuto d’avorio. Al centro del salone spiccava Calendula, circondata da una
dozzina di uomini. Seduta su una delicata poltrona dorata di fronte al camino
di marmo rosa, si crogiolava nei loro appassionati complimenti mentre
Marco, lottando per avvicinarsi, cercava di infilare la propria sedia tra quelle
degli ammiratori. Francesco, un po’ in disparte e già un po’ ubriaco, non
riusciva a toglierle gli occhi di dosso, disorientato dalla luce delle fiamme che
le danzava sui capelli e dall’abito giallo che scintillava a ogni fruscio della
seta. Solo quando aveva teso la mano per prendere un grappolo d’uva si era
accorto dell’anello, una grossa ametista incastonata in una pesante fede d’oro
decorata con intricate volute. Anche Marco, che era finalmente riuscito a
raggiungerla, se ne era accorto. Chi te l’ha dato?, aveva domandato. Il
Turco?
Qualcuno molto più ricco di quanto tu non sarai mai, aveva risposto lei
evasiva, e aveva continuato a torturarlo posando un bacio sull’anello.
Allora è proprio lui, aveva detto, afferrandola per un braccio e cercando
di sfilarle l’anello. Lei si era messa a ridere, divincolando la mano dalla sua, e
lui l’aveva schiaffeggiata così forte da far uscire qualche lacrima da quegli
occhi blu come il cielo siciliano sotto cui era nata, blu come quelli di
Giulietta.
C’erano state diverse reazioni di sorpresa, ma era stato Francesco il primo
ad agire. Riscossosi dal suo stupore, si era infilato in mezzo agli uomini,
aveva scaraventato Marco giù dalla sedia e gli aveva sbattuto la testa sul
bordo del camino di marmo. Ci erano voluti Raffaello e altri due uomini per
staccarlo dallo sbalordito pittore. Lo avevano messo di peso sulla sedia più
vicina e avevano intimato a Marco di andarsene. Francesco se li era scrollati
di dosso, dicendo che se ne sarebbe andato lui. Aveva ingollato il resto del
vino e si era alzato, consapevole che Calendula lo stava guardando, con la
mano inanellata premuta contro la guancia. Non aveva guardato Marco, solo
lui, Francesco, come per dire: Per te non sono una puttana qualunque, vero?
Francesco aveva gettato il bicchiere nel camino e se n’era andato senza
aggiungere una parola.
Ma quell’anello non c’era più. E soprattutto mancava il dito che lo aveva
indossato. «Non ha più il dito», esclamò incredulo. Chiaramente non era un
caso. E se fosse stato proprio Marco a ucciderla per gelosia?«Che hai detto?».
Francesco si voltò e vide un uomo in piedi accanto a lui. Un terzo
poliziotto, con una faccia larga e butterata e il naso colante.
«Non ha più il dito», ripeté Francesco con riluttanza.
Il poliziotto guardò il cadavere strizzando gli occhi. «Come fai a
saperlo?», gli chiese secco.
«Si vede. Guardi. Il medio. È stato tagliato via».
«Devi avere l’occhio fino, tu», disse il poliziotto con fare sospettoso.
L’altro poliziotto stava trascinando il corpo di Calendula su per la
banchina, ma poi i ragazzi del ponte si fecero avanti – uno la afferrò per un
braccio, l’altro per la gamba – e gli uomini arretrarono, ben contenti di lasciar
loro quell’incarico. Nel frattempo si era raccolto un gruppetto di curiosi, tra
cui una donna con un neonato che piangeva avvolto in uno scialle, un uomo
che conduceva un ciuco dall’aria miseranda carico di fascine di legna da
ardere e un paio di monaci incappucciati.
Anche il poliziotto accanto a Francesco si era fermato a osservare la
scena; Francesco si chiese se avesse appena perso una buona occasione per
andarsene. Non avrebbero di certo sprecato tempo a indagare su
quell’annegata, e lui, che se ne stava lì a guardare, poteva fare al caso loro
come sospetto. Immaginò di essere trascinato in tribunale. Se gli ufficiali
avessero scoperto che aveva a che fare con l’uomo che stava dipingendo la
cappella del papa, avrebbero potuto decidere di estorcergli una bella multa,
ma temeva che prima di tutto gli avrebbero legato le mani dietro la schiena e
l’avrebbero issato su una trave per vedere se riuscivano a trarne qualche
storia interessante. Per non parlare del fatto che Michelangelo difficilmente
avrebbe ritenuto suo dovere pagare la cauzione al servo che non era riuscito a
portargli da mangiare. Non era neppure certo se il suo lunatico datore di
lavoro avrebbe avvisato suo padre o i suoi amici. Del resto, Michelangelo
non sapeva chi fossero i suoi amici. Se l’avesse saputo, l’avrebbe mandato di
sicuro alla forca.
I ragazzini raggiunsero la sommità della banchina e lasciarono cadere il
corpo di Calendula a pancia in giù, a un metro da lui. Un gabbiano le atterrò
vicino e iniziò a beccare la mano con il dito mancante. Sbatté le ali come se
volesse portar via l’intero corpo, e uno dei poliziotti gli diede un calcio nel
fianco con lo stivale. L’uccello arretrò, lasciò ricadere la mano e garrì
improperi al suo aggressore.
Il poliziotto accanto a lui si mise il cappuccio del mantello, Francesco ne
dedusse che aveva freddo e si annoiava. Se anche l’aveva considerato un
possibile sospetto, di certo aveva concluso che sarebbe stato troppo faticoso.
Francesco, interpretandolo come un segno che lo spettacolo era finito, spostò
il sacco con il pane e il vino sull’altro fianco e si voltò per andarsene,
affondando gli stivali nel fango.
«La conosci?»
«No», rispose Francesco. Non avrebbe certo rischiato di riaccendere
l’interesse del poliziotto. «No», disse di nuovo. «Sarà una di queste puttane».
«Mi sa che hai ragione. Così ci toccherà sobbarcarci anche le spese della
sepoltura, vedrai che non ci sarà nessuno disposto a pagare per venirsela a
prendere».
«Forse no», concordò Francesco, pensando che sarebbe andata senz’altro
così se non avesse avvisato nessuno. Ma l’avrebbe fatto, e prima avrebbe
portato a termine quel compito, prima avrebbe potuto dimenticare tutto. Non
sarebbe andato da Marco, però, non dopo la notte precedente. Forse da
Raffaello. Poteva fidarsi, se ne sarebbe occupato lui.
«Come ti chiami?». Non c’era sospetto nella voce del poliziotto,
sembrava quasi che volesse conoscere il suo nome per pura amicizia.
«Guido del Mare», disse Francesco senza esitare un secondo, dando il
nome dell’uomo che più odiava al mondo, che in quel momento si trovava a
Firenze, a più di trecento chilometri di distanza. “Vattelo a trovare se hai altre
domande”, si disse. Si scusò e stavolta se la filò senza voltarsi, finché non
ebbe superato la metà del ponte. Solo allora si fermò e vide uno dei poliziotti
chinarsi sul corpo. “Le sta chiudendo gli occhi”, pensò, e si maledisse per
non aver avuto il coraggio di farlo lui stesso.
***
In piazza San Pietro c’erano migliaia di uomini al lavoro. Ogni giorno si
alzavano dal letto e andavano lì a sgobbare; si diceva che la basilica
consumasse uomini con la stessa voracità con cui consumava la pietra. A
Francesco sembrava più che altro che spostassero cose da una parte all’altra.
Fasci di legname, mucchi di pietre e mattoni, montagne di ghiaia, marmo,
calce e sabbia – tutto si muoveva da un angolo all’altro per fare posto ad altri
fasci di legname, pietre, mattoni, ghiaia, marmo, calce, sabbia. Picconi,
vanghe e mazzuoli risuonavano e grattavano contro la pietra; gli uomini
gridavano e imprecavano. Al centro della piazza, un gruppo di vecchie era
alle prese con un grosso calderone di ferro da mettere sul fuoco, pronte a
preparare la zuppa: una sbobba fatta di cipolle marce e pezzi di carne rancida
che, insieme ai barili di vino inacidito, propinavano agli uomini.
Pariglie di buoi se ne stavano pronte e imbrigliate per iniziare a trascinare
gli enormi blocchi di calcare che giungevano via fiume dalle cave a nord
della città. Altre pariglie trasportavano la pietra sottratta all’antica Roma: il
colle Palatino, i Fori, il Colosseo.
Stavano demolendo la vecchia San Pietro mentre costruivano quella
nuova; ormai rimaneva poco più della facciata, sovrastata dalle quattro
enormi colonne che avrebbero sorretto la nuova cupola della basilica.
Secondo gli ultimi calcoli (il progetto dell’architetto Donato Bramante
diventava più imponente di settimana in settimana), la basilica avrebbe
coperto decine di migliaia di metri quadri, e solo la cupola sarebbe stata alta
più di novanta metri. Ancora più imponente della visione più imponente degli
antichi romani. Era il modo di Sua Santità papa Giulio II per dire “Siamo
tornati, e la nostra gloria sarà ancora più grande”.
L’ambizione di papa Giulio si estendeva anche alla vecchia Cappella
Sistina: voleva che a dipingere il suo soffitto di tremilaseicento metri quadri
fosse Michelangelo, ma convincere lo scultore ad accettare l’incarico non era
stato facile. Per anni, Michelangelo si era dedicato anima e corpo ad
assicurarsi la commissione per la tomba del papa. Dichiarandosi uno scultore
e non un pittore, Michelangelo aveva lasciato Roma per andare a Firenze e
per due anni si era sottratto al papa e alla sua richiesta finché, consapevole di
non avere altra scelta e temendo per la sua vita – a causa delle spie papali e
degli assassini mercenari – aveva infine ceduto.
Ma Michelangelo non sapeva quasi nulla di affreschi. Invece di applicare
pittura su tela o su una superficie asciutta, il pigmento veniva steso su
intonaco bagnato che assorbiva e fissava i colori man mano che si asciugava.
La miscela dell’intonaco era così complessa da somigliare a una formula
alchemica, e Michelangelo aveva bisogno di assistenti non solo per il noioso
lavoro preparatorio ma anche per acquisire familiarità con le varie fasi del
processo. Sospettoso per natura e diffidente nei confronti dei romani, aveva
assunto aiutanti direttamente da Firenze, la sua città natale.
Francesco era uno di quelli, e non perché avesse una qualche abilità
artistica. Fino a due mesi prima, Francesco era stato un avvocato alla corte di
Guido del Mare, un potente proprietario terriero fiorentino, cliente della sua
famiglia da lungo tempo. Il padre di Francesco, Riccardo, era stato per
decenni il sacerdote personale della famiglia del Mare e il loro fidato
consigliere umanista. Ma quando Francesco aveva commesso l’errore di
innamorarsi della moglie di Guido, Giulietta, Riccardo l’aveva spedito a
Roma per metterlo al sicuro mentre cercava di placare l’orgoglio ferito del
suo vendicativo cliente. Per punire il figlio del suo peccato di arroganza,
Riccardo aveva stretto un patto con Michelangelo, pagando profumatamente
l’artista perché prendesse Francesco come suo umile domestico.
Quando Francesco finalmente raggiunse la CappellaSistina, si arrampicò
sulla scala a pioli da dodici metri e raggiunse l’impalcatura che copriva tutta
la larghezza del soffitto, dove gli altri assistenti lo stavano aspettando.
Michelangelo si trovava in fondo, all’altro capo, concentrato a studiare la
distesa di soffitto bianco. L’impalcatura era stata progettata dallo stesso
Michelangelo, e dopo sei mesi di lavoro era praticamente il suo unico
risultato. Perlomeno, la consideravano tutti una brillante opera di ingegneria.
Aveva costruito una serie di ponti fissati alle pareti, e la struttura permetteva
di avere accesso a ogni parte del soffitto a volta. I ponti, con gradini ai due
capi e una rampa piatta in cima, ricordavano a Francesco i ponti che aveva
visto a Venezia quando aveva diciassette anni e aveva appena concluso i suoi
studi di legge nelle vicinanze di Padova.
I ponti veneziani, però, non erano sospesi a un’altezza così spaventosa.
Guardare tra le fessure dell’impalcatura avrebbe dato le vertigini a chiunque
se non fosse stato per la tela che era stata tesa sotto per raccogliere vernice e
intonaco. Visto che nella cappella si diceva ancora messa, quel telo serviva a
proteggere i fedeli, ma funzionava anche da schermo, per nascondere i
progressi – o i mancati progressi – agli astanti curiosi. Anche se non aveva
ancora granché da mostrare, Michelangelo custodiva gelosamente il suo
soffitto, convinto che i suoi nemici gli avrebbero rubato le idee e le avrebbero
replicate altrove prima che lui fosse riuscito a completare il progetto. Non
immaginava che Francesco intrattenesse Raffaello e gli altri artisti che si
riunivano nel bordello di Imperia con resoconti puntuali delle sue tribolazioni
artistiche.
Era evidente che si stava preparando un cataclisma. Solo il giorno
precedente, il primo affresco di Michelangelo – raffigurante Noè e il Diluvio
– stava finalmente per essere completato dopo un mese di lavoro sfiancante,
ma quel giorno tutto ciò che restava della scena erano secchi pieni di pezzi di
intonaco colorato.
«Non chiedergli cos’è andato storto», sussurrò Bastiano, uno degli
assistenti, mentre Francesco distribuiva filoni di pane nero dal suo sacco e
versava coppe di vino. «Per fortuna non c’eri quando è arrivato stamattina. È
un miracolo che non ci abbia uccisi tutti e non abbia fatto crollare la cappella.
C’era un prete nuovo a dire messa, e sopra di lui Michelangelo spaccava
l’intonaco strillando maledizioni a tutto il regno dei cieli. Immagina le facce
di quelli che stavano sotto. Sono sicuro che per un attimo hanno pensato che
avrebbero subito le più terribili punizioni che il Signore avesse mai elargito».
«Il prete si è lamentato con Sua Santità?»
«No, ma con il cardinal Asino e con Paride di Grassi sì».
Paride di Grassi era il maestro di cerimonie papale. Si occupava della
gestione della cappella, controllando la qualità dell’incenso e delle candele e
il decoro dei preti. Faceva rispettare il silenzio durante le funzioni e teneva le
orecchie ben aperte per individuare nei sermoni dei preti qualsiasi incertezza
che potesse essere interpretata come eresia. Lui e Michelangelo si erano
odiati fin dal principio, e anche se il maestro di cerimonie non aveva fatto
molti progressi con le sue obiezioni per il rumore e la polvere, si lamentava
comunque ogni volta che ne aveva occasione.
L’antipatia reciproca tra il cardinal Asino e Michelangelo era di natura
squisitamente materiale. Asino, come tutti i cardinali, si sentiva vittima della
frivola prodigalità di papa Giulio. La ricostruzione del Vaticano, i suoi
progetti per San Pietro, la costruzione di nuove strade e le sue campagne
militari in Italia per espandere lo Stato Papale stavano prosciugando il
patrimonio della Chiesa, e i circa venticinque cardinali di Roma si erano visti
ridurre pesantemente le elargizioni.
Francesco era a Roma da abbastanza tempo per sapere che lo stile di vita
che si aspettava un cardinale era poco al di sotto di quello di un re. Era
considerata indispensabile una squadra di domestici di almeno
centocinquanta persone per mandare avanti un palazzo, ed era difficile
tagliare i costi riuscendo comunque a vivere e intrattenere gli ospiti in modo
adeguato. Così mentre Asino ce l’aveva con i progetti del papa e con tutte le
persone coinvolte per averlo privato dei suoi lussi, Michelangelo riteneva che
si sarebbe potuto risparmiare più denaro per lui se i cardinali non fossero stati
dei parassiti tanto costosi.
«Cos’è successo dopo che si sono lamentati?», domandò Francesco.
«Sua Santità è arrivato con quel suo ragazzino, e Michelangelo ha dovuto
scusarsi di fronte a tutti. Se fossi di Grassi o Asino controllerei che qualcuno
non metta delle bisce nel letto». L’altro assistente ridacchiò sotto i baffi
mentre lanciava sguardi colpevoli verso il maestro.
«Ma cosa c’era che non andava nella scena? Era quasi finita».
Tutti gli assistenti fecero spallucce, chiaramente infastiditi. «E chi lo sa?»,
piagnucolò Bastiano, grattandosi furiosamente i capelli, lunghi e
ingarbugliati. «Sappiamo solo che stamattina l’ha guardata, ha dichiarato che
era un abominio, ed è diventato una furia. Senza curarsi minimamente di tutto
il tempo che ci abbiamo sprecato». Bastiano era il più talentuoso ed esperto
del gruppo, ma anche il più scontento. Non faceva nessuno sforzo per
nascondere la propria insoddisfazione per il fatto che, nonostante la sua
esperienza, non solo era ancora un assistente, ma anche sottopagato.
«Smettila di spettegolare come una donnetta e portami da mangiare!»,
riecheggiò la voce di Michelangelo per la cappella, e Francesco, alzando gli
occhi al cielo, si allontanò dai colleghi e attraversò le campate con le due
pagnotte che restavano e il vino.
«Sei in ritardo», borbottò Michelangelo. «Perché ci hai messo tanto?».
Francesco decise che tanto valeva dire la verità. Non fece nomi e non disse
che la conosceva, soltanto che era stato rinvenuto il corpo di una donna nel
fiume e che si era fermato a guardare.
«Un’altra puttana, ci scommetto», disse Michelangelo, ripetendo le parole
di Francesco. «Se avessi un ducato per ogni puttana che si ripesca dal Tevere,
sarei ricco. Ci sono quattromila preti in questa città e due puttane per
ciascuno di loro. Non che preferiscano tutti il gentil sesso. Roma farebbe
bene a ricordare cosa è successo a Sodoma e Gomorra».
Se Michelangelo fosse stato un amico, Francesco avrebbe potuto metterlo
in guardia sull’opportunità di esprimere opinioni simili sul clero così ad alta
voce – anche se erano vere. Ma non lo era, perciò rimase in silenzio e riaprì il
sacco per tirare fuori il fiasco di vino. Avrebbe poi potuto aggiungere che
anche su Michelangelo circolava qualche voce sui suoi desideri della carne.
La gente aveva visto le sue sculture di uomini forti e virili, e aveva tratto le
sue conclusioni. Anche se la sodomia era un crimine punibile con il rogo, a
Francesco pareva che a Roma la questione fosse ampiamente sottovalutata.
Francesco aveva già fatto la conoscenza del pittore vaticano detto Sodoma,
un uomo che ostentava con lo stesso orgoglio il suo soprannome e la sua
collezione di abiti da donna, una collezione che, secondo Imperia, era
l’invidia di tutte le cortigiane di Roma. Tuttavia Francesco non era sicuro che
Michelangelo condividesse davvero i gusti di Sodoma. Michelangelo era un
seguace del frate domenicano Girolamo Savonarola, ed era troppo bigotto e
spaventato dalla dannazione eterna per avere a che fare con le donne,
figuriamoci con gli uomini.
“È un peccato”, pensò Francesco, stappando la bottiglia. “Sarebbe quasi
valsa la pena di questo calvario, se avessi potuto vedere Michelangelo con
indosso un bel vestitino!”.
Il vino era gocciolato intorno al tappo di sughero e aveva inzuppato i
filoni di pane, ma Michelangelo non ci badò. Non gli importava di ciò che
mangiava e non traeva alcun piacere dal cibo. Comunque, probabilmente per
punire il ritardo di Francesco, si dichiarò affamato e prese anche il filone di
Francesco, blaterando tutto il tempo contro di Grassi e Asino. Francesco
ascoltavadistrattamente mentre Michelangelo masticava il pane; lo mandava
giù a forza di sorsate di vino con cui prima si sciacquava la bocca. Quando
parlava gesticolava come un contadino, aveva capelli e barba sporchi e
opachi, e il suo viso schiacciato era ricoperto da diversi giorni di polvere
d’intonaco e macchie di pittura. I suoi vestiti, sempre troppo grandi o troppo
piccoli, non erano certo in condizioni migliori, e Francesco pensò che una
nuotata nel Tevere, per quanto lurido, non gli avrebbe fatto male.
«Hai spedito le mie lettere?», domandò Michelangelo, pulendosi la bocca
con la manica sudicia.
«Lettere?», ripeté Francesco, momentaneamente confuso. «Ce n’era una
sola sul tavolo, e sì, l’ho spedita».
«Ce n’erano due. Una a mio padre, un’altra a mio fratello». Avendo
esaurito il suo veleno per il papato, Michelangelo era tornato all’altro
argomento terreno che, oltre all’arte, lo consumava: la sua famiglia e il modo
in cui sperperavano i suoi soldi.
«Ho spedito quella a tuo padre. Non ne ho vista nessuna per tuo fratello».
«Trovala e spediscila. È difficile pensare che un uomo di vent’anni non
riesca a svolgere i compiti che di solito si affidano a un bambino di dieci».
Francesco avrebbe voluto ricordargli che Riccardo lo pagava bene per
avere a che fare con lui, ma non poteva rischiare che Michelangelo lo
rispedisse a Firenze per ripicca. Era in esilio e ci sarebbe rimasto finché suo
padre lo avesse ritenuto opportuno, senza contare che Guido del Mare era
ancora desideroso di ucciderlo. E così Francesco alzò lo sguardo nel punto
dove era stata scrostata la scena di Noè e il Diluvio e chiese con la sua voce
più innocente: «Che è successo?».
La risposta fu l’Apocalisse che avevano predetto gli aiutanti.
La casa che Francesco divideva con Michelangelo una volta dava su
piazza Rusticucci, vicino a San Pietro, ma molto tempo prima qualcuno
aveva bloccato l’ingresso costruendoci un’altra casa, così ora erano costretti a
percorrere lo stretto vicolo dietro la fila di case per arrivare alla porta sul retro
ed entrare.
Queste aggiunte erano piuttosto comuni a Roma, un modo economico per
procurarsi locali in cui tenere gli animali o per intascare un affitto in più. Si
vociferava che papa Giulio avrebbe presto emesso un decreto per farle
demolire, perché rendevano molte delle strade inagibili ai carri. A Francesco
non importava dei carri, ma in effetti gli sarebbe piaciuto usare l’ingresso
principale. E non avrebbe guastato potersi sbarazzare degli attuali vicini, un
saponaio e sua moglie. Con le mani e le facce bruciate e segnate dalla liscivia
erano davvero impressionanti, e i loro litigi notturni filtravano forti e chiari
dalle fessure della porta. Due o tre volte a settimana, raccoglievano grasso
rancido dai macellai e lo bollivano su un fuoco nella piazzetta, il tanfo
appestava l’intero quartiere. Oggi era uno di quei giorni, e mentre Francesco
si incamminava per il vicolo ingombro di rifiuti, riusciva ancora a sentire
quell’odore nonostante il puzzo delle latrine. “A Roma anche il sapone è
sporco”, pensò, e non per la prima volta.
Si era accorto presto che proprio quelle latrine erano molto frequentate
per sbarazzarsi degli infanti indesiderati – nati da genitori troppo giovani, non
sposati, schiavi, servi, puttane, poveri che avevano già troppe bocche da
sfamare. La prima settimana a Roma aveva trovato una neonata avvolta in
alcuni stracci, che piagnucolava debolmente fuori da una delle porte, la cui
madre forse non aveva avuto il coraggio di lasciarla cadere nel fosso lurido,
dove sarebbe presto – o forse non così presto – annegata.
Non era riuscito a ignorare la bambina, così l’aveva portata a casa e
appoggiata accanto al focolare. Sarebbe stato più misericordioso lasciarla
dov’era, aveva detto Michelangelo alzando lo sguardo dai suoi disegni. Stai
solo prolungando il suo dolore. Francesco sapeva che aveva ragione.
L’inferno era pieno di buone intenzioni. La bambina aveva appena poche ore
e stava già morendo per la fame e il freddo. Dev’esserci una soluzione…,
aveva detto Francesco, anche se non sapeva quale. Non avevano latte, perciò
aveva mischiato dell’acqua al vino; la bambina però aveva emesso il suo
ultimo respiro prima di riuscire ad avvicinarglielo alle labbra.
Quel giorno non c’erano orrori nel vicolo, a parte l’odore. Era quasi
arrivato a casa quando vide Susanna che spiava oltre il cancello nel cortile di
Michelangelo. Gli dava le spalle, ma la riconobbe dalla lunga treccia scura e
dall’abito marrone che teneva sollevato per non sporcarlo. Sicuro di non
essere stato visto, si nascose dietro una delle baracche. Poi però si sentì un
po’ stupido a nascondersi da una ragazza, perciò rimase in attesa ancora per
un momento, osservando una lucertola che si arrampicava su un albero di
limoni dall’aria malaticcia, prima di fare capolino dall’angolo. Lei era ancora
lì. Tirò di nuovo indietro la testa e si mise a sedere su un ceppo per aspettare
qualche altro minuto.
Non era sua abitudine evitarla. Se non fosse stato per gli eventi di quella
mattina, sarebbe anzi stato felice di vederla. La presenza di Susanna di solito
significava che gli aveva portato qualcosa da mangiare o che era venuta a
battere il materasso per mandare via le pulci, e forse avrebbe anche diviso
quel giaciglio con lui per un po’. Ma in quel momento Francesco non
desiderava altro che trovare quella lettera e raggiungere Raffaello. Forse una
volta comunicata la notizia della morte di Calendula avrebbe potuto togliersi
dalla mente l’immagine del suo viso martoriato.
Ricominciò a piovere; si spostò per evitare la goccia che cadeva dal tetto
della baracca mentre aspettava che Susanna rientrasse. Francesco aveva
conosciuto Susanna la terza o quarta sera in cui si trovava a Roma dopo aver
aperto il cancello sbagliato, sorprendendola mentre dalla latrina attraversava
il cortile per tornare in casa. Era la serva di Benvenuto l’argentiere, la cui
casa e bottega consistevano in un ammasso di baracche adiacenti a quella di
Michelangelo. Francesco aveva continuato a girovagare per le strade finché
non si era fatto buio, nella speranza di evitare Michelangelo, che era di umore
particolarmente nero. Quando gliel’aveva raccontato, lei si era messa a ridere.
Poi, prendendolo per mano, lo aveva portato in casa, dove c’era un fuoco
debole, più fumo che fiamma, che bruciava nell’enorme focolare.
Benvenuto era a Firenze per lavoro, e Francesco le aveva detto che anche
lui era di Firenze. Lei gli aveva offerto del vino e si era mostrata gentile
quando aveva saputo del suo esilio forzato. Michelangelo, aveva detto, con
quel suo broncio spaventava anche il demonio. Francesco aveva bevuto il
vino; anche se aveva un dente davanti annerito, Susanna non era male, perciò
aveva cominciato a stuzzicarla, dicendole che parlava come la zingarella che
raccoglieva stracci con sua madre vicino a casa. Lei gli aveva dato uno
schiaffo per il paragone, ma lui le aveva bloccato la mano e, baciandole le
dita, le aveva spiegato che aveva sempre trovato molto bella la ragazza, con i
suoi occhi scuri e i capelli corvini. Lei lo aveva perdonato e si era lasciata
baciare – non solo le dita.
Aveva passato la notte nel suo letto, svegliandosi al mattino con la
guancia premuta contro il suo seno. Era stata infinitamente meglio delle notti
agitate che passava accanto a Michelangelo, che russava e lo prendeva a calci
con gli stivali, che spesso teneva anche a letto. Francesco si era inventato la
storiella della zingarella, ma gli piacevano davvero gli occhi scuri di Susanna,
perché a differenza di quelli di Calendula, non lo confondevano ricordandogli
quel che aveva perduto. Forse era per questo che trovava così facile fidarsi di
lei.
La sua storia aveva lasciato incredula Susanna. Ti sei innamorato della
moglie del tuo padrone? E sei ancora vivo? Sei un uomo fortunato.
Seppur infelice per essere stato separato dalla donna che amava, sapeva di
essere stato davvero fortunato a fuggire e salvare la pelle. Se quel
pomeriggio, a Firenze, Guido si fossefermato un attimo a pensare, non
sarebbe corso lui stesso dietro a Francesco. Avrebbe mandato la sua guardia:
un bruto di nome Giovanni, anche se tutti si erano dimenticati come si
chiamava da un pezzo e lo avevano soprannominato Pollo Grosso, per i
capelli rosso fiammante che gli crescevano al centro della grande testa
quadrata, dritti come un pettine. Se Guido gli avesse sguinzagliato dietro
Pollo Grosso, Francesco sarebbe morto di sicuro. Perché malgrado il
soprannome, Pollo Grosso era un cane feroce che eseguiva gli ordini del
padrone senza esitazioni o rimorsi. Era incapace di emozioni così come lo era
di proferire parola, il suo unico piacere era uccidere.
Quando Francesco si sporse di nuovo a guardare dal suo nascondiglio,
Susanna stava ancora guardando oltre il cancello. “Cosa c’è di così
interessante”, si chiese, “che la fa restare lì sotto la pioggia?”. Decise che non
valeva la pena aspettare che se ne andasse e le si avvicinò.
«Cosa c’è?»
«Eccoti», disse in tono accusatorio. «Ti stavo aspettando. C’è un pollo nel
cortile. Non so cosa fare».
«Un pollo?», le fece eco, guardandosi intorno in cerca del pennuto. Che
strano. Stava proprio pensando a Pollo Grosso e ora compariva un pollo vero.
«Ovvio. Lo uccidiamo per cena. Dov’è?».
La maggior parte del cortile era invasa dai giganteschi blocchi di marmo
che Michelangelo aveva scelto per il mausoleo del papa, blocchi che si era
rifiutato di rivendere, nel caso in cui Sua Santità avesse cambiato idea. Ora,
impilati insieme alla legna da ardere e ricoperti di erbacce rampicanti,
sembravano le rovine di un monumento. Da lì sbucò fuori un pollo bianco e
marrone.
«Un pollo con tre zampe è un presagio buono o cattivo?», domandò
Susanna mentre l’uccello li guardava.
Francesco stava per dirle che era matta, ma fu costretto a darle ragione. Il
pollo aveva tre zampe: una al centro e due sui lati. Stava in piedi su due di
queste, inclinandosi a sinistra mentre la terza zampa sporgeva dalla parte
opposta come un’inutile appendice; poi all’improvviso il volatile fece un
buffo salto e si spostò sull’altra zampa e su quella centrale, pendendo ora a
destra. Francesco si mise a ridere per la prima volta da quando quel giorno
era iniziato.
Le disse che i suoi presagi erano superstizioni senza senso, ma Susanna
insisteva, e mentre l’uccello faceva il suo balletto per loro, dondolando da un
lato all’altro, iniziò a sciorinare una litania di strani avvistamenti. «E che mi
dici del vitello con due teste che è nato a Tivoli tre giorni prima del
terremoto? Non c’è altra spiegazione. E l’anno scorso, poco prima che il
Tevere straripasse, un bambino nano è nato morto non lontano da qui. E il
giorno prima di quella tempesta terribile che ha spazzato Ostia e ha abbattuto
la casa di mio padre, un pipistrello con gli occhi rossi era volato giù dal
caminetto». Gli si aggrappò alla manica. «Dicono anche che il giorno prima
che cascasse il ponte di Castel Sant’Angelo con tutta quella gente morta, un
asino…».
«Basta», la interruppe Francesco, chiedendosi se non avesse davvero
sangue zingaro nelle vene. «Guardalo. È troppo ridicolo per portare
sfortuna». Semmai, se proprio si voleva trovare qualche cattivo auspicio in
quella giornata, si poteva pensare al ritrovamento del corpo di Calendula.
«Be’, allora è di buon augurio», replicò lei. «Il giorno prima che tu
arrivassi c’era una falena blu gigante sul davanzale. Per questo quando ti ho
incontrato sapevo che eri un brav’uomo».
«Per questo mi hai preso a schiaffi?»
«L’ho fatto solo per farmi baciare».
La baciò ancora. Francesco pensò anche di andare oltre, visto che
Michelangelo sarebbe tornato solo dopo ore, ma continuava a vedersi davanti
il viso malconcio di Calendula e il suo dito mancante, perciò cambiò di
nuovo idea.
Doveva trovare Raffaello.
«Be’, allora non lo ammazzare», disse, ritraendosi mentre cercava di
mantenere un tono leggero. «Magari ti porterà un altro uomo. Uno ricco,
stavolta. Ma farai meglio a mettertelo nel tuo cortile, perché Michelangelo lo
vedrà solo come un presagio della cena».
Cercò di svignarsela, ma Susanna insistette perché la aiutasse ad
acchiapparlo. Normalmente l’avrebbe sollevato dalle zampe e se lo sarebbe
portato in giro a testa in giù. Però la terza zampa complicava le cose, e
Susanna aveva paura di fargli male, e se l’avesse attaccata, l’auspicio da
buono sarebbe divenuto cattivo. Alla fine, Francesco aprì il cancello e lo
fermò con un sasso mentre Susanna cercava di spingerlo fuori sventolando lo
scialle. Solo che la bestia rifiutava di andarsene. Si fermò poco prima del
cancello e, sfuggendo allo scialle, svolazzò in cima al muro di pietra, dove
riprese il suo balletto, con la testa che dondolava da un lato all’altro.
«Lasciamo stare», disse Francesco dopo altri due tentativi falliti. «Adesso
non ho tempo. Dovrà correre il rischio con Michelangelo. Devo trovare
Raffaello».
«Adesso?», domandò Susanna, chiaramente delusa. «Perché invece non
vieni dentro con me? Piove e ho il fuoco acceso».
Non voleva ancora dirle di Calendula, anche se non sapeva bene il
motivo. Forse perché gli piaceva la sua compagnia semplice, la distrazione
che offriva dagli oscuri rimpianti che lo rincorrevano persino nei sogni. Ma
non avrebbe potuto evitare per sempre l’argomento. Lei l’avrebbe scoperto,
se non da lui da qualcun altro. Le notizie viaggiavano veloci a Roma. «Si
tratta di una delle ragazze di Imperia, Calendula», disse affettando un tono
distaccato. «Purtroppo è morta. L’ho vista ripescare dal Tevere».
Susanna non sembrò turbata, e lui pensò di nuovo alla frase “solo un’altra
puttana”. «L’hanno ammazzata?»
«Pare di sì».
«Me l’immaginavo», disse lei con una certa soddisfazione mentre cercava
di attirare Francesco nell cortile dell’argentiere. «Dal modo in cui se ne
andava in giro mettendo in mostra se stessa e quell’anello nuovo. Era destino
che succedesse».
Francesco si infastidì. Non si aspettava dolore – non era neanche sicuro di
provarne lui stesso – ma lì si sfiorava l’allegria, quel tipo di allegria che si
prova quando si vede il nemico umiliato. Si chiese quale fosse il motivo. Era
forse gelosa? «Ah ma che signora abbiamo qui», disse prendendola in giro
mentre le scostava la mano dalla manica.
«Più di lei di sicuro», rispose lei sprezzante.
«E immagino che per la paga di Benvenuto ti limiti a rammendargli i
panni e cucinargli la colazione».
Lei tentò di colpirlo alla testa, ma lui se l’aspettava e la schivò facilmente,
dicendole di andare al diavolo, il che la fece arrabbiare ancora di più. «Be’,
almeno adesso so per certo che il pollo era di buon auspicio», gli strillò
mentre lui apriva la porta sul retro con un calcio.
«Di cosa?»
«Di una puttana in meno in questa città!».
Francesco provò a sbattersi la porta alle spalle, ma poiché la casa era in
pendenza, si incastrò nel pavimento, restando aperta quel tanto che bastava
perché un pollo con tre zampe vi si intrufolasse. Francesco imprecò e cercò di
nuovo di scacciarlo, ma quello svolazzò sul davanzale dell’unica finestra e
rimase lì a fissarlo dall’alto in basso, impassibile.
Si arrese e si mise a caccia della lettera di Michelangelo. Frugò con gesti
impazienti tra i fogli pieni di uomini nerboruti e muscolosi che si sperava
Michelangelo non avesse intenzione di dipingere sul soffitto del papa. Ma la
lettera non c’era, e non c’era neanche sulla loro unica sedia. La stanza era
buia, il che rendeva ancora più difficile quella ricerca, ma non c’erano altri
posti dove si poteva lasciare una lettera, a parte il tavolo e la sedia. Guardò
nel camino, chiedendosi se Michelangelo, in un momento di malumore, non
ce l’avesse buttata e poi se ne fosse dimenticato. Non sarebbe comunque
bruciata: la graticola non vedeva un fuoco da diversi giorni, perché
Michelangelo era in lotta per il prezzo con l’uomo che portava la legna.
Sempre più irritato, cercò nel letto, spostando la coperta di lana ruvida e le
pelli conciate che coprivano il materasso di paglia. Aprì il baule in cui
Michelangelo teneva i vestiti: un paio di brache,due camicie macchiate e una
giacca di broccato stranamente elegante che Francesco non gli aveva mai
visto addosso. Non c’era niente tra le bottiglie di tonico e le medicine per i
tanti malanni di Michelangelo, malanni che Francesco era convinto fossero
immaginari o fasulli, un semplice travestimento per darsi un tono da martire
sofferente.
Era sul punto di ammettere la sconfitta e concludere che Michelangelo si
era sognato la lettera o se l’era portata con sé alla cappella, quando il pollo
iniziò di nuovo il suo balletto sul davanzale. Era l’unico posto in cui
Francesco non avesse cercato, perché Michelangelo avrebbe avuto bisogno
della sedia per arrivarci. E poi perché avrebbe dovuto nascondere lì la
seconda lettera se voleva che Francesco la spedisse? Eppure era lì. La strappò
da sotto le zampe del pollo, che faceva un altro dei suoi saltelli. «Forse servi
a qualcosa dopotutto», disse. «Sempre che Michelangelo non ti tagli la testa
prima che io torni. Il bastardo probabilmente l’ha nascosta qua sopra solo per
potersi lamentare di qualcosa».
Francesco infilò la lettera sotto la cappa, strinse la cinghia del pugnale in
vita e, augurando buona fortuna al pollo, uscì sotto la pioggia.
Per fortuna, di Susanna non c’era più traccia.
2
Con i piedi che sguazzavano negli stivali e nei calzini inzuppati,
Francesco seguì le strade che ormai gli erano familiari. Attraversò la desolata
piazza Rusticucci con la chiesetta di Santa Caterina. Il saponaio aveva
coperto il calderone pieno di grasso con delle vecchie assi per ripararlo dalla
pioggia, ma sotto la pentola covava ancora la fiamma. Da piazza Rusticucci si
addentrò nel dedalo di strade – se così si potevano chiamare, ostruite
com’erano da banchetti, tettoie, e passerelle che collegavano i piani superiori
delle case che si fronteggiavano. Fuori dalla bottega del macellaio tre pecore
si stringevano l’una all’altra in attesa del proprio turno per la mannaia,
mentre una dozzina di corvi si litigava le interiora delle altre. Papa Giulio, per
cercare di porre rimedio ai cattivi odori, aveva decretato che tutte le frattaglie
fossero gettate nel Tevere, ma la legge veniva largamente ignorata. Francesco
schivò i mendicanti, le puttane, i pescivendoli, gli straccivendoli, i bambini e
il bestiame, cercando di non mettere i piedi nell’immondizia più rivoltante o
nelle pozzanghere, sempre più profonde.
A pochi minuti di distanza, piazza Scossacavalli era decisamente più
elegante. Gli schiavi e i servi dei ricchi che vivevano negli imponenti palazzi
della piazza tenevano lontani i commerci indesiderati e il traffico. Ma non si
poteva tagliar completamente fuori la città, e infatti un mendicante coperto di
stracci afferrò la manica di Francesco, supplicandolo di dargli qualche
moneta. Francesco scosse la testa.
«Neanche un tozzo di pane?»
«No», rispose Francesco e continuò a camminare. «Ne vorrei un po’
anche io». Ed era vero. Se non fosse stato per Calendula, ora sarebbe potuto
essere con Susanna. Avrebbe avuto il pane, e anche la zuppa di cavolo.
Metteva sempre da parte il midollo per fare la zuppa; Francesco ci ripensò,
desiderando sentirne la consistenza unta e morbida sulla lingua.
In mezzo alla piazza, uno dei sedicenti profeti della città, un uomo
dall’aspetto appena più inselvatichito e sporco di Michelangelo, stava
tenendo un discorso contro papa Giulio che di certo l’avrebbe fatto trascinare
via e bruciare sul rogo quanto prima. «Si considera uomo di Dio, ma è
l’Anticristo, un peccatore, l’ultimo capo di papi fornicatori e cardinali
pederasti, le otto teste della bestia. Ma Dio, il vero Dio, lo precipiterà in un
abisso senza fondo, dove verrà divorato da un serpente a sette teste, e non
riceverà nessuna risposta alle sue grida di dolore…». Già, a Francesco
sarebbe piaciuto scommettere su quanto tempo sarebbe ancora durato
quell’uomo e fantasticò anche sull’eventualità che Michelangelo venisse
catturato al posto suo, per un errore dovuto alla somiglianza.
Bussò alla porta di Raffaello e, mentre seguiva il garzone in casa, si rese
conto che era stato così assorbito dall’urgenza di raccontargli di Calendula e
così preso dal suo sogno di pane e midollo che si era dimenticato di spedire la
lettera.
Lo studio di Raffaello era completamente diverso dalla topaia che
Francesco divideva con Michelangelo. Michelangelo lo sapeva, ed era uno
dei motivi per cui provava rancore verso il suo rivale. Tanto per cominciare,
la porta si chiudeva bene, e dentro ardeva un fuocherello che asciugava
l’umidità del giorno. Le mura tenevano lontano persino il puzzo della città, ed
era in quel posto che a Francesco tornavano in mente i lussi e le comodità
della sua infanzia fuori Firenze.
Due alte finestre con i vetri chiari si aprivano a sud, e altre due a nord.
Nei giorni di sole, la stanza era inondata di luce e anche nei giorni più bui ce
n’era comunque abbastanza per lavorare. C’erano delle tele appoggiate al
muro, in attesa di essere completate. Francesco si vide riflesso in uno
specchio dalla cornice dorata e quasi non si riconobbe in quegli abiti grezzi,
con i capelli neri più lunghi che avesse mai avuto, il viso scarno che faceva
sembrava sproporzionati i suoi grandi occhi castani. Davanti al fuoco c’era
un invitante divano coperto di cuscini di velluto. Un grande tavolo di quercia
dominava il centro della stanza, carico da un lato di barattoli di colori e
pennelli e scatole di candele, dall’altro di fogli di carta coperti di schizzi, con
gli angoli fermati da libri pesanti. In contrasto con i corpi tormentati dei
disegni di Michelangelo, quelle figure erano piene di grazia e pace, proprio
come il loro creatore. Al centro del tavolo c’era una brocca di vino, e accanto
un tozzo di pane e un pezzo di formaggio. Francesco guardò con invidia i
resti del pasto di mezzogiorno.
«Prendili pure», disse Raffaello, distogliendo gli occhi dal cavalletto e
pulendo il pennello con uno straccio. Francesco lo ringraziò e versò del vino
in uno dei bicchieri di peltro poggiati sul tavolo, e poi ci inzuppò il tozzo di
pane per ammorbidirlo. Fu grato tanto del cibo quanto del diversivo. Ora che
era lì non sapeva da dove cominciare. Diede un morso al pane. Era buono,
così come il formaggio. «È la sorella di Alfeo», disse Raffaello, indicando il
garzone che riattizzava il fuoco già vivo, «che ci porta il formaggio dalla
fattoria. È il migliore di tutta Roma, non trovi?».
Con la bocca piena, Francesco riuscì soltanto ad annuire. Alfeo si
compiacque del complimento. Come tutto ciò che circondava Raffaello,
Alfeo, un ragazzo smilzo di circa dieci anni, era molto bello; Francesco
sapeva che quando Raffaello avesse terminato la decorazione degli
appartamenti vaticani, i tratti da cherubino e i boccoli scuri di Alfeo
sarebbero stati ritratti in almeno un angelo. Francesco gli porse il mantello
umido, e il ragazzo quasi ne venne inghiottito mentre lo prendeva per
appenderlo accanto al fuoco. Era umiliante pensare che a Roma lui,
Francesco, era un pari di quel bambino – il garzone di un artista. A Firenze,
in qualità di avvocato di Guido, sarebbe stato piuttosto pari a Raffaello, se
non superiore.
Raffaello aveva trascorso alcuni periodi della sua vita a Firenze e una
volta aveva cenato con Francesco e suo padre. Francesco aveva cercato di
presentare Raffaello a Guido, ma Guido aveva rifiutato. Infatuato del lavoro
di Leonardo da Vinci, non era riuscito a riconoscere il genio del molto più
giovane Raffaello, un errore di cui in seguito si era molto pentito. Francesco
aveva cercato Raffaello appena arrivato a Roma, e lo aveva incontrato da
Imperia. Era la stessa sera in cui aveva conosciuto Calendula ed era rimasto
sconvolto dalla sua somiglianza con Giulietta. Anche se Raffaello aveva
notato il suo stupore e la confusione che ne era seguita, non aveva fatto
domande, né si era fatto dei pregiudizi su di lui. Francesco non poteva fare a
meno di pensare che il suo esilio sarebbe stato molto più piacevole al servizio
di Raffaello, cosa che senza dubbio suo padre aveva preso in considerazionequando aveva deciso la punizione per suo figlio.
«Ci cogli in una giornata tranquilla», spiegò Raffaello mentre Francesco
masticava il pane. «I miei assistenti stanno preparando le pareti degli
appartamenti del papa, un’incombenza che affido volentieri ad altri. E come
procede il lavoro di Michelangelo? A quanto pare fa ancora morire di fame i
suoi servitori».
«Non bene», rispose Francesco. Se il suo padrone fosse stato qualcun
altro si sarebbe sentito una spia, ma visto che Michelangelo non faceva
nessuno sforzo per nascondere la sua antipatia verso Raffaello, non si sentì
minimamente in colpa. «Ha distrutto tutto quello che aveva fatto e ora deve
ricominciare daccapo. Sta ancora supplicando il papa di affidargli il suo
monumento funebre. Nel frattempo, scrive lettere al padre e ai fratelli e mi
manda a spedirle alla volta di Firenze». Parlava ormai a briglia sciolta. «Non
mi dà mai abbastanza soldi, e finisco sempre per pagare di tasca mia». Tirò
fuori la lettera. «Vedi? E oggi ne ho già spedita un’altra». Mentre la
guardava, si sentì ancora più ridicolo. Solo pochi mesi prima, passava le sue
giornate a supervisionare la vendita di grandi terreni. Veniva pagato per i suoi
servizi a peso d’oro, e ora si ritrovava a piagnucolare per qualche moneta.
Raffaello si mise a ridere, compassionevole, e gli offrì altro pane. «È
come se facesse di tutto per rendersi la vita più difficile. Sua Santità lo sta
punendo non solo per la sua disobbedienza, ma anche per la sua mancanza di
buone maniere. Temo che a forza di comportarsi come contadini screanzati,
si venga trattati come tali – solo in cielo non si bada all’apparenza. Se
mostrasse un po’ di gentilezza e umiltà, insieme al genio, non solo Sua
Santità sarebbe più generoso, ma potrebbe addirittura avere degli amici».
Francesco non poteva che essere d’accordo. Raffaello era un pittore, un
artista, una posizione alla pari con quella di Michelangelo, e tuttavia, pur
essendo arrivato a Roma da Firenze solo pochi mesi prima, occupava già un
posto di rilievo alla corte papale mentre Michelangelo, con i suoi abiti da
lavoratore e le abitudini trasandate, veniva isolato da tutti. E mentre
Michelangelo doveva supplicare per ogni ducato papale che riceveva,
Raffaello prosperava nella ricchezza. Viveva e lavorava in quelle stanze
eleganti, mangiava cibo fresco dalla campagna, si vestiva altrettanto bene dei
suoi committenti, ed era generoso con i suoi molti amici. Era generoso anche
con i giovani artisti, che entravano così a far parte del circolo sempre più
vasto dei suoi ammiratori. Era, in tutti i sensi, un vero cortigiano.
Ma non era solo per questo che Michelangelo disprezzava Raffaello.
Raffaello prese un pezzo di vetro e lo tenne davanti alla luce fioca per
apprezzarne i colori tenui; Francesco lo osservò, pensando che non potevano
essere più diversi: mentre il suo padrone era tarchiato, con il muso
schiacciato di un cane preso troppe volte a calci, Raffaello era alto, con
lineamenti sottili ed eleganti che facevano girare la testa alle donne più belle
di Roma. Aveva reputazione di grande amante, anche se Francesco non ne
aveva mai avuto le prove. Per quanto affascinante e gentile con tutti coloro
che incontrava e circondato da adoratori, Raffaello sembrava avvolto da
un’aura di solitudine. Forse aveva questo in comune con Michelangelo, anche
se mentre uno bestemmiava i cieli, l’altro pregava in silenzio.
Francesco finì il pane e il vino e rimise la coppa sul tavolo. «Ora che ti ho
salvato dalla morte di fame così che vivrai almeno per un’altra notte», disse
Raffaello con un sorriso, «c’è qualcos’altro che posso fare per te? Dev’esserci
un motivo se sei venuto sin qui in una giornata del genere».
Francesco annuì. Non aveva via di scampo. «Sì, e non sono buone
notizie». Lanciò uno sguardo in direzione di Alfeo. «Possiamo parlare in
privato?»
«Ma certo». Raffaello prese la lettera e lesse l’indirizzo sopra il sigillo,
poi si rivolse al ragazzo. «Alfeo, porta questa da Marcello. È diretta a
Firenze, e lui ci va domattina».
Alfeo fece un cenno e prese la lettera mentre Francesco svuotava il
sacchetto che portava in vita. «Spero che sia sufficiente».
Raffaello rifiutò il denaro con un gesto, aprì una scatola di legno sul
tavolo ed estrasse diverse monete. «Tienili», disse. Porse le monete ad Alfeo
e gli disse di usare quel che avanzava per comprarsi una salsiccia per cena.
Francesco ringraziò entrambi, poi rimase a osservare Alfeo che indossava
la cappa e si dirigeva verso la porta. Sospirando, si rivolse di nuovo a
Raffaello, che ora lo guardava preoccupato, con le rughe che increspavano la
sua fronte liscia. «Si tratta di Calendula», cominciò Francesco, ma la voce si
ruppe appena ebbe pronunciato il nome, al ricordo di quel viso deturpato.
«L’ho vista ripescare dal Tevere stamattina. Credo che sia stata assassinata.
Non l’ho detto alla polizia però. Le mancava un dito… e anche l’anello
d’ametista. Hanno portato il cadavere all’obitorio».
«Assassinata?», esclamò Raffaello. «Calendula? La Madonna della
calendula di Marco? Ne sei sicuro?»
«So quello che ho visto».
Raffaello si accostò alla finestra che dava su piazza Scossacavalli.
«Questa città è maledetta. La violenza colpisce chiunque, e per motivi così
futili». Rimase in silenzio per un attimo e poi si voltò di nuovo verso
Francesco. «Marco lo sa?».
Francesco scosse la testa. «Sono venuto prima da te. Pensavo che avresti
saputo cosa fare. E dopo l’altra sera…». Abbassò la voce e tacque.
«Pensi che sia stato Marco?».
Francesco fece spallucce. «Non lo so».
Raffaello tornò al tavolo e versò due coppe di vino. Indicò il divano a
Francesco, che si sedette e distese le gambe nella speranza di asciugarsi i
piedi bagnati. Raffaello prese l’attizzatoio e spinse un ciocco nel fuoco.
«Prima di tutto, hai fatto bene a non dire niente alla polizia, a loro interessa
più affibbiare multe e strappare confessioni che scoprire la verità». Appoggiò
l’attizzatoio contro il camino e si mise a sedere. «Ma Marco? È vero che
l’altra sera l’ha picchiata, ma so che se ne è pentito amaramente; non penso
che avrebbe fatto una cosa simile».
Guardò Francesco, che sapeva già cosa avrebbe aggiunto: la sua reazione
era insolita, nessuno lo riteneva un uomo violento. «Vuoi raccontarmi cos’è
successo davvero? Siamo rimasti tutti scioccati dal gesto di Marco, mi sono
chiesto cosa sarebbe successo se non fossimo stati lì a fermarti. Il cranio di un
uomo non va granché d’accordo con un camino di marmo. E poi perché? Per
difendere Calendula, quando non è certo un segreto che lei non ti piace. Non
ti ho mai sentito rivolgerle una parola gentile, eppure non tratti con lo stesso
sdegno le altre donne di quella casa, che fanno la sua stessa professione. Cosa
c’era in lei che ti suscitava un tale…», fece una pausa per cercare la parola
giusta, «disprezzo?».
Francesco fissava il fuoco, avvertiva il peso del rimprovero e
dell’imbarazzato. A pensarci bene, era da parecchio tempo che se ne
vergognava. Si sentì stupido a confessare la verità a Raffaello, ma sapeva di
non avere scelta. «Mi ricordava qualcun altro, e allo stesso tempo ne era la
brutta copia. Mi faceva arrabbiare».
«Però quando Marco l’ha colpita, sei accorso in sua difesa».
«Non so cosa mi sia preso. Ero confuso. Il vino, il calore del fuoco… Per
un attimo lei era diventata…». Gli sfuggì quasi dalle labbra il nome di
Giulietta. «Adesso mi dispiace di essere stato crudele con lei. Non volevo che
le accadesse niente di simile».
«Sono sicuro che neanche Marco lo volesse. Glielo diremo noi,
pover’uomo. Era innamorato di lei ma non poteva sposarla. Un uomo come
lui ha bisogno di una dote. E non me lo immagino a sfidare suo padre per
sposare una donna così al di sotto del suo rango. Eppure, nonostante tutto
questo, era molto geloso».
«Tu sai chi le aveva dato l’anello?».
Raffaello scosse la testa. «No, ma forse è il motivo per cui l’hanno uccisa.
Anche se non sono né vecchio né saggio, ho imparato che le persone sono in
genere molto semplici e sono mosse da motivazionielementari: amore, odio,
senso di colpa, avidità. Calendula era sfacciata, e senza dubbio aveva
sfoggiato quell’anello senza fare attenzione».
Nella testa di Francesco riecheggiavano ancora le parole di Susanna. Se
ne andava in giro mettendo in mostra se stessa e quell’anello nuovo. Era
destino che succedesse. Parole quasi identiche a quelle di Raffaello, anche se
pronunciate senza alcuna compassione. Ma come faceva Susanna a sapere
dell’anello o del fatto che Calendula ne facesse mostra? Era sicuro di non
avergliene parlato.
«Allora pensi che sia stato per rapinarla?», domandò Francesco.
«Semplice avidità?»
«È un movente come un altro».
Alfeo tornò in quel momento, annunciando che la lettera sarebbe partita
per Firenze il mattino dopo. Francesco buttò un’occhiata alla salsiccia che il
ragazzo si preparava ad arrostire sul fuoco e decise di comprarsene una per
quella sera, con i soldi della lettera che aveva risparmiato.
Le campane della chiesa annunciarono i vespri, perciò Raffaello fu
costretto ad alzare la voce per chiedere a Francesco se voleva accompagnarlo
da Imperia.
Annuì e si mise il mantello, confrontando il suo, di semplice lana, con
quello di Raffaello, di velluto bordato di ermellino. Una volta anche lui aveva
avuto un mantello così, ma suo padre gli aveva proibito di portarlo a Roma,
insistendo che quello di panno fosse più adatto alla sua nuova posizione.
Alfeo, reggendo la lampada, li guidò giù per le scale, verso la porta. Fuori
si stava facendo buio, e piovigginava incessantemente. Rimasero fermi per un
attimo sulla soglia, a guardare la pioggia leggera che cadeva sulla piazza,
mentre Alfeo aspettava di poter richiudere la porta. L’umidità era insidiosa, si
infilava sotto il mantello e le calze, e malgrado il calore del fuoco, Francesco
aveva ancora i piedi bagnati. Passò correndo una suora, chiaramente in
ritardo per le preghiere della sera, scivolò e per poco non cadde sulle pietre
viscide. Non c’era traccia del profeta che aveva visto farneticare poche ora
prima, e Francesco lo immaginò tenuto per i gomiti da due soldati, che
decantava convinto la rettitudine di Sua Santità mentre lo trascinavano via. O
forse era solo a cena con una moglie da tempo stufa e che si augurava
segretamente che lo trascinassero al rogo per avere almeno una serata di
quiete.
La casa di Imperia si trovava di fronte a quella di Raffaello, dall’altra
parte della piazza; dopo pochi passi giunsero alla sua porta. «Dimmi una
cosa», chiese Raffaello mentre accostava la mano al battente. «La donna che
ti tornava in mente quando vedevi Calendula è il motivo per cui sei a Roma?»
«Sì», disse Francesco senza aggiungere dettagli.
«Vuoi che lo dica io a Marco?», domandò poi, e Francesco annuì, grato di
venir sollevato da quel compito e grato anche che non gli avesse fatto altre
domande sul suo passato.
La porta si aprì, e si ritrovarono a fissare il petto di uno dei giganti che
Imperia teneva a servizio, una stazza che avrebbe scoraggiato chiunque si
fosse messo in testa qualche azione violenta. Francesco lo riconobbe: era
l’uomo che arrotondava il salario combattendo contro gli orsi alle fiere di
paese. Proteggeva Imperia e le sue ragazze con la stessa ferocia. Dovunque
fosse stata Calendula quando era stata raggiunta dal suo destino, non aveva
accanto quell’uomo. Il gigante li riconobbe e con un grugnito si fece da parte
per lasciarli passare. Francesco seguì Raffaello nel corridoio, e dalle stanze
illuminate dalle candele giunse il suono di un liuto e l’eco di risate.
La sala era calda e luminosa. Nel camino ruggiva il fuoco, e la luce delle
candele illuminava i fili d’oro degli arazzi e i tappeti persiani. Si guardò
intorno, aspettando di udire la risata di Calendula o di intravedere l’oro dei
suoi capelli ma in quell’istante realizzò che non l’avrebbe mai più sentita né
vista, e il ricordo del suo viso ferito lo riempì di un’inaspettata tristezza.
Una mezza dozzina di uomini del gruppo di Raffaello se ne stavano seduti
su poltrone imbottite, nel loro angolo preferito. Erano apprendisti e assistenti,
ma Raffaello li pagava bene, e così potevano permettersi di emulare il loro
maestro con abiti raffinati e maniere cortesi. Tenevano le gambe
languidamente distese davanti a sé, vestite di calzamaglia finemente lavorata,
mentre le braccia, avvolte da maniche di velluto e bordate di polsini di pizzo,
poggiavano sulle spalle nude delle loro ragazze preferite.
Sodoma stava facendo ridere tutti con uno dei suoi racconti. Era rinomato
per le sue storie e per i disegni osceni che vendeva sottobanco, e non era
certo un segreto che tra il clero romano si celassero i suoi acquirenti più
entusiasti. Quella sera indossava una delle sue tuniche preferite, di un vivace
color acquamarina, e mentre parlava sottolineava l’aneddoto agitando il
ventaglio dipinto.
Gli apprendisti e gli assistenti si alzarono non appena videro Raffaello,
uno di loro gli cedette la sedia e ne prese un’altra. Salutarono anche
Francesco, anche se nessuno si alzò per lasciargli il posto, così si sistemò
accanto al fuoco e si unì al circolo. Normalmente andava dritto alla vetrina
della libreria che conteneva la preziosa collezione di Imperia, composta da
più di venticinque libri: classici greci e latini rilegati in pelle e bordati d’oro.
Sentì un delizioso odore di pollo arrosto, e per un attimo ricordò il pollo con
tre zampe e il suo destino incerto nelle mani di Michelangelo, concludendo
che probabilmente sarebbe stato al sicuro finché il suo padrone avesse trovato
il pane e la pentola di zuppa di cavolo sul fuoco.
Prese la coppa di vino che Raffaello gli porgeva mentre Sodoma ripeteva
la storia a beneficio di Raffaello. «Mi hai detto di andarlo a cercare per la
terra di Siena bruciata di cui avevo bisogno. Hai detto che lui aveva quella
migliore, ma non mi hai detto che aveva anche la moglie più grassa di tutta
Roma. Mi devi avvisare di queste cose! Sai che per me è difficile restare
composto e trattenere le risa in circostanze simili. Ho fatto il possibile, ho
finto qualche colpo di tosse. Poi mi ha portato da suo marito, dicendomi che
stava lavorando a una commissione per un ambasciatore molto importante.
Era una Madonna con Bambino, e lui aveva preso un pollo, spennato e pronto
per il tegame, e l’aveva messo a sedere sul tavolo. Lo stava usando come
modello per Gesù Bambino! Ho comprato solo la metà del pigmento che mi
serviva, così potrò tornare a vedere il dipinto finito. Anche perché la
Madonna – che non era una gran bellezza neanche lei – teneva in grembo un
pollo senza testa! Coscette al posto delle gambe, e che piedi deformi! Ho
cercato di figurarmi Nostro Signore che camminava tra la gente con le zampe
di gallina, a curare i malati e gli infermi…».
Sodoma rideva troppo forte per riuscire a continuare; lo stesso valeva per
Francesco, meravigliato dalla presenza di così tanti polli in un giorno solo, e
per Raffaello, anche se fra i due aleggiava la terribile consapevolezza di
quello che era successo a Calendula, che rendeva la loro risata più flebile
delle altre.
C’era anche Colombo, un orafo il cui lavoro era molto apprezzato dal
papa. Suonava il liuto e nei sei mesi precedenti aveva scritto centottantadue
canzoni che celebravano la bellezza di Calendula. Francesco ne aveva sentite
molte, cantate davanti alla ragazza in serate simili a quella, anche se si
assomigliavano un po’ tutte. Colombo lodava i suoi occhi, azzurri come il
cielo o come il mare, i suoi capelli, dorati come il grano o come il sole o
come l’oro puro, la sua voce, melodiosa come quella di un angelo, il suono di
un ruscello, una stornella. “Marco non sarà l’unico a essere distrutto dalla
morte di Calendula”, pensò Francesco.
E poi c’era Dante. Era uno dei più raffinati intagliatori di legno di tutta
Roma, ma a ogni luna piena subiva una sorta di trasformazione e si
convinceva di essere qualcos’altro. Da quando Francesco era a Roma, Dante
credeva di essere un pipistrello, e usciva solo di notte con indosso una cappa
nera e un cappuccio. Si univacomunque a loro, ma si accovacciava su una
sedia e si teneva avvolta intorno la cappa. Raccontava le sue paure di non
tornare più umano ed essere per sempre condannato a volare di notte intorno
alle mura della città. Ma non si era sempre creduto un pipistrello. Sodoma
aveva raccontato a Francesco che una volta, per un mese intero, Dante si era
creduto un barattolo d’olio d’oliva. Francesco gli aveva chiesto come si fosse
comportato, e Sodoma ridendo gli aveva risposto che era più o meno come il
pipistrello, solo che, invece di accovacciarsi sulla sedia, cercava di salire sul
tavolo. In altre occasioni era stato un cane, un carretto e anche un
appendiabiti, che Sodoma elesse la sua trasformazione preferita perché Dante
se n’era stato per tutta la sera immobile in piedi con il mantello di Sodoma
appeso a un braccio.
Quella sera, da Imperia, mancava però l’architetto Bramante. Al pari di
Raffaello, era originario di Urbino e il suo intervento era stato decisivo per
convincere papa Giulio a commissionare al suo compatriota ancora
relativamente sconosciuto gli affreschi degli appartamenti vaticani. Era
presente, invece, l’amante senese di Imperia, Agostino Chigi, la cui
considerevole ricchezza era in parte dovuta alla sua posizione di tesoriere di
papa Giulio. Chigi stava costruendo una villa lungo il Tevere tra il Vaticano e
il quartiere Trastevere e voleva che a decorarla fossero i migliori artisti in
circolazione, che poi erano quelli raccolti intorno a Raffaello. Da quando
Raffaello era a Roma, lui e Chigi erano diventati buoni amici. Francesco
realizzò che il legame del pittore con il tesoriere del papa probabilmente
l’aveva aiutato a ottenere il suo generoso compenso, e si chiese per
l’ennesima volta come facesse Raffaello ad avere amici tanto potenti,
conservando però atteggiamenti così umili.
Come di consueto, Imperia entrò a salutare Raffaello. Era chiaro a tutti
che il suo interesse per lui andava ben oltre un rapporto professionale, ma
Chigi non gliene voleva. Del resto, quale donna riusciva a resistergli? E
anche se le frequenti visite di Raffaello al bordello avevano riacceso le voci
sulle sue doti virili, Francesco era sicuro che non avesse mai frequentato il
letto di Imperia, e neppure quello delle altre. Il desiderio che conduceva
Raffaello da Imperia era l’amore per la bellezza, e lì ce n’era in abbondanza.
Sceglieva le modelle tra quelle ragazze, trasformandole da prostitute a Sante
Vergini, un’ironia che non passava certo inosservata. E poi, come l’odore del
pollo arrosto ricordò a Francesco, nessuno a Roma aveva un cuoco più bravo.
Quella sera Imperia indossava un abito color lavanda, molto scollato, con
un soprabito e maniche abbinate di velluto viola. Era l’abbigliamento adatto a
una nobildonna, non molto diverso da quello che Francesco aveva visto
addosso a Isabella d’Este. Ma solo per il caso che decretava le nascite, una
era diventata patrona delle arti, l’altra una puttana. Raffaello disse a Imperia
che diventava ogni giorno più bella. Lei sorrise compiaciuta, avvicinandosi
alla sua sedia e poggiandogli una mano affusolata sulla spalla. Mentre si
chinava per baciargli la guancia, una ciocca ondulata dei suoi capelli neri
sfuggì dal pettine tempestato di pietre preziose.
Francesco sapeva di non poter tacere oltre. Dovevano dare la notizia a
Imperia; sarebbe stato crudele lasciar cominciare la conversazione e tenere
nascosta una verità così orribile. Raffaello si alzò e le offrì la sedia; proprio in
quel momento Marco si precipitò nella stanza.
Era chiaramente sconvolto. «Avete visto Calendula?», domandò senza
fiato. «Dovevamo vederci ore fa nel mio studio. È qui?». Si guardò intorno
come se potesse nascondersi negli angoli.
«Io non l’ho vista per tutto il giorno», rispose Imperia. «Pensavo se ne
fosse andata con te ieri notte».
«Non ero io. Me ne sono andato da solo». Si passò le dita fra i capelli. «E
tu?», domandò rivolto a Raffaello. «Eri ancora qui quando me ne sono
andato. Con chi se n’è andata? L’hai visto?».
Raffaello scosse la testa. «No, ma ho qualcosa da dirvi. Temo si tratti di
cattive notizie».
Francesco osservò il viso di Marco con attenzione mentre Raffaello
spiegava che il corpo di Calendula era stato ritrovato nel fiume. Non rivelò
che era stato Francesco a vederla, e non menzionò la terribile mutilazione,
disse soltanto che era molto dispiaciuto che fosse morta.
Non fu Marco il primo a reagire, ma Imperia: emise un gemito profondo e
poi svenne tra le braccia di Chigi. Dante mugolò e, chinando la testa sul
petto, si ricoprì con il mantello nero che simulava le ali del pipistrello e
rimase in silenzio, perfettamente immobile. Colombo, pallido come un
cencio, ansimò e parve anche lui sul punto di svenire, poi però afferrò stretto
il suo liuto. Francesco si chiese se la morte di Calendula avrebbe posto fine
alle canzoni di Colombo o se avrebbe scatenato un nuovo fiume di
componimenti.
Marco sembrava sinceramente sbalordito. “Non è la reazione di un uomo
colpevole”, pensò Francesco. Sapeva che il mondo era pieno di bravi attori –
che mettevano in scena gli inganni più convincenti per coprire i crimini più
orribili – ma non pensava che Marco fosse uno di quelli. Era un bravo pittore,
anche se privo di immaginazione, e Francesco era sicuro che la Madonna
della calendula sarebbe rimasta il suo unico capolavoro.
Sodoma aveva aiutato Chigi a sollevare Imperia e adagiarla sul divano,
agitando selvaggiamente le maniche e cercando di farle aria con il suo
ventaglio.
«Com’è morta?», domandò piano Chigi.
La riluttanza di Raffaello a rispondere sembrò risvegliare Marco dal suo
stupore. «Rispondi!», ordinò. «Cosa le è successo?».
Francesco sentì che era arrivato il momento di rivelare quale fosse stato il
suo ruolo. Presto o tardi, sarebbe saltato fuori comunque. «L’ho vista», disse
piano, «mentre la polizia la stava ripescando».
«Tu?». Il tono di Marco era calmo, ma colmo di accuse. «Sei stato proprio
tu a vederla?»
«È stata colpita alla testa…».
«È stata assassinata? E tu credi che io c’entri qualcosa!». Marco lo fissò,
la voce tremante, e Francesco si chiese se si sarebbe ripetuta la scena della
sera precedente, solo che questa volta sarebbe stato Marco ad attaccare. La
stanza fu percorsa da un brusio imbarazzato, poi Francesco vide che altri
ospiti curiosi si erano affacciati sulla soglia; c’erano il cardinal Asino e
Paride di Grassi, che quella mattina aveva tanto tormentato Michelangelo, e
c’era anche Bastiano, l’assistente di Michelangelo. Francesco non era
sorpreso di vedere Asino e di Grassi – il bordello di Imperia era famoso tanto
fra i religiosi quanto fra gli artisti – ma fu sorpreso di vedere Bastiano. Se
Michelangelo avesse saputo che Bastiano era lì, nello stesso luogo in cui si
riunivano Raffaello e la sua cerchia, l’avrebbe licenziato immediatamente, a
prescindere da quanto avesse bisogno di lui. Lo stesso valeva per Francesco,
naturalmente, che allora cercò di catturare lo sguardo di Bastiano per
mostrare solidarietà, ma l’assistente si voltò in fretta.
Intervenne allora Raffaello. «Niente affatto, Marco», disse, mentendo.
«Francesco è venuto da me per consultarmi sul da farsi. E la prima cosa era
dirtelo il più dolcemente possibile».
La rabbia di Marco si dissolse più in fretta di quanto fosse esplosa. Si
fidava di Raffaello, come tutti, del resto. «Dov’è adesso?», domandò,
lasciandosi cadere su una delle sedie accanto al focolare, con le lacrime agli
occhi.
«All’obitorio», rispose Raffaello. «E qualcuno deve reclamare il corpo
senza però sollevare sospetti con la polizia. Non penso che sia saggio che sia
tu ad andare, Marco».
«Non aveva famiglia», disse piano Marco. «Almeno, non a Roma. Sua
madre e sua sorella vivono in Sicilia».
Imperia aveva ripreso i sensi e si era seduta, sorretta da Chigi. Domandò
del vino, e le fu portato. Mentre l’amante la aggiornava con dolcezza, sembrò
sul punto di svenire di nuovo. «Andrò io a reclamare il corpo», disse alla fine.
«La consideravo una dolce cugina minore, e sarà quel che dirò. Portocon me
mio padre. Con le sue conoscenze alla corte papale, saremo al sicuro». Il
padre di Imperia era un apprezzato cantante del coro della Cappella Sistina.
«Pagherò qualsiasi cifra richiedano», si offrì Chigi, «e anche il suo
funerale».
Imperia lo ringraziò e poi pose la domanda che Francesco si sarebbe
invece aspettato da Marco. «Indossava ancora il suo anello nuovo?».
Francesco scosse la testa, guardando Raffaello in cerca d’aiuto.
«Sia dannato quell’anello!», sbottò Marco. «È di questo che si tratta. Ha
cominciato a comportarsi in modo strano da quando l’ha ricevuto. Chi
gliel’ha dato? Il Turco?», domandò a Imperia. Francesco si accorse che
desiderava saperlo con tutto se stesso.
«Non l’ha detto a nessuno. Ma ne andava molto fiera, non se lo toglieva
mai. È molto triste che forse sia stato la causa della sua morte».
«Ma qualcuno qui deve sapere chi le ha dato quell’anello!», insistette
Marco. «A qualcuno deve averlo detto!». Fissò gli astanti raccolti sulla
soglia, che si ritrassero tutti insieme. Francesco vide che Asino, di Grassi e
Bastiano erano scomparsi.
«Calmati!», ordinò Raffaello, che non alzava spesso la voce. Marco
obbedì, facendo un passo indietro e sprofondando nel divano accanto a
Imperia, con aria totalmente sconfitta.
Fino ad allora Raffaello aveva evitato di rivelare che oltre all’anello
mancava anche il dito. Francesco pensò che avesse fatto bene. Era una buona
idea omettere qualcosa, qualcosa che poteva sapere soltanto l’assassino.
Avrebbe comunque dovuto preparare Imperia e risparmiarle lo shock della
scoperta. Le avrebbe detto di tenerlo per sé.
Passò quasi un’ora prima che riuscisse a parlarle in privato, un’ora in cui
Colombo, in lacrime, cantò nuove canzoni in onore della bellezza di
Calendula. Erano del tutto simili alle precedenti, solo al passato. I suoi capelli
erano d’oro come il sole, la voce era melodiosa come quella di un’allodola, e
così via. Marco giaceva sul divano, Sodoma si faceva aria con il ventaglio e
Dante se ne stava avvolto nel suo mantello, dal quale emerse solo il tempo
necessario per mangiare un po’ di pollo arrosto. Anche Francesco mangiò
avidamente, grato di non dover spendere la sua moneta per la salsiccia.
Anche se la serata era priva della consueta allegria, fu ristabilita una parvenza
di normalità. Una delle ragazze recitò una triste poesia su un cavaliere
medievale che aveva perso il suo amore durante una terribile tempesta.
Ascoltarono e applaudirono tutti, ma senza troppa enfasi, e Marco aveva
l’espressione che doveva avere un uomo addolorato: affranto dalla perdita.
Francesco teneva gli occhi aperti, ma non c’era più traccia di Bastiano. Lo
infastidiva che avesse distolto lo sguardo non appena lo aveva notato.
Avrebbe dovuto allearsi con Francesco. “Io non glielo dico se non glielo dici
tu”. E comunque, che ci faceva lì con il cardinal Asino e Paride di Grassi?
Non poteva fare a meno di pensare che fosse coinvolto in qualcosa di losco.
Quando finalmente riuscì a parlare con Imperia, lei prese con equilibrio la
notizia del dito mancante e giurò di non dirlo a nessuno. Infine, gli diede una
torcia, che Francesco usò per illuminare il cammino tra le piazze ampie e
imponenti del mondo di Raffaello e quelle strette e squallide che invece erano
il suo. Era mezzanotte passata, e la pioggerellina ostinata sfrigolava sulla
fiamma della torcia. Controllò di avere ancora il pugnale al fianco e camminò
in fretta, per quanto le stradine ingombre glielo permettessero, resistendo
all’impulso di guardarsi alle spalle, consapevole che ogni occhiata lo avrebbe
solo reso più sospettoso.
Non era d’aiuto il fatto di sentire i lupi in lontananza, mugolii e latrati che
giungevano dalle colline dietro Trastevere. Possibile che fossero addirittura
dentro le mura? Quel che sapeva era che i lupi potevano portarsi via al
massimo una pecora, ma era sicuro che i lupi locali, come tutto il resto in
quella città, fossero più grossi e più cattivi. Li immaginò con le costole
sporgenti sotto i manti sudici, sangue e saliva gocciolanti da zanne bianche,
mentre si muovevano furtivi nella pioggia. Era, come diceva Raffaello, una
città maledetta. La violenza colpisce chiunque, e per motivi così futili, aveva
detto. Qualcuno veniva assassinato ogni giorno. Gli uomini estraevano i
pugnali senza essere provocati. Il più piccolo accenno di affronto all’onore,
che fosse vero o immaginario, poteva significare la morte, e un’ametista era
un ottimo movente per un omicidio. A Roma erano tutti come Guido del
Mare. Sentì dei passi alle sue spalle, estrasse il pugnale e si voltò di scatto.
Agitò la torcia da un lato all’altro, lanciando una pioggia di scintille nel
vicolo, ma tutto ciò che vide fu un gatto, che corse di fronte a lui e scomparve
oltre un muro. “Un gatto nero”, pensò Francesco, con il cuore che gli batteva
forte, e si rimproverò per quel rigurgito di superstizione. Di notte tutti i gatti
sembravano neri, e anche se fossero stati neri davvero, non significava niente.
Tuttavia tenne alta la torcia, sforzandosi di guardare negli angoli bui. Ma non
si mosse nient’altro, e così si rimise in cammino, svoltando nel vicolo dietro
casa di Michelangelo e disturbando un ratto mentre guadava cautamente i
rifiuti.
Da non molto lontano giunse l’abbaiare ansioso di un cane, seguito dal
pianto di un neonato. Si fermò sul cancello, guardando con desiderio il
sentiero che l’avrebbe condotto nel letto di Susanna. Era dispiaciuto di essere
stato brusco. Gli avrebbe fatto bene distendersi accanto a lei e dormire fino al
mattino. Non ricordava di essersi mai sentito così stanco, nemmeno quella
sera – appena due mesi prima – in cui aveva litigato con Guido del Mare. Ma
allora erano state le sue passioni e paure amplificate a tenerlo in piedi, mentre
quella sera non c’erano che tristezza e disagio.
Con la torcia in mano, sentì russare Michelangelo prima ancora di aprire
la porta. La stanza era tremendamente fredda e umida. Il focolare non vedeva
una sola fiamma dalla sera prima, e nella zuppa di cavolo cadevano gocce
d’acqua provenienti dal soffitto. La candela sul tavolo era ridotta a un
mozzicone, ma Francesco riuscì comunque a vedere che Michelangelo stava
schizzando una nuova versione del Diluvio.
C’erano figure nude rannicchiate su una roccia, che si aggrappavano le
une alle altre in attesa di essere spazzate via dalla marea crescente. Al centro
del disegno, altre figure nude cercavano di arrampicarsi su una barca
rovesciata, mentre nell’angolo in basso a sinistra, corpi muscolosi si
trascinavano sul fianco di una montagna, portando con sé i propri figli, gli
anziani, gli oggetti di casa. Ma non sarebbero stati al sicuro neppure lì. Non
c’era posto per loro sull’arca di Noè, e sarebbero morti presto, travolti dalle
acque che avrebbero riempito loro i polmoni. Il prezzo dell’ira divina.
Qualsiasi fosse il motivo per cui Michelangelo aveva distrutto il primo
affresco della scena, quello nuovo sarebbe stato infinitamente migliore.
Francesco sollevò il foglio e ne trovò un altro, raffigurante un uomo
barbuto che si sforzava di sostenere il peso di un giovane uomo
apparentemente senza vita. Aveva tracciato il profilo delle cosce muscolose,
erotiche, bellissime e spaventose nella loro potenza. Era come se
Michelangelo avesse preso tutto il desiderio che temeva di soddisfare, ci
avesse intinto il pennello, e l’avesse steso sul foglio.
L’artista russava. Francesco alzò lo sguardo dai disegni e, sollevando la
torcia, lo vide giacere sulla schiena, con le mani sotto la testa, i gomiti in
fuori. Il pollo si era sistemato sulla testiera del letto dal lato di Francesco, e
sembrava essersi addormentato anche lui – pareva addirittura russare.
Pendeva da un lato, con la zampa inutilizzata che sporgeva. Michelangelo si
rigirò, e Francesco temette che la luce della torcia lo avesse svegliato, ma
ricominciò subito a russare; il pollo fece il suo solito saltino, cambiò zampa,
si inclinò verso l’altro fianco e defecò sul cuscino di Francesco.
Imprecando sottovoce, Francesco se ne tornò

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