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Helena Janeczek, Carlo Lucarelli, Vanni Santoni, Alessandro Leogrande, Diego De Silva, Gioacchino Criaco, Evelina Santangelo L’agenda ritrovata Sette racconti per Paolo Borsellino A cura di Marco Balzano e Gianni Biondillo © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2017 da prima edizione ne “I Narratori” giugno 2017 Gianni Biondillo, L’agenda ritrovata. Una staffetta letteraria © Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA) Marco Balzano, Paolo Borsellino oggi. I temi de L’agenda ritrovata © Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA) Carlo Lucarelli, Hanno ucciso l’uomo ragno © 2017 by Carlo Lucarelli. Published by arrangement with Agenzia Santachiara Vanni Santoni, La solitudine della verità © Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA) Diego De Silva, Notturno pendolare © Published by arrangement with The Italian Literary Agency Gioacchino Criaco, La memoria del lupo © Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA) Evelina Santangelo, Presenze © Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA) I racconti raccolti in questo volume sono frutto dell’immaginazione. Gli eventi di cronaca e i personaggi realmente esistenti o esistiti sono trasfigurati dallo sguardo dei narratori. Ebook ISBN: 9788858829509 In copertina: elaborazione dell’Ufficio grafico Feltrinelli. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. L’agenda ritrovata. Una staffetta letteraria Gianni Biondillo 1 Passo ogni giorno davanti a una camionetta dell’esercito dove, da mesi, due militari piantonano piazzale Loreto, mitragliatore in mano. Sono lì per la mia sicurezza, per quella dell’intero quartiere, dopo l’ennesimo fatto criminale che ha mandato in fibrillazione i quotidiani nazionali, in una eccitazione mediatica fuori controllo, pornografica, che ha trasformato via Padova, la strada dove abito, in una specie di inferno in terra. Nulla di più lontano dalla realtà, ma questa è un’altra storia. Passo davanti, dicevo, e mi accorgo ogni volta di tenere lo sguardo basso, di incassarmi nelle spalle, quasi volessi scomparire dal loro campo visivo. Non mi sento sicuro, insomma. E non c’è ragione, ovviamente. Passo e mi tornano in mente le parole di Leonardo Sciascia quando diceva che gli italiani, di fronte alle istituzioni, si sentono sempre in colpa. È vero, non è militarizzando le strade che si ha una città più sicura, come dissi al mio sindaco quando chiese al governo la presenza dell’esercito. Ci vuole cultura del territorio. Nel territorio. Resta il fatto che quei ragazzi non mi hanno fatto niente e che io non ho alcun motivo per sospettare di loro. Poi, ogni giorno, attraverso il marciapiedi e le spalle si rilassano. Sorrido, spesso. Non perché mi sono lasciato dietro i militari, ma perché vedo un bar, uno di quelli anonimi, scialbi, non ancora glamourizzati dalla neocultura fashion food che sta imperversando in città. Sorrido perché ripenso, ogni volta che passo, a quando gli amici dell’Orablù vennero a trovarmi, in quel tardo agosto del 2016, per un caffè e un consiglio. L’Orablù è un’associazione culturale che da anni, ricchi del solo loro folle entusiasmo, hanno portato scrittori, musicisti, attori in quel di Bollate, un comune della cintura metropolitana. Un pezzo di Milano con un altro nome. La loro ospitalità è calorosa, il loro entusiasmo travolgente. “Abbiamo avuto un’idea,” mi dissero al telefono, “vogliamo parlartene.” La mattina appresso me la stavano esponendo in quel bar sgarrupato, frequentato da extracomunitari e perdigiorno. Il 19 luglio del 2017, mi spiegarono, sono venticinque anni dalla morte di Paolo Borsellino. Vogliamo fare qualcosa per rendere onore a lui e a Falcone, vogliamo che non si perda la memoria di un fatto così importante, di una tragedia così determinante per tutti noi. Li ascoltavo e pensavo: ecco. Ecco cos’è la cultura che nasce dal basso, ecco cos’è la società civile. Ecco cos’è la cultura del (nel) territorio. Vogliamo commemorarlo, mi spiegarono, attraversando l’Italia da Nord a Sud, in bicicletta. Da Milano a Palermo. Vogliamo partire il 25 giugno – giorno dell’ultimo discorso pubblico di Borsellino, come poi abbiamo scoperto: le date non sono mai casuali – per giungere, dopo una estenuante ciclostaffetta, a Palermo, in via D’Amelio, il 19 luglio. Ci porteremo dietro un’agenda rossa, la riempiremo lungo la strada di testimonianze, esortazioni, ricordi, imprecazioni. Tappa dopo tappa, paese dopo paese. E per ogni tappa, se qualcuno vorrà aiutarci (perché lo sai, soldi non ne abbiamo), vorremmo organizzare incontri, dibattiti, concerti, letture. Vorremmo consegnare nelle mani del fratello Salvatore quell’agenda rossa scomparsa durante i concitati momenti successivi alla strage. Scomparsa non per mano della mafia; ed è questa la cosa che, se è possibile, più ci addolora. (Li guardavo e pensavo: ecco l’ennesima prova di quel sospetto nei confronti delle istituzioni che mi fa camminare a testa bassa quando passo davanti ai militari in piazza.) Vorremmo idealmente risarcire la famiglia Borsellino di quel documento prezioso che l’antistato gli ha sottratto. “Voi siete completamente pazzi,” dissi loro, bevendo una birra ghiacciata. “È un’idea assurda, complicatissima, irrealizzabile. Ci vuole un sacco di gente per organizzare una cosa del genere. Ci vuole una radio che vi segua, se non addirittura un canale televisivo, qualcuno che documenti tutto sui social, ci vogliono persone e associazioni sui territori da coinvolgere. E non avete un euro, una struttura, uno sponsor, un appoggio politico, un santo in paradiso. Niente di niente.” Questa mia piazzata li lasciò di stucco. “Quindi dobbiamo lasciar perdere?” mi chiesero, mesti. “È un’idea folle,” ripresi, dopo un altro sorso di birra. Poi sorrisi: “Quindi ci sto!”. 2 Quella che è venuta dopo è una storia bella e pulita. È l’entusiasmo di Salvatore Borsellino che ci ha regalato la copia originale dell’agenda rossa dei carabinieri del 1992, è il coinvolgimento delle associazioni delle Agende Rosse, della Fiab, di Radio Popolare, di Coop Lombardia, di Libera Terra, dei ragazzi di “Una poltrona per tre” che si sono offerti di fare da ufficio stampa a titolo gratuito, sono le decine di realtà territoriali, di persone, famose o perfettamente sconosciute, che hanno abbracciato il progetto senza chiedere nulla in cambio. Una cosa però dobbiamo fare, dissi loro quella mattina. Quando tutta questa follia sarà finita, cosa resterà? Ci vuole un lascito. Dobbiamo coinvolgere un gruppo di scrittori, ripetere con le parole quello che voi farete con la ciclostaffetta. Un passaggio di testimone, dalla Lombardia fino alla Sicilia, per raccontare non tanto dov’eravamo alla morte dei due magistrati, ma dove forse siamo stati in questi anni, tutti noi: chi silente, chi indifferente, chi deluso, chi vigliacco, chi sempre e comunque, ostinatamente contrario, in prima fila. Dobbiamo scrivere un libro che testimoni tutto questo. Lo voglio curare assieme a Marco Balzano. Perché ho un’idea della cultura che è condivisione, inclusione, e non coltivazione esclusiva del proprio miserabile orticello. Perché Marco è bravo, lo conoscete bene, ha come me nelle vene un sangue meridionale, umile e irrequieto, e perché se è da Bollate che nasce un’idea così semplice e così perfetta, ci vuole uno scrittore di Bollate a seguirla! 3 L’altra mattina, mia figlia mi ha chiesto come mai i soldati che piantonano la piazza fossero tutti d’origine meridionale. I ragazzi fanno sempre le domande giuste. Io dovrei saperlo, dopo tutto, come ho fatto a non rendermene conto? Preso dai miei timori atavici, ideologici, m’incupivo di fronte alle uniformi, dimenticandomi dei ragazzi che le indossavano. Ci sono posti d’Italia, le ho detto, dove non sempre puoi decidere della tua vita. Doveper vivere, spesso per sopravvivere, sei obbligato a scegliere. Come è capitato ad alcuni miei cugini, o amici, chi arruolato, chi spacciatore. Fra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 non sono morti soltanto due uomini straordinari, due eroici magistrati, due persone che volevano raddrizzare la schiena e l’orgoglio di una nazione compromessa. Nell’attentato di Capaci sono morti oltre a Francesca Morvillo – la moglie di Falcone, magistrato anche lei – i tre agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. E nella mattanza di via D’Amelio hanno perso la vita Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Sardi, pugliesi, siciliani, uno persino immigrato dall’Australia. Forse alcuni di loro credevano nell’idea di servire la Patria. O avevano ammirazione per il magistrato che dovevano proteggere. Altri, più semplicemente, volevano fare un lavoro onesto, pagare l’affitto, sposarsi, programmare una vacanza al mare con gli amici. Qualunque siano state le loro ragioni sono morti per difenderle. Sono morti per difendere la dignità di tutti noi. Per difenderci. Questa ciclostaffetta, questo gesto semplice e naïf, puerile e romantico, è un cammino sulla spina dorsale di una nazione troppo spesso indifferente. Per ricordarci che la nostra, di schiena, deve restare dritta se vogliamo guardare negli occhi, col giusto disprezzo, chi ci vuole in ginocchio. Il futuro è fatto di memoria. Resto ovviamente dell’idea che sia la cultura e non l’esercito a rendere sicure le città. Ma da qualche tempo, quando passo in piazzale Loreto, ascolto i militari chiacchierare fra loro, cercando di riconoscerne l’origine dalla cadenza. (Quasi sempre è quella di mio padre.) Sono ragazzi. Lì per la Patria o per uno stipendio. Sono lì per me. Li ascolto e sorrido. Paolo Borsellino oggi. I temi de L’agenda ritrovata Marco Balzano Una cosa l’abbiamo sempre saputa: non volevamo un libro celebrativo. Né una di quelle raccolte in cui gli scrittori si sforzano di ricostruire dov’erano il giorno dell’attentato, cosa stavano facendo mentre esplodevano le bombe a Palermo o a quale congresso stavano intervenendo. E tanto meno volevamo una serie di riflessioni sulla mancanza di memoria dell’italiano medio o sui giovani d’oggi che ormai rimangono a bocca aperta quando si fanno i nomi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Niente di tutto questo. Il modo più onesto per noi era mettere insieme delle storie. Narrare. Uno scrittore che fa il suo dovere, del resto, è prima di tutto uno scrittore che scrive bene e che sa consegnare agli altri una storia. Volevamo un libro vivo, completamente calato nell’oggi, senza ulteriori mitizzazioni, senza altre ipocrite santificazioni, che sono servite soltanto a collocare in un olimpo inaccessibile chi apparteneva alla collettività e solo per questa si è sacrificato. La letteratura, invece, quando è letteratura, compie sempre un’operazione di avvicinamento. Con Gianni Biondillo abbiamo passato diverse serate a un tavolo sul retro de L’Orablù a cercare di sviscerare ciò che di attuale – anzi, di universale – si può ancora oggi estrarre dalla vicenda umana e professionale di Paolo Borsellino. Abbiamo cercato di mettere insieme delle tessere da affidare agli scrittori, che poi le hanno trasformate in storie con il loro stile, la loro fantasia, le loro esperienze, la loro voce. Davvero non sapevamo molto altro, se non che l’ambientazione e i personaggi dovevano essere più che mai attuali e realistici e che questi temi così urgenti dovevano essere affrontati di petto e senza fronzoli. Così, infatti, fanno i due testi che aprono e chiudono la raccolta, che si richiamano esplicitamente e dialogano tra loro e che, come i racconti centrali attraverso la trasfigurazione letteraria, coinvolgono il lettore, chiamandolo subito in causa, additandolo a testimone di quel passato e di questo presente ancora così problematicamente connessi. Un’ultima cosa sapevamo: in tutti i racconti doveva comparire un’agenda rossa. In una riga o in ogni pagina un’agenda rossa ci doveva essere. Del resto il primo dei temi in cui ci siamo imbattuti è venuto fuori proprio ripensando a quell’agenda dell’Arma dei carabinieri che Borsellino aveva riempito di appunti e che ha custodito gelosamente nella sua ventiquattrore fino alla fine. La sottrazione indebita di quel quaderno è uno degli esempi più macroscopici di come si possa volontariamente occultare e negare la ricerca della verità. Una verità, quella di Paolo Borsellino, che non faceva sconti, che non accettava mediazioni. E che infatti l’ha portato in fretta a un’immensa solitudine. Ma ripensare a Borsellino per noi ha voluto dire prima di tutto osservare quanto la sua morte ci metta, oggi più di ieri, di fronte a uno smisurato bisogno di giustizia, intesa sì come valore e virtù, ma soprattutto come istituzione dello Stato. È infatti inevitabile chiedersi, ripensando a quella pagina di storia, se la magistratura abbia avuto un rapporto sempre solidale con Falcone e Borsellino o se incrinature e falle abbiano intaccato anche il suo sistema. Ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità? Il terzo potere dello Stato non ha ammende da farsi? E se la magistratura avrebbe di che mettersi in discussione, la politica di allora – già ben prima degli attentati – ha dimostrato in modo eclatante di non essere il luogo dell’interesse comune, di non avere a cuore i difensori della legalità, di abdicare troppo in fretta alla ricerca della verità. Eppure quella stessa politica continua a resistere, ha attraversato il passato tumultuoso degli anni novanta arrivando indenne nel nostro presente e la sua ombra si proietta ancora oggi su un domani che non sembra riservarci maggiori certezze, nemmeno nel dialogo tra le classi sociali, dove la forbice sembra divaricarsi piuttosto che stringersi, rendendo le nostre città spazi silenti, altro da quel luogo di incontro e di possibilità che dovrebbero essere. In questo paese sembra che morire sia il solo modo per essere creduti. Da vivi si lotta nella meschinità e nel sospetto, da morti si diventa in un attimo eroi. Tutto si risolve, da morti. Gli aspetti spinosi, le contraddizioni, i tradimenti, i silenzi. Tutto si perde per strada, lascia il posto alla mitizzazione, all’agiografia, senza che nessuno riesca ad arrestare quella macchina che, consegnando le sue vittime ai riflettori, ai manifesti, ai dibattiti televisivi, alle ricorrenze pubbliche, alle pagine dei manuali di scuola, depotenzia la portata del loro messaggio, la complessità della loro vicenda, relegandola in un passato concluso, imbalsamandola in teche da museo. Questo ci è venuto in mente a furia di discussioni il più delle volte animate, lunghe, piacevolmente estenuanti. Nell’ultimo incontro abbiamo messo a posto gli appunti che avevamo confusamente accumulato e con i nostri brogliacci alla mano abbiamo ripensato all’agenda rossa di Borsellino. Al mancato ritrovamento di quel quaderno chiuso nella ventiquattrore insieme agli occhiali da sole e ad altri effetti personali ritrovati tutti al loro posto. Intatti. Ci è venuto in mente Salvatore, il fratello del magistrato, con cui questo progetto è nato. La grinta con cui da anni si batte per parlare di legalità in ogni angolo di Italia. La sua fame di verità. Abbiamo immaginato la ricerca paziente di persone come lui, di quei giornalisti locali che lavorano minacciati e senza scorta, delle tante associazioni che non conosciamo. E le frustrazioni, i muri invalicabili contro cui avranno sbattuto tutti quelli che hanno provato a ritrovare l’agenda rossa. Forse qualcuno di loro, nel tempo, si sarà rassegnato al potere occulto, avrà definitivamente messo in discussione la sua idea di giustizia, magari anche la considerazione dello Stato. Così l’ultimo punto è nato quasi per riscattarci da tutto il malanimo che mette ripensare a Paolo Borsellino, trucidato da quella stessa mafia che aveva già trucidato Giovanni Falcone. Se scrittori si diventa per ribellione alla realtà,per l’incapacità di accettare la storia nella sua brutalità, se scrittori si è per la necessità di riscrivere ogni volta ciò che è irrimediabilmente accaduto, non potevamo che immaginare anche il ritrovamento. Sì: il ritrovamento dell’agenda rossa, che metaforicamente è il recupero di una forma di dignità, di un senso delle cose che finalmente si disvela, di una consapevolezza che un altro mondo, un’altra vita sono più che mai possibili. L’AGENDA RITROVATA Pochi gradi di separazione Helena Janeczek Quella domenica ero andata nella nostra libreria storica e m’ero messa a dare un’occhiata alle novità sui banchi. Tu ci sei stata, Evelina, hai potuto arrampicarti tra gli scaffali e misurare la profondità del magazzino e puoi capire che attendere il ritorno della libraia nella terra emersa del suo negozio è un rito che può richiedere pazienza. Ma io, di solito, esco sul tardi e quando devo soltanto prendere i giornali, a volte pago e scappo, lasciando alla commessa i miei saluti da riferire ad Anna. Quella mattina, però, ero rimasta lì ad aspettarla. Ricordo il tuo sguardo stralunato davanti alla collezione completa della collana “NUE” e tutti quegli altri volumi introvabili che Anna teneva a mostrare proprio a te, autrice e editor Einaudi, per raccontarti che i titoli eliminati dal catalogo veniva a ricomprarli il dottor Cerati. Li faceva mettere da parte e trovava un’occasione per passare da Gallarate, come era abituato sin dal dopoguerra, quando non era ancora direttore commerciale e poi presidente della casa editrice. Tu, se non sbaglio, hai replicato con qualcuno dei tuoi “pazzesco!”, riempiendo di felicità Anna Carù che per la libreria ereditata dalla suocera ci vive. La vecchia signora Carù e la sorella, che avevo fatto in tempo a conoscere, si somigliavano al punto da confonderle. Erano piccole e dimesse dalla testa ai piedi, ma più colte d’un medio docente universitario di letteratura e ricche di consigli anche taglienti. La nuora ha mantenuto religiosamente quell’idea del mestiere che rende la parte nascosta della libreria Carù somigliante a una grande biblioteca, quasi che lo scopo dell’attività consista piuttosto nel conservare i libri che nel commerciarli. Se non fosse questo il luogo dove quella domenica mattina s’è svolta la scena che sto per raccontarti, non avrei reagito come ho reagito: con stupore, certo, ma senza rimanere neanche per un istante incredula o perplessa. Può darsi sia sbagliato chiamarla “scena”, ma “evento” o “accadimento” sarebbero ancora più fuorvianti. In realtà non è accaduto nulla tranne ciò che accade abitualmente. Anna è riemersa dal retrobottega. Speravo che si sarebbe liberata con la transazione alla cassa, ma poi ho ripreso a leggiucchiare un supplemento domenicale nel mio angolo davanti alle riviste. La clientela della libreria Carù si divide grosso modo in due tipologie. C’è chi, dopo aver pagato, se ne va come in qualsiasi altro negozio. E chi ama aggirarsi in mezzo ai libri per scambiare un’opinione su quelli che ha già letto o medita di leggere e, sia come sia, è venuto anche per fare due chiacchiere con Anna. Sono figlia di commercianti, Evelina, e posso dirti che la qualifica “un mio cliente”, con i suoi accrescitivi “buono” e “ottimo”, riflette una gratificazione superiore alla somma riscontrata alla chiusura della cassa. Il cliente fedele regge le fondamenta del commercio anche se non basta da solo a mandarlo avanti. Ma il negoziante non può aggrapparsi a nessun altro per sincerarsi che il suo assortimento e servizio abbiano qualcosa di speciale, e questo s’attaglia in modo particolare a chi, come Anna Carù, persiste in modo altrettanto candido che anacronistico a credere nella nobiltà del suo lavoro. Dall’atteggiamento con cui s’intratteneva alla cassa con quel signore, mi era chiaro che dovesse rientrare nella categoria che più la appaga. Era un uomo di statura media con la barba grigia, o forse solo con i baffi, a occhio e croce sulla settantina, e indossava una giacca non più nuova sopra un classico maglione a girocollo. Quell’abbigliamento me lo faceva d’intuito inquadrare nella tipologia del professionista o funzionario in pensione, un avvocato di buone letture, un architetto che colleziona libri d’arte, un ex professore o dirigente che coltiva un campo che lo ha sempre appassionato. Forse è il caso che t’avverta che lo sguardo analitico con cui cerco di ricordare quei pochi minuti potrebbe essere distorto dallo sforzo di ricostruirli a posteriori. Ero distratta, in realtà, distratta perché stufa di aspettare, e ho prestato attenzione a quel signore soltanto a partire dal momento in cui Anna m’ha chiesto di raggiungerli al centro del negozio. “Il dottor Borsellino, un mio ottimo cliente.” Non ricordo cosa ci siamo detti dopo le presentazioni, mentre mi è rimasto ben impresso che, non appena il dottor Borsellino è uscito dalla porta, Anna gli ha mandato dietro uno dei suoi tipici encomi: lettore come ce ne sono pochi, persona molto per bene, signore d’altri tempi. “E, sai, sono parenti.” “Ah sì?” Ha una tendenza ad avvampare quando si emoziona, e quell’uomo in giacca e maglione la emozionava come un messo regale che si fosse presentato in incognito alla sua porta. Così, con l’insicurezza di chi ha da buttar fuori una cosa troppo enorme, mi ha detto che era il fratello di Paolo Borsellino. “Davvero! E il fratello di Borsellino abita da queste parti?” “Credo di sì. Viene da me abbastanza spesso.” “E brava, Anna! Che bella clientela che ti sei fatta.” Non sono certa di aver pronunciato quella frase, ma il senso dovrebbe essere stato più o meno questo. Faceva piacere anche a me che quella libreria straordinaria fosse capace di attirare dei lettori altrettanto eccezionali. Capisci, ora, come mai quell’apparizione non mi aveva lasciata a bocca aperta? È solo adesso, avendo saputo da Gianni Biondillo che il fratello di Paolo Borsellino abiterebbe dalle parti della Brianza, che comincio ad avvertire un certo tremito. La Brianza viene spesso confusa con queste zone, ma è in effetti così vicina da prestarsi a un’escursione in mattinata che taglia fuori il traffico verso Milano e buona parte di quello verso i laghi. Ma come ha fatto un palermitano residente in Brianza a venire a conoscenza di una libreria di Gallarate? Probabilmente grazie ai contatti con l’ambiente dell’editoria o dei giornali, nel corso accidentale di uno scambio in cui gli fosse capitato di menzionare la difficoltà di reperire certi libri e, forse, commentare con amarezza che troppi lavori sulle verità negate di questo disgraziato, anomalo paese, tanti saggi e inchieste, sono diventati carta da macero. Metto nero su bianco quest’ipotesi e il disagio rispetto a ciò che sto scrivendo si fa più netto. Non posso stare qui ad almanaccare su una persona della quale non so nulla. Al tempo stesso non me la sento d’andare da Anna per chiederle di darmi un contatto di quel suo cliente, ammesso che ce l’abbia. Con quale diritto, Evelina? Per domandare come mai venga a cercare vecchi titoli alla libreria Carù e quali esattamente? Per inquisire che cosa lo abbia portato a vivere tra i mobilifici e le villette geometrili della Brianza? Per chiedere se gli risulti più duro o facile proseguire le sue battaglie da quella distanza di mari e mondi da via D’Amelio? Per rivolgergli, ad ogni modo, domande inopportune, domande invadenti nella misura in cui il fratello di Paolo Borsellino ha scelto di non avere un volto pubblico, se non quello che parla per procura e testimonianza? Forse è solo il timore d’aver messo piede sulle sabbie mobili di un racconto che potrebbe non andare da nessuna parte che acutizza questa voglia istintiva di tirarmi indietro. Eppure adesso, guardando delle fotografie di Salvatore Borsellino, a faccia a faccia con un’impressionante affinità, trovo inconcepibile che non mi avesse colpita all’epoca di quel casuale incontro in libreria. Non avrebbe dovuto arrivarmi come una scossa la sensazione che quella somiglianza oltrepassi l’eredità genetica, quasiche il fratello ancora vivo abbia trasferito su di sé il sembiante del fratello divelto dalla Fiat 126 parcheggiata davanti alla casa della madre in quella mattina devastante del 19 luglio? I fantasmi sono morti senza giustizia. I fantasmi possono non apparire mai a chi li ha sulla coscienza, poiché è proprio la coscienza che gli manca. Ma non abbandonano coloro che nel loro nome cercano verità e giustizia, agende rosse, prove mancanti d’un tradimento assoluto, imperdonabile. Così, alla fine, sarei propensa a concludere che non può essere il fratello del giudice il dottor Borsellino incrociato nella libreria di Anna. Chi, allora? Un parente? Tu che conosci la realtà della Sicilia e la realtà delle famiglie, mafiose e per bene, saresti così sicura che un cugino di Paolo Borsellino abbia piacere di esservi continuamente associato? Io ne dubito. Immagino piuttosto che un parente di quel Borsellino possa essere giunto in qualche cittadina lombarda attratto, se non costretto, dal beneficio di quella lontananza. Quassù non sono impiccioni e neppure accoglienti. Qui vivi più tranquillo in provincia che a Milano, ma se lo desideri, e spesso pure quando non lo desideri, conservi un anonimato pari a quello che si associa a una metropoli. Non è giusto, Evelina: qualunque grado di parentela possa legare il giudice ucciso in via D’Amelio al cliente di una libreria di Gallarate. Quel signore così lieto di scambiare qualche parola con Anna Carù, nonostante l’attesa fosse stata lunga, sembrava un uomo solo. Aveva tutta l’aria di non avere alcuna fretta di lasciare quello spazio ospitale per chi si sente a proprio agio in mezzo ai libri. Gli uomini – di quella generazione, soprattutto – non tendono forse a percepire la fine di un rapporto lavorativo che li imbrigliava nella scansione dei tempi riempiti da tragitti e impegni quotidiani come l’evanescenza di un posto al mondo? Diventano, in qualche misura, sradicati: persino quando hanno una moglie, figli e nipoti, amici che non siano soltanto ex colleghi, e altri parenti nelle vicinanze. E se fossero davvero delle persone sradicate? Quello sradicamento non l’hanno avvertito sinché il lavoro forniva le coordinate, mentre adesso la casa è troppo grande, gli affetti sparpagliati, il tempo libero più assillante di quello contato. Che se ne fanno di quella libertà, quando agisce in realtà a parti inverse, con il tempo da perdere che sprigiona nostalgie incontrollabili di un tempo perduto? È sempre il tempo il problema, non lo spazio. Oggi lo spazio è talmente superabile che basta prenotare un volo al computer e il desiderio di tornare nei luoghi d’origine si realizza in un attimo. Non ho idea, Evelina, di quanti ne conosca che hanno coltivato il progetto di ritrasferirsi dove il clima è più mite, i ritmi più tranquilli, le relazioni calorose, conveniente il costo di ogni cosa. Ma poi si sono trovati a fare i conti con degli aspetti mai considerati in passato. Se ci fosse bisogno d’un accertamento medico o un ricovero d’urgenza? Magari basta mantenere la residenza al Nord, un espediente burocratico che rivela come le coordinate d’appartenenza possono essere dettate, in ultimo, dalle necessità del corpo. Il corpo, anche se è ancora in forma, diventa portavoce delle abitudini. E queste, prima o poi, tendono a rivolere indietro le pareti dove si sono formate nel corso di una vita adulta. Ricominciare non è per niente facile, quando si invecchia. Questo vale per i “migranti economici”, come li chiameremmo oggi, distinguendo chi cerca una vita migliore da chi attraversa continenti e mari per metterla semplicemente in salvo. Il parallelismo, ti confesso, mi impressiona. Sarà la suggestione d’un probabile parente di Paolo Borsellino, ma non posso fare a meno di domandarmi se un numero imprecisato di immigrati meridionali non sarebbe da ascrivere alla voce “rifugiati”. Rifugiati interni, la cui cifra è sottratta alle statistiche, perché il moto d’allontanamento ha toccato solo il Nord del paese di cui detengono il passaporto. Ma se c’erano anche i morti ammazzati quotidiani o il giogo delle estorsioni o il clima di sopruso in generale tra i motivi che li spinsero a partire, come altro dovremmo definirli? E, in fin dei conti, esiste pure una categoria minuscola a cui compete un protocollo affine a quello che la legge internazionale impone per i richiedenti asilo. Lo Stato s’è assunto il dovere di proteggere quest’ottantina di persone, ma non è in grado di aiutarli a casa loro. Con un’identità di copertura non valida per registrare un’attività, intraprendere gli studi, partecipare a un concorso, e un assegno da pensione minima, i testimoni di giustizia sono trasferiti in una località protetta nella misura in cui vi risultino alieni. L’Italia trasforma i suoi cittadini più esemplari nella lotta alla mafia in fantasmi. La mafia, del resto, era un problema della Sicilia. Al Nord la mafia non esisteva. Era un fenomeno straniero di cui i lombardi avrebbero potuto sbarazzarsi aderendo alle proteste veementi dei loro nuovi portavoce. Non mi ero mai imbattuta in un banchetto della Lega, a Milano. Ma Gallarate confina con Cassano Magnago, il comune natale di Umberto Bossi, che era stato da poco eletto senatùr quando venni ad abitarci. Andavo a prendere un caffè in piazza o i giornali alla libreria Carù e spesso schivavo i volantini che strillavano Via da Roma. La Lega Lombarda faceva presa con quegli slogan martellanti, si univa alla Liga Veneta, diventava Lega Nord. Un movimento guardato con simpatia pure dall’ex partigiano Giorgio Bocca, firma di punta dell’“Espresso”, autore di un bestseller del 1992 aperto con la dedica: A Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che erano vivi quando cominciò questa inchiesta e che sono morti per la nuova Resistenza. Il funerale delle vittime della strage di Capaci è rievocato da Bocca con tutto il pathos di chi aderiva all’obiettivo dei giudici palermitani. Paolo Borsellino “per la prima volta lo vedo bellissimo, come un cavaliere antico che giura fedeltà di fronte al compagno caduto”, Giuseppe Ayala gli appare come un dipinto di El Greco, Rosetta Schifani figura degna della Chanson de Roland ancora viva nella cultura popolare siciliana. Sì, c’è qualcosa di cavalleresco, di nobile, di puro in questa difesa dei giusti di Palermo al loro passo di Roncisvalle, paladini di uno stato infingardo e inafferrabile. Erano anni che non vedevo più le facce degli italiani onesti e coraggiosi, non le maschere grottesche e unte del potere corrotto e mediocre; anni che non vedevo più il dolore e l’ira popolare, che non sentivo più quel grande respiro di commozione che nelle ore decisive ci fa credere, per poco, ma un poco che basta, che c’è qualcosa di buono o forse immortale negli esseri umani... Queste frasi cariche di solenni riferimenti culturali si riferiscono però a un evento guardato in televisione. A Milano, possibilmente. Se Giorgio Bocca avesse preso un volo per Palermo, come avremmo voluto fare in molti, non avrebbe colto nella calca aggravata dagli ombrelli, nelle urla in dialetto, nei singhiozzi mischiati ai fischi, nell’aria resa più asfissiante dalla pioggerella tiepida, quel che ha visto e descritto nel suo libro. E, forse, se si fosse trovato laggiù, l’autore de L’inferno. Profondo Sud, male oscuro avrebbe potuto accorgersi che il suo titolo non rendeva merito ai cavalieri senza macchia e paura caduti per quella che definiva una “nuova Resistenza”. Si può combattere un regime o respingere i disegni eversivi tradotti in azioni terroristiche (nessun libro di Bocca dedicato al fascismo o al terrorismo ha evocato un male inscalfibile nel titolo), ma non si può sconfiggere l’inferno. Dall’inferno ci si può solo salvare. Sono andata da Anna Carù per chiedere in prestito L’inferno. Profondo Sud, male oscuro, convinta che ne avesse una copia, e riattraversando la piazza Garibaldi ho mentalmente ripristinato dei manifesti negli spazi per le affissioni, datati anch’essi al 1992, che ho ritrovato in internet. Ogni volta che ci passavo davanti,mi facevano imbufalire. Non era vergognoso che la lotta alla mafia venisse ridotta a una protesta Nimby? In Sicilia la lista dei caduti continuava ad allungarsi, in Lombardia bastava che qualche mafioso di serie B non finisse alloggiato nella scala C del mio palazzo. Era una reazione di sdegno morale o forse soltanto un’indignazione epidermica. Però ho avuto sin dall’inizio la percezione che la Lega fosse una forza più pericolosa del carrozzone in camicia verde alla conquista del Varesotto. Ti dicono ancora oggi che la Lega delle origini non fosse razzista come quella odierna, considerato che perseguiva primariamente la secessione o, attraverso i suoi esponenti più moderati, il federalismo. Sembrava una buona risposta anche a coloro che, pur tenendo alla Repubblica nata dalla Resistenza, nonché ferventi ammiratori del pool di Palermo, avessero maturato la convinzione che alle regioni settentrionali sarebbe bastata una maggiore autonomia per sanarsi dei mali dell’Italia. Eppure alla base di un disegno sorretto da esempi nobili come la Svizzera c’era stata, sin da principio, una narrazione tossica. La Lega è sempre stata razzista, sia verso gli “extracomunitari” e “clandestini”, sia nei confronti della “maggioranza etnica meridionale” che opprime “le popolazioni cisalpine”, come si legge sotto lo slogan LE PEN È FASCISTA COME I PARTITI DI ROMA in un manifesto degli anni novanta. C’era la guerra civile in Jugoslavia, le “pulizie etniche” fomentate da una propaganda terrificante, ma affine alla visione della Lega, secondo cui il corpo sano e onesto del popolo del Nord doveva liberarsi di Roma ladrona e tutto il Meridione mafioso e parassitario. D’altronde, non era a Palermo, ma nel palazzo di giustizia di Milano che si stava celebrando lo sfacelo della Prima Repubblica, un’agonia per cancrena che accendeva il desiderio di risposte radicali, soluzioni in risonanza con quel sostrato delle opinioni che corrisponde ai luoghi comuni e pregiudizi; salvo che assumono un’altra dimensione passando dalla battuta sui terùn a un discorso politico entrato in Parlamento. Ero allarmata, un tantino paranoica. A ripensarci, non potrei affermare che si fosse sprigionata l’intolleranza verso i meridionali della porta accanto, ma incontravo sempre più sovente chi ribadiva uno scontento che si portava in pancia certi stereotipi. Era inconfutabile che la Lombardia fosse costretta a contribuire più di ogni altra regione alle casse di uno Stato che malgovernava le sue entrate, eppure le persone più impensabili sottoscrivevano l’interpretazione secondo cui la prosperità lombarda era premio di una virtuosità intrinseca. Nessuna di queste si sarebbe mai bevuta le ampolle offerte al Dio Po e le mitologie celtiche, nessuna avrebbe partecipato a un raduno in camicia verde, nessuna si sarebbe candidata nelle liste della Lega e probabilmente non l’avrebbe nemmeno mai votata. Però l’arrivo della Lega e la contesa del suo bacino elettorale ha elevato la credenza che il Nord sia una parte a sé stante dell’Italia e di per sé quella migliore, a un luogo comune accettato come un dato di fatto. Il Nord si convinceva che rescindendo il cordone con il sistema politico-mafioso si sarebbe salvato anche dall’inferno scatenato a Capaci e via D’Amelio, e ripetuto a Firenze e Milano. Così, nel 1992-93, mentre la ’ndrangheta si espandeva nel cono d’ombra del terrorismo di Cosa nostra, la Lega cominciò a governare i piccoli comuni di questa provincia e poi Varese, Gallarate e Busto Arsizio. Da quel momento, la stampa locale non poté che fare da megafono a un nuovo ceto politico appoggiato da una parte dell’opinione pubblica, anche se poi sarebbe stato ridimensionato dal successo di Forza Italia. I fatti di mafia rimasero confinati alla cronaca, dove non vennero presentati con risalto. La malavita siciliana e calabrese forniva notizie assai meno sentite della vecchietta investita sulle strisce pedonali o della sagra del risotto con la salsiccia. Da allora i giornali locali hanno acuito l’attenzione alla criminalità organizzata, ma basta sbirciare gli articoli online più letti per sincerarsi che ancora oggi chi li clicca non ha cambiato preferenze. Tu sai meglio di me, Evelina, che il concetto di omertà conosce modalità più sofisticate del parodistico “nudda saccio, nudda sentii e nudda vidi”. Temo che, da queste parti, la prima modalità di convergenza con gli interessi delle mafie sia stato l’atteggiamento del sordo che non vuole sentire e del cieco che non vuole vedere, poiché finisce per adottare strategie simili a colui che vi è costretto. Ormai lo sanno tutti che quassù la mafia esiste, ma una notizia e poi un’altra non insegnano a capire, nemmeno se calano dai tg nazionali di maggiore ascolto. La cronaca locale fa il suo mestiere, considerato che nessun cronista è così esposto come quello che segue i misfatti della zona dove vive, oltretutto nel pieno d’una crisi che colpisce con durezza particolare la stampa di provincia. Il caso esemplare è una free-lance ventenne di Magenta che comincia a incuriosirsi dei buoni rapporti tra il sindaco di Sedriano e il padre di una consigliera comunale, di cui sospetta un ruolo di peso nella ’ndrangheta. Non passano sei mesi da quando il settimanale “L’Altomilanese” pubblica i primi articoli di Ester Castano che forze ben più grandi vengono in soccorso. La Dda di Milano ordina l’arresto del sindaco, poi viene sciolto per mafia il comune di Sedriano, il primo caso in Lombardia. All’apice dello scandalo che coinvolge Domenico Zambetti, ex assessore della giunta Formigoni accusato d’aver comprato quattromila voti dalla ’ndrangheta, Ester riceve inviti in tv, premi giornalistici, e assistenza legale per la gragnola di querele da parte dell’ex sindaco, che finiscono tutte rigettate. Ester Castano e il suo direttore Ersilio Mattioni hanno subìto intimidazioni molto più mafiose – busta con proiettile, macchina fracassata – ma, per una ragazza che guadagna dai tre ai dieci euro a pezzo e un piccolo giornale indipendente, quelle intentate per vie legali sono lo spettro della rovina. Può darsi che sulle loro teste penda ancora una causa da parte di tal dottor Scalambra. Nella sentenza di febbraio è stato assolto. La sua richiesta di danni per diffamazione è di centocinquantamila euro. Queste sono le condizioni, precarie in tutti i sensi, in cui le notizie dovrebbero essere prodotte da coloro che le inseguono sul territorio. Non stupisce che molti colleghi di Ester Castano e Ersilio Mattioni siano assai più cauti, a meno che non si muovano nel solco delle procure o dei media di stazza maggiore. Sulla stampa locale si crea quindi la curiosa ambivalenza che, fuori dal raggio dei fatti conclamati, la mafia affiora tra le righe, s’insinua, aleggia. È questa presenza gassosa che vorrei capire meglio, perché non l’ho notata neanche io sino a inciamparci mentre leggiucchiavo le pagine “Gallarate/Malpensa”, come tutte le mattine, al mio bar-tabacchi. C’era una notizia che mi riportava sul tragitto che facevo sempre quando andavo al Carrefour del centro. Si trovava nel complesso condominiale che, al piano terra, ospita ora un fitness center con area termale, un bar e il mega- emporio dei cinesi subentrato al supermercato. Lì, a due passi dalla libreria Carù, il 23 febbraio del 2017 l’avvocato Brusatori stava per immettersi sull’anello viario che circonda la zona pedonale. All’improvviso, un uomo balza sul cofano dell’automobile, rompe il finestrino, tira fuori l’avvocato afferrandolo per la cravatta e infierisce a calci e pugni. Ma è l’ora di chiusura dei negozi e l’aggressione non passa inosservata. Un paio di ragazzi trovano il coraggio di trascinare la vittima al bar, dove arrivano i carabinieri e l’ambulanza. La prima versione della notizia fornita il 24 febbraio da “La Prealpina” conclude che “non sono chiari i motivi del pestaggio, tra l’altro avvenuto non lontano dal luogo in cui – nel 1989 – venne freddato il penalista Antonio Mirabile”. Brusatori, precisa l’articolo, è un civilista che però si è spessooccupato di penale; quindi sarà importante stabilire se l’aggressore fosse un suo cliente. Un paio di giorni dopo esco a prendere i soliti giornali della domenica ma arrivo soltanto nei pressi della basilica. Davanti alla gradinata che divide il sagrato dalla piazza sono allineati vigili, carabinieri, polizia e un’ambulanza. L’unico che sappia darmi qualche informazione attendibile è un ragazzo marocchino, venditore di accendini, che conosco da una vita. Un tizio ha fatto casino, dice, prima in chiesa e poi qui davanti: ubriaco, fuori di testa, s’è fatto male da solo, sanguinava. Se non fosse un italiano, aggiunge, non lo porterebbero via con l’ambulanza. L’indomani, al bar-tabacchi, trovo la notizia sul giornale. L’uomo che in piazza ha dato in escandescenze è lo stesso che due giorni prima ha massacrato il suo ex tutore legale in piazzale Europa. “ ‘Sono vivo per miracolo,’ dichiara Brusatori, un professionista di lungo corso, per altro avvezzo alla pericolosità di certi personaggi con magari ben altre e più pesanti colpe” (“La Prealpina”, 28 febbraio 2017). L’interesse della cronaca si concentra sul pazzo recidivo, il paragone con i “personaggi con magari ben altre e più pesanti colpe” – più pesanti, per inciso, del tentato omicidio del fratello per cui l’aggressore è stato in carcere – serve a dare risalto allo scandalo che possa ancora circolare a piede libero. In modo analogo, l’articolo del 24 febbraio rafforza l’ipotesi di una ritorsione inferta da un soggetto criminale, associandola all’assassinio dell’avvocato Mirabile. La natura di quell’antico, gravissimo delitto è suggerita solamente dal verbo “freddare”. Un omicidio di mafia eseguito al cospetto dell’intera via Manzoni, la via delle boutique e delle banche. Ma io, nonostante abitassi già a Gallarate, non ne sapevo nulla e al bar- tabacchi ci andavo già nell’89. Parlavo e sentivo parlare con il fruttivendolo, l’edicolante, le commesse e le sorelle Carù, le proprietarie della favolosa pasticceria Bianchi – la sciura Maria e la sciura Carla –, i portinai del condominio dove mi ero trasferita da Milano. In ventott’anni non mi è mai arrivata voce di un assassinio accaduto sotto le finestre del mio prossimo indirizzo. Le finestre del salotto erano quattro. Due affacciavano sulla via dove il complice teneva pronta la Kawasaki (la via del mio bar-tabacchi!), le altre sulla zona pedonale dove l’avvocato era stato colpito alle spalle mentre, quel pomeriggio del 17 maggio, si dirigeva allo studio. Com’è possibile che in tutti gli anni in cui ho abitato lì nessuno abbia fatto cenno a quell’agguato? Me lo domando appena le mie ricerche stabiliscono che la mafia era proprio mafia siciliana. L’interminabile vicenda giudiziaria basata sulle dichiarazioni di due pentiti s’è conclusa nel 2006 con una sentenza annullata in Cassazione. Poi il boss della “stidda” gelese di Busto Arsizio finisce arrestato e decide di collaborare. Convalida le dichiarazioni dei pentiti con l’autoaccusa d’aver procurato i sicari per eseguire un ordine impartito dalla Sicilia. I Rinzivillo di Gela sarebbero stati infuriati che il loro difensore avesse assistito meglio un coimputato passato a nuove alleanze. Sarebbe: il condizionale delle verità che non si possono inchiodare con un punto definitivo. Così il delitto torna ciclicamente all’onore delle cronache, alimenta una vicenda della quale si sa ma non si parla, o si parla per allusioni, “si diceva”, evocazione di fantasmi. La macchia resta sul pavé di via Manzoni, dove quel fatto di sangue osceno non avrebbe dovuto accadere e fare scandalo. L’avvocato Mirabile, pur ferito a morte, era riuscito a esplodere un paio di colpi che finirono nell’aria. E aveva non solo una Smith & Wesson nella tasca, ma pure un fratello legato a don Raffaele Cutolo. Quei fili sotterranei, ingarbugliati all’incomprensibile, che dipartivano dal centro di Gallarate, reclamavano di essere rescissi. E questo non può farlo il silenzio ma solo lo strumento delle parole giuste: “venne freddato”, ad esempio, che coniuga l’elusione del complemento a un brivido da poliziesco, per avvisare che l’omicidio di un brillante penalista napoletano è stato un evento talmente eccezionale che assume le sembianze della fiction. Il giorno dopo aver dato la notizia del pestaggio, le pagine “Gallarate/Malpensa” de “La Prealpina” parlano di un’altra azione ritorsiva: “Incidente, lite e raid in pizzeria. Blitz di un gruppo di calabresi dopo che uno di loro aveva discusso con un egiziano a causa di un lieve urto fra auto”. Sono le sette di sera quando davanti alla pizzeria da asporto “Al solito posto” di Ferno, distante sette chilometri da Gallarate, il ragazzo della consegna a domicilio litiga con il guidatore dell’auto tamponata che, nel giro di un’ora, torna con i rinforzi per sfasciare il locale di proprietà di un altro egiziano. La spedizione punitiva, fermata in tempo grazie al rapido intervento dei carabinieri, è opera di “cinque persone, tutte imparentate fra loro, originarie di Cirò Marina (Crotone) e residenti tra Ferno e Lonate, età variabile dai 26 ai 49 anni” (“La Prealpina”, 25 febbraio 2017). Nel 2005-2006, a Lonate Pozzolo e Ferno sono avvenute tre esecuzioni di tipo mafioso, punta mortale d’una serie di reati classici – rapine intimidazioni estorsioni usura ecc. – attribuibili alla ’ndrina Farao-Marincola di Cirò Marina. La ’ndrangheta non è arrivata grazie a qualche condannato al “confino”, ma a rimorchio della manodopera richiesta dal boom dell’edilizia degli anni settanta che ha portato una folta comunità calabrese, in buona parte di Cirò Marina, a insediarsi a Lonate Pozzolo e dintorni. La provenienza degli aggressori è dunque prevedibile, ma resta un’informazione riportata da tutti e tre i giornali che ho trovato in rete, nel caso di “La Prealpina” e “Varese News” sin dal sottotitolo. La fonte più preziosa appare su “Sempione News”, un nuovo quotidiano online del Legnanese che non include la “nera” tra i suoi interessi prioritari e, infatti, introduce con una titolazione frettolosa1 un pezzo che pare la copia di un testo giudiziario. Rileggo allora gli altri due articoli. Sovrapponibili nei contenuti, a tratti letteralmente identici, traducono in una scrittura più scorrevole il verbale senza aggiungervi nient’altro. E dato che i carabinieri hanno riscontrato dei reati comuni, la cronaca non fa cenno alla ’ndrangheta, salvo fornire gli elementi da cui il lettore avvertito può trarre le sue supposizioni. I soggetti denunciati sono tutti consanguinei, tutti originari del comune della cosca regnante, e hanno agito in un certo modo. “Sembra un’anatra, nuota come un’anatra, starnazza come un’anatra...” – hai presente? Sospettare lo zampino dell’anatra non dovrebbe indurre a pensare a un reato di mafia vero e proprio, ma l’automobilista che chiama a raccolta i parenti per demolire la pizzeria d’un tale che non è neanche quello con cui è inferocito, e i parenti che si prestano a punire quello sgarbo, si sono comportati in perfetto stile mafioso. E questo, penso, si sarebbe potuto scriverlo, anziché sbrigarsela con delle informazioni “neutre” che non sono però esenti da altri impliciti. Prendi “La Prealpina” con quel sottotitolo su calabresi ed egiziani. Trasmette la percezione tutto sommato rassicurante che il fattaccio di Ferno sia stato un conflitto tra minoranze etniche che, incapaci di aderire alle regole civili del Nord, si sono scontrate tra di loro. E replica in più la confusione tra “calabresi” e “’ndranghetisti” che, oltre a discriminare i primi in toto, ha sempre offerto riparo ai secondi. C’è un episodio che lo esemplifica con limpidezza. Nel 2007, quando a Lonate il clima d’intimidazione era irrespirabile, un comitato riuscì a portare da Cirò la statua del santo patrono. Ma anziché tenerla in chiesa, com’era stato concordato con il parroco, san Cataldo venne portato in processione per le vie del paese, con i sindaci dei due comuni in testa ai fedeli, tra i quali, con il senno di due anni dopo, i curiosi avrebbero riconosciuto le faccedi quasi tutti gli arrestati.2 E gli altri chi erano? Nel probabile verbale riprodotto da “Sempione News” i componenti della famiglia calabrese hanno un cognome. Quel cognome – Cilidonio – si trova nelle ordinanze delle procure di Busto Arsizio e Milano che, tra il 2009 e il 2010, compiono il più grande passo avanti nel contrasto e nella comprensione della ’ndrangheta al Nord. L’inchiesta bustocca Bad Boys è stata presa in carico dalla Dda milanese che, a sua volta, si è coordinata con la Dda di Reggio Calabria. Il 13 luglio del 2010 le indagini Crimine-Infinito terminano con l’arresto di oltre trecento indagati, distribuiti equamente tra la Lombardia e la Calabria. L’indomani i media diffondono due video che simboleggiano il cuore dell’inchiesta. La riunione plenaria al santuario mariano di Polsi, in Aspromonte, e quella al circolo Arci “Falcone-Borsellino” di Paderno Dugnano, nell’hinterland milanese. Sono la prova più immediata che la ’ndrangheta ha una struttura unitaria governata dalla madrepatria calabrese, nonostante l’alto grado di autonomia delle ’ndrine organizzate in “locali” di cui la Lombardia è disseminata. Il filone milanese comincia a individuarne sedici, tutte collegate con le locali calabresi che fanno capo alle stesse famiglie: Bollate, Bresso, Canzo, Cormano, Corsico, Desio, Erba, Limbiate, Legnano-Lonate Pozzolo, Mariano Comense, Milano, Pavia, Pioltello, Rho, Seregno, Solaro. La Brianza vince per numero (sette locali!), ma quella di Legnano-Lonate ha avuto un ruolo decisivo. Sul suo territorio è avvenuto l’omicidio di Carmelo Novella, capo di una struttura sovrapposta alle locali lombarde – la Lombardia – che mirava all’indipendenza dalla Calabria. Quel secessionista per motivazioni analoghe a quelle della Lega – che spetti più sovranità a chi produce più ricchezza, a cominciare dal versarne meno alla casa-madre – andava eliminato. In più occorreva che la punizione diffondesse un messaggio autorevole: al Nord si fanno soldi, ma i soldi non contano di fronte alle regole con cui comanderà per sempre il Sud profondo. Così il boss ucciso nell’Altomilanese conduce gli inquirenti a scoprire che la sua morte era stata decisa in Calabria, per sentenza del Capo Crimine o Vangelo, il vertice supremo della ’ndrangheta della cui esistenza non s’era mai ottenuta nessuna prova. Quando vennero diffusi i risultati dell’inchiesta Infinito rimasi scombussolata. Non mi colpì tanto la diffusione della ’ndrangheta in Lombardia, quanto la rivelazione che alcuni punti della mia mappa, dove “mio” riassume un lungo processo di radicamento, coincidevano con quelli appartenenti a un mondo parallelo perfettamente radicato. C’era il circuito da motocross sul lato destro della superstrada per Malpensa, vicinissimo. Ogni volta che partivamo per le vacanze, mio figlio si esaltava per il rombo querimonioso dei motori che entrava dai finestrini aperti, visto che nei dieci minuti di tragitto non mettevamo l’aria condizionata. Reclamava di essere portato a vedere qualche gara e io speravo ogni volta che mi fossero risparmiati dei pomeriggi sull’erba spelacchiata a sopportare uno spettacolo assordante e, dal mio punto di vista, pericolosamente idiota. Auspicavo, soprattutto, che la sua passione infantile si sarebbe ridimensionata in tempo quando avrebbe raggiunto l’età per guidare una moto. È andata così, salvo che le mie vecchie ansie materne dovettero misurarsi con i summit di ’ndrangheta al crossodromo sulla strada per l’aeroporto. Durante il primo, nel 2008, si celebrò il conferimento di una “dote” elevata a un uomo della locale di Pioltello, alla presenza dei vertici della ’ndrangheta lombarda e dei due capibastone di Cirò Marina, tutti e due latitanti. Gli onori di casa spettarono ai capi della Lombardia e della locale di Legnano-Lonate, entrambi residenti nel comune di Legnano. Poco dopo Novella viene ucciso al bar del circolo “Ex reduci e combattenti” di San Vittore Olona, a due passi dal Sempione macinato un’infinità di volte, quando mia madre andava a fare gli ordini e, per non farla guidare da sola nella nebbia, io l’accompagnavo nell’infilata dei cartelli bilingue che rivendicavano l’esistenza poco attraente della Padania: Parabiago, Nerviano, San Lorenzo, San Vittore. Era in quel paese con la chiesa di fianco alla statale che c’eravamo aggirate come le galline alla ricerca della via che sbucasse davanti al calzaturificio di un suo fornitore, sbuffando per la segnaletica assente e l’imperscrutabilità dei sensi unici. Carmelo Novella lo seppellirono a San Giorgio su Legnano, dove, a scanso d’equivoci, proprio davanti al cimitero venne fatto ritrovare il cadavere di un affiliato di Cirò Marina. Ma dopo quella replica poco conciliante la direzione della ’ndrangheta lombarda si raccolse per decidere la linea da adottare nei confronti della casa madre calabrese. Quella seconda riunione al crossodromo di Cardano al Campo rivela ancora meglio il potere della locale di Legnano-Lonate comandata da Vincenzo Rispoli, ufficialmente fruttivendolo, che, malgrado la vicinanza a Novella, riuscì a farlo valere sino a quando non lo fermarono i carabinieri. Mi sono scaricata le ordinanze Bad Boys e Infinito per misurare la consistenza di questi incroci, me la sono cercata, alla fin fine. Tra gli imputati figura un uomo che viveva a Gallarate e porta un cognome tipico di queste zone, un cognome che mi è molto familiare. Evelina, mi è venuto un colpo. Era una Zocchi la più cara amica di mia madre. Da piccola la chiamavo “zia Mariuccina”, dormivo a casa sua, imparavo Di qua, di là del Piave (“sputava il laàtte, beveva il vino, l’era il figlio d’un vecio alpìn...”) e altri canti di montagna, assaggiavo il bianco fresco allungato con l’acqua San Pellegrino. Di Zocchi ne conosco un mare che non hanno relazioni di conoscenza e ancor meno parentela, ma il pensiero d’un legame con quella donna che incarnava il meglio che queste zone hanno donato a noi sparute senzapatria mi dà il ribrezzo d’una profanazione. Per fortuna quel Zocchi, Fabio, è nato a Genova e – lo specificano le carte di Infinito che compulso – arriva in Lombardia solo negli anni novanta. È una scoperta che mi rassicura. Però non posso a fare a meno di supporre che si fosse stabilito qui per via dell’origine paterna e, ancora peggio, che la sua carriera criminale avesse tratto vantaggio da quel cognome. Titolare di un’azienda di consulting con l’ufficio in un signorile condominio a pochi passi dalla libreria di Anna. Arrestato al casinò di Saint Vincent. Non fungeva solo da consulente, prestanome, riciclatore, interfaccia presentabile. Non era un “colletto bianco” e tantomeno “zona grigia”. Lo hanno condannato a nove anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Era affiliato alla locale di Legnano-Lonate. Un picciotto gallaratese. Le carte non raccontano come fosse diventato il braccio destro di un personaggio in grande ascesa a Lonate, tal Filippelli, Nicodemo. Ma sono inseparabili quando gli inquirenti piazzano una cimice sulla Kangoo di Zocchi, nella corretta presunzione che si sentissero al sicuro nell’abitacolo di quella multispazio da padroncino che sta schiscio. Il gallaratese s’è già fatto le ossa nel ramo recuperi, l’affiliazione è tuttavia così recente che il suo compare cirotano deve spiegargli tutto. Gli insegna che la ’ndrangheta è come una religione e, immancabilmente, una famiglia. “Famiglia” glielo inculca, ma chiosa pure che significa avere dietro un esercito, se serve. Gli dice “da adesso in avanti tu sei maggiorato come persona”. Gli raccomanda “tu sei vincolato... gli altri, gli altri sono liberi, giustamente fanno quello che vogliono... tu non lo puoi fare”. Lo Zocchi non risponde molto, salvo la volta che il Filippelli lo informa di un carico d’armi in arrivo e “una a me, una a te” propone, come farebbe il leaderino delle medie con il gregario che gli pende dalle labbra. Segue un dibattito su marche, dimensioni e altre questioni tecniche che si fanno veicolo della loro eccitazione da falsi adolescenti. Zocchi, intanto,ascolta la dottrina che gli impartisce Filippelli, tranne un concetto che fatica a entrargli nella testa. Ha ancora quello spirito d’impresa tipico del Nord, quel senso del profitto individuale come fine e parametro, sicché l’entrata in società con la multinazionale calabrese dev’essergli sembrato un win-win: loro mi danno un sacco di lavoro, io m’intasco gli utili a manetta. Invece ora non si può fare più nulla – nessun introito, nessun extra – senza andare da Rispoli a Legnano, altrimenti, lo ammonisce Filippelli, si finisce come “quelli che adesso si trovano sottoterra”, i morti freschi del periodo in cui il suo pupillo era in attesa di farsi adottare dalla ’ndrangheta. È un apprendista ’ndranghetista di rispetto, Zocchi. Versa gli oboli per la vedova della “buonanima” ammazzata al bar di Lonate e nella “bacinella” per i carcerati. Si occupa delle camicie da regalare ai due funzionari d’una banca di Cardano e dei “soliti cinquemila” per l’agente di polizia doganale all’aeroporto di Malpensa. Non viene invitato al crossodromo e altri grandi incontri, in quanto non-calabrese (è così agli atti), ma svolge le sue mansioni come se fosse nato nella Locride. I creditori ha imparato a convincerli, all’occorrenza, con uno schiaffo in faccia, di regola gli bastano le parole: “Ascoltami bene, io voglio i miei soldi... Perché io ti dico che ti prendo e ti levo la pelle e ci faccio un portafoglio. Mi segui quello che ti dico?”. Sono io che fatico a seguirlo. Sarà stato un piccolo affarista spregiudicato, come ce ne sono a bizzeffe. Ma è davvero solo il denaro che lievita come la pasta-madre a farlo entrare in alleanza con gente che finisce carbonizzata in mezzo alla brughiera per mano di coloro che poi non mancano di presenziare ai funerali? A legarsi con un vincolo indelebile a quei soci che sparano contro l’auto di Emanuela Viadana mentre c’erano i figli e il marito a bordo, e poi, fallito il messaggio per farle ritirare la denuncia, si presentano in un’agenzia immobiliare di una delle vie più centrali di Busto Arsizio a gambizzare la sorella? Avrei una risposta, Evelina, o perlomeno un’ipotesi, e non mi piace. Perché se è vero che il bilancio dei rischi-benefici è pazzesco, questo ragionamento non tiene conto dei fattori che non entrano in quel conteggio. Il gusto di fare paura, il piacere intrinseco alla violenza, non hanno prezzo. Ma ancora peggio è l’aver letto in tralice agli interrogatori che il puro terrore non descrive per intero il potere mafioso d’assoggettamento. Traspare un rapporto più ambiguo tra gli strozzini e le vittime dello strozzinaggio. L’adrenalina d’un gioco pericoloso che si rovescia in panico e vergogna, entrambi paralizzanti, quando gli imprenditori in sofferenza capiscono l’errore capitale d’aver creduto di potersi servire dei mafiosi. Quelli però ti risolvevano ogni problema e non se la tirano da stronzi come i direttori delle banche, nonostante Porsche e Lamborghini, i conti delle imprese, i mazzi cash sull’unghia attinti da una fonte di liquidità inesauribile. La soggezione s’instaura sin da principio, nasce da un miscuglio di timore e ammirazione, disperazione e invidia, crea l’invischiamento in un rapporto che funziona anche a specchio. Quel rapporto non si azzera quando lo specchio viene infranto: da un lato i poveri coglioni che se la fanno sotto, dall’altro i vincenti pigliatutto. Che uno Zocchi avesse scelto di stare con questi ultimi anziché i suoi simili lombardi, spolpati e umiliati sino al midollo, non sembra una cosa fuori dal mondo, se non c’è nessuno che ne conosca un altro. “Il peggio del Sud si sta legando al peggio del Nord” è una frase che ho sentito per la prima volta guardando una videoregistrazione dove è citata da una pm della Dda di Milano invitata a un’iniziativa antimafia del 2015 a Lonate Pozzolo. Nel 1983, quando la disse il sindaco democristiano di una cittadina brianzola,3 la figlia d’un caporeparto cresciuta a Soresina nella bassa cremonese stava per diventare la prima in famiglia a prendere una laurea, poi una dei pochi laureati in legge d’origini settentrionali a entrare in magistratura.4 Alessandra Dolci ha imparato che in Lombardia esiste la ’ndrangheta a partire dal primo turno di pm a Monza, trovandosi davanti a sette chili e mezzo d’esplosivo freschi di sequestro, i cui bidoni, essudando, minacciavano di far saltare la caserma, e poi di fronte a un testimone a cui bruciarono la casa mentre lo stava interrogando: la moglie in carrozzina era uscita, per fortuna. C’è un’attenzione altissima durante il suo lungo intervento, parole senza enfasi, chiare nell’esprimere anche la delusione, l’amarezza. Lo sforzo di Infinito non ha cambiato nulla. Lo ribadisce nel 2016 a Castano Primo, a un’altra tavola rotonda di cui esiste sia un video che un riassunto pubblicato su “L’Altomilanese”.5 Sostiene Alessandra Dolci che la parola “infiltrazione” falsifica la realtà perché “non è la mafia che s’infiltra nel territorio lombardo, sono gli imprenditori e i politici, tutti lombardi, che chiedono aiuto alla mafia, che la cercano”. Però non basta la denuncia quando i destinatari sono un centinaio di studenti o una platea che raccoglie la voglia di riscatto cittadina. Allora lei si affida a un motto tanto più potente quanto rievocativo di colui che l’ha coniato. “Non c’è bisogno dell’impegno straordinario di pochi, ma dell’impegno ordinario di tutti,” ricorda, con Falcone. Quando voi a Palermo stavate realizzando quell’impegno, noi a Milano ci sentivamo partecipi delle vostre battaglie, rincuorati dal vostro coraggio. E quando il 23 maggio del ’92 esplose l’autostrada per smembrare anche la massa ingovernabile che eravate diventati, quel terremoto creato dalla ferocia umana ci lasciò così sconvolti, inorriditi, invasi da una rabbia sepolcrale che il vostro dolore e la vostra rabbia parlavano anche per noi. Palermo rappresentava il cuore ferito di una patria ideale, ancora una volta colpito da uno scempio troppo enorme perché potesse essere soltanto una cosa di Cosa nostra. Tra quelle di Capaci e via D’Amelio convocammo le stragi di Stato (le prime immagini della stazione di Bologna le vidi proprio dalla zia Mariuccina) e tutto ciò con cui la democrazia italiana era stata tenuta sul filo del rasoio: servizi deviati, logge segrete, interessi americani dei quali si era fatta garante la Dc, indagini e processi depistati, complicità con l’eversione nera e, infine, l’antistato insediato in Sicilia. Eravamo quella società civile che si sarebbe presto radunata davanti al palazzo di giustizia di Milano, e poi avrebbe detestato il “Cavaliere”, la cui ascesa formidabile, come indicavano le inchieste dei “magistrati comunisti”, era avvenuta grazie all’appoggio di Cosa nostra. Non ci saremmo immaginati che la condanna definitiva di dell’Utri sarebbe arrivata quando la rinascita di Forza Italia sorgeva dal bisogno di non cedere troppo al declino dei partiti che, per un ventennio, avevano raccolto l’eredità peggiore di quelli che avevamo contribuito a seppellire. Davvero chi lo avrebbe detto che non moriremo democristiani né berlusconiani, si presume, ma di mafia seguitiamo a morire ovunque, persino senza autobombe, killer motorizzati, trattative ai massimi livelli. Stiamo morendo con ogni piccolo scambio di voti, ogni piccolo appalto vinto da una società mafiosa, ogni piccola azienda colpita dalla crisi che si rivolge a personaggi alla Zocchi per finire assorbita o in fallimento, ogni persona – dall’infimo spacciatore al professionista ben introdotto ecc. – a cui le mafie garantiscono lavoro. Stiamo morendo nell’omertà diffusa dalle Alpi alla Sicilia perché quelli saranno pure brutta gente ma sono seri, a loro modo, e funzionano. Non è che all’epoca il nostro sguardo così intento a carpire l’occulto e l’osceno fosse miope, ma forse soffrivamo di un difetto della visione opposto. Eravamo troppo presbiti per vederle bene in sé, quelle organizzazioni criminali, e questo valeva soprattutto per chi non viveva sotto il loro percepibile tallone. Così è stata ancheper responsabilità della “parte migliore dell’Italia” che la linea della palma ha continuato a salire e le palme sono attecchite tra i casermoni delle periferie milanesi, i casolari dell’Oltrepò, le fabbrichette brianzole e varesotte; finché alcuni di noi si sono accorti che i gradi di separazione da Brancaccio e Scampia, dal Casertano e dalla Locride, sono diventati sempre meno. Almeno questo è capitato a me, quando ho ingrandito la mappa dei luoghi che in qualche modo mi appartengono per studiarla con i miei occhiali da lettura. Però se guardo da vicino la realtà che mi circonda, se provo a relazionarla con gli atti e le cronache, certe percezioni fluide emergono dal limbo degli scenari quotidiani. I negozi fin troppo belli e superflui che aprono e chiudono nell’arco di nemmeno un anno. I lounge-bar festaioli che passano di moda dall’oggi al domani perché i pusher sarebbero migrati altrove. A me metteva allegria che davanti alla sciurosa pasticceria Bianchi avesse aperto il clone shabby-chic di un celebre locale parigino. Mi rassicurava che, quando tornavo tardi da Milano, ci fossero in giro tutti quei ragazzi che ponevano fine ai tempi mogi di quando il centro storico moriva al tramonto. Ma nel corso degli anni il Buddha Bar divenne luogo di spaccio e risse pesanti che comportarono due chiusure per decreto e, infine, l’incendio dell’ultima estate, le cui esalazioni tossiche erano così forti da far partire le segnalazioni da mezzo chilometro di distanza, ritardando l’arrivo dei vigili sul posto. Il negozietto di bigiotteria accanto, invaso dalla fuliggine e dal fumo appiccicoso che rovinò tutta la merce, ha riaperto solo a ridosso di Natale. Una truffa assicurativa, probabilmente, mi hanno detto le titolari, amareggiate che le procedure facciano slittare a chissà quando qualsiasi risarcimento. Nei giorni in cui l’antro carbonizzato del Buddha Bar era sbarrato dal nastro bianco e rosso, nessuno che si fosse fermato lì davanti credeva al corto circuito ipotizzato sulle prime dai giornali. Insomma è diventato normale che vadano a fuoco degli esercizi perché qualcuno ha motivo di bruciarli. La puzza oscena è rimasta sino ai primi freddi. Mescolata al profumo delle brioche riassumeva il sentore di mafiosità che non si dice, tantomeno si avverte il bisogno di raccontarlo. In Italia non esiste nulla di simile ai grandi film statunitensi o alla serie dei Sopranos, dove i mafiosi si muovono all’interno dei rapporti di potere con la comunità d’origine, al punto che Little Italy, il Bronx, la suburbia italoamericana del New Jersey sono iscritti anche nel nostro immaginario. Da noi la mafia è stata raffigurata come qualcosa di esclusivamente siciliano, vuoi perché ne ignoravamo colpevolmente l’esistenza fuori da quel contesto, vuoi perché la figura dell’immigrato al Nord venne scartata assieme alle valigie di cartone immortalate dal cinema neorealista. Eppure le nostre periferie (“Quarto Oggiaro non è il Bronx di Milano”, ti direbbe Gianni Biondillo) e suburbie a forte densità d’immigrazione meridionale sono diventate le basi d’appoggio delle mafie. I primi a farne le spese sono stati coloro che avevano lasciato la propria terra per rifarsi una vita proprio laddove non si sarebbero attesi di riprecipitare in quella sudditanza. Dalle mie parti, il pizzo imposto agli esercenti e piccoli imprenditori calabresi e siciliani era talmente sistematico che tra ’ndrangheta e Cosa nostra vigeva un accordo di mutua convenienza. Prima si mandava un calabrese a chiedere una somma esorbitante a un siciliano e viceversa, di modo che il bersaglio, chiedendo l’intercessione d’un personaggio compaesano, finisse assoggettato a entrambe le cosche e, maggiormente, a quella che in nome delle comuni origini gli aveva procurato uno “sconto”. Così i gelesi di Busto Arsizio e i cirotani di Legnano-Lonate, oltre a spartirsi il denaro, estendevano una pace mafiosa coltivata con le buone e le cattive su tutta l’area della “Grande Malpensa”, ben più lucrativa e strategica per altri affari e interessi. Uso i verbi al passato, Evelina, ma l’assalto alla pizzeria “Al solito posto” mi induce a pensare che sia cambiato poco, come afferma Alessandra Dolci. Non c’è modo di chiudere dietro le sbarre una mentalità mafiosa che in quei “comuni gemellati” si trova a casa da decenni. E se quell’episodio merita l’interpretazione cauta d’un sintomo generico, non ho dovuto cercare molto per incontrarne uno più preciso: sempre a Ferno, esattamente un mese prima, nella notte tra il 24 e il 25 gennaio, le fiamme destinate all’auto di un imprenditore edile hanno bruciato pure quella dietro, entrambe parcheggiate in via Giovanni Falcone6 – un pessimo scherzo del caso, ma purtroppo eloquente. Di ordinario, infatti, ci sono ormai soltanto queste notiziole che scivolano via, i giornali che non si sbilanciano a congetturare che la “probabile origine dolosa” avesse finalità d’un certo tipo. Magari, mi viene da supporre con sgomento, per non esporre le vittime che hanno scelto di sottostare al dominio delle organizzazioni criminali. Non è per nulla rassicurante questo silenzio rotto a singhiozzi, dove il fatto di mafia evidente ma sempre più sporadico – un accordo stabilito nel 2013 tra i clan di Gela e del Crotonese per gestire il locale traffico di marijuana, per esempio7 – fortifica il sospetto che tutto sia come prima o persino peggio. E chissà se c’era già qualche comunità d’interessi nel 1989, quando i Rinzivillo ordinarono la morte dell’avvocato Mirabile, il cui fratello Mario, boss della Nuova Camorra Organizzata trapiantato in un feudo nella piana di Sibari, fece la stessa fine l’anno successivo a Corigliano Calabro: su mandato dei capibastone di Cirò che, condannati all’ergastolo per quell’omicidio a marzo del 2008, appena due mesi dopo presenziarono con tutti gli onori al crossodromo di Cardano al Campo. È esasperante: gli stessi personaggi, scampati alla repressione seguita alle stragi palermitane, sopravvissuti alle strutture investigative antimafia volute da Falcone, illesi dal leghismo, longevi nella leadership al pari di Silvio Berlusconi. Si sprecano le sentenze annullate, gli andirivieni dal carcere, le fughe dai domiciliari, le latitanze. Persino quando una notizia, come l’arresto di Rosario Vizzini nel 2009, s’affaccia sulle pagine locali del “Corriere della Sera”, sembra riuscirci grazie alla possibilità di intitolare I Sopranos a Busto Arsizio e dilungarsi sul battesimo della figlia del boss nello sfarzo faraonico d’un ristorante stellatissimo sul lago d’Orta.8 E se la mafia attira quando assomiglia alla fiction, a complemento delle pacchianerie di lusso poteva starci pure un accenno che, neanche un mese prima, la cosca alleata degli Emmanuello era stata fermata in procinto di uccidere il sindaco di Gela, Rosario Crocetta, con le armi inviate da Busto Arsizio. La cronaca, però, ha di sovente la memoria di un pesce rosso (a differenza di quella d’elefante delle mafie) e non riesce a collegare. Rapportare i crimini di ieri ai fatti del passato. Collegare gli Emmanuello ai Rinzivillo, la “stidda” gelese in toto ai Madonia, ben più in alto nelle sinistre gerarchie di Cosa nostra: responsabili della morte di Paolo Borsellino, secondo il verdetto Borsellino quater. Le organizzazioni criminali traggono potere dai legami che si estendono nel tempo e nello spazio. Come i sistemi totalitari, si reggono tanto sulla fedeltà dei propri membri, quanto sul meccanismo che li rende sostituibili – se non dai prossimi e alleati, dai rivali. Come potremmo sradicarli, questi uomini qualunque, che hanno tutto ciò che conta al giorno d’oggi? Ricchezza, potere, organizzazione, senso del ruolo, persino il bene di sentirsi superiori ai tanti quaquaraquà che ora rispondono anche al nome di Brambilla? Con quali forze contrarie, Evelina? Il 23 maggio 1992 un pubblico ministero partiva da Milano per vegliare i resti di Giovanni Falcone e coloro che, morendo assieme a lui, aprirono la voragine nell’autostrada che puzzava fino al cielo di metallo, pvc e carnebruciata. Tra le molte cose che Ilda Boccassini non potrà dimenticare né perdonare c’è la rapidità con cui quella ferita nell’asfalto era stata riparata senza lasciare segno, se non una sottile stele a lato, più facile ancora da ignorare della nuova intitolazione dell’aeroporto costruito per volere di Cosa nostra. Boccassini, che si era legata a Falcone ai tempi delle prime indagini sui traffici mafiosi a Milano, chiese il trasferimento a Caltanissetta, lo ottenne, organizzò l’accudimento della bambina e del ragazzo adolescente, preparò i bagagli. Prese alloggio in un albergo militarizzato con i sacchi di sabbia, difeso dalle mitragliette imbracciate da ragazzi che avevano l’età di suo figlio. Nei due anni di lavoro accanto ad altri magistrati, riuscì a individuare gli esecutori e mandanti mafiosi dell’attentato di Capaci. Il detenuto che cominciava a fornire le basi false alle indagini sull’attentato a Borsellino le sembrava un contafrottole. Allo scadere della sua trasferta elencò i dubbi sul pentito Scarantino in una lettera alle procure di Caltanissetta e Palermo. Ritornò a Milano come una reduce di guerra, spaesata. La impressionavano la fama popolare dei colleghi, le troupe e i manifestanti ai piedi del Palazzo di Giustizia. Sarebbe diventata il pubblico ministero più celebre d’Italia, forse, ma l’unica intervista televisiva l’ha concessa a Enzo Biagi nel 1998. Parla per tre minuti e solo quando parla di Falcone e del periodo trascorso in Sicilia, si ammorbidisce. Dichiara: “Ho lavorato con persone stupende, e devo dire che questo gruppo di uomini ha dimostrato, per un atto d’amore, che se si vogliono fare delle cose si possono fare”. Torna anche nel libro di Salvatore Borsellino la parola amore, ed è quella che mi ha più colpito. Promana dalla reazione dei palermitani dopo l’attentato al fratello, quando il trauma lo annichilisce. Lo riempie come una sostanza mistica che, svanendo, cede al vuoto. Salvatore racconta delle scelte per distinguersi da Paolo – studiare ingegneria, lasciare la Sicilia, lavorare come un dannato per la carriera di pioniere dell’informatica. Ma rivendica il sentirsi a casa in mezzo ai libri di cui era tappezzata quella dell’infanzia alla Kalsa. Legge e rilegge Dante. Percorre il Cammino di Santiago quando non gli basta più la rabbia con cui inseguiva la verità sottratta con l’agenda rossa. Cerca l’amore del fratello come guida: più Beatrice, forse, che Virgilio. Compra una piccola casa a Mondello, rimette in mare la barca con cui Paolo era uscito a fare l’ultima nuotata prima di morire in via D’Amelio. Dopo qualche settimana riprende un volo e torna nel suo quartiere residenziale che non sta in Brianza ma ad Arese, ancora più vicino a Gallarate. Molto di quel che ho immaginato a riguardo del dottor Borsellino gli somiglia. Non ho idea di chi sia il signore di cui Anna voleva darmi i recapiti, ma non è lui. Il sole di montagna sta asciugando la piazza e, nonostante sia novembre, la sposa non sembra avere freddo.9 Celebrato dal sindaco d’un paesino di mille anime della Valsassina, ristretto alle persone più care, è stato un matrimonio molto nordico. Ma rappresenta uno scoop per il cronista del piccolo giornale che scatta quella classica foto di gruppo. La testimone dello sposo è Ilda Boccassini. La bionda alta alla sua destra, forse la madre della bambina che Ilda abbraccia come una nonna acquisita, Alessandra Dolci, è la sua vice alla procura di Milano. E poi c’è il sostituto Paolo Storari, lo sposo, arrivato alla Dda in tempo per condurre in porto l’inchiesta Infinito. Riconosco loro tre che, venendo quassù, si sono lasciati alle spalle la Brianza dalle vive memorie ’ndranghetiste. Degli altri partecipanti alle nozze non saprei dire chi sia un collega, chi un amico di vecchia data, chi un parente. Allora, Evelina, ho un pensiero semplice. La mafia lega, penso. Ma non con questo passaggio di testimone che da Palermo arriva fino a qui, e qui si ferma – davanti all’Alpino in bronzo che sovrasta i nomi dei caduti. Note 1 5 denunciati per danneggiamento e violenza privata / 5 soggetti, tutti appartenenti ad un medesimo nucleo familiare, denunciati per danneggiamento e violenza privata (“Sempione News”, 25 febbraio 2017). 2 http://www.varesenews.it/2009/04/quando-la-statua-di-san-cataldo-attraverso-lonate/180523/ 3 Erminio Barzaghi, sindaco di Giussano dal 1975 al 1990 4 http://www.europaquotidiano.it/2014/11/18/sono-un-pm-da-strada-e-non-ho-paura/ 5 http://www.liberastampa.net/castano-primo-il-pm-dolci-al-torno-dallimprenditoria-alla-sanita- levoluzione-della-ndrangheta/ 6 www.varesenews.it/2017/01/fiamme-nella-notte-a-fuoco-lauto-di-un-imprenditore-edile/588885/ 7 http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/16_luglio_11/varese-maxi-operazione-anti-droga-dodici-arresti- 50-persone-coinvolte-80b10d10-475e-11e6-af4e-15bff4e09cf7.shtml 8 http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/11_maggio_18/sopranos-busto-arsizio-clan-gela- 190679399800.shtml 9 http://lecconews.lc/wp/wp-content/uploads/2013/11/boccassini-8.jpg Hanno ucciso l’Uomo Ragno Carlo Lucarelli Sabato 4 luglio 1992 Gli venne in mente quella storia che girava, chissà se era vera, lui l’aveva sentita a Faenza. Un tizio con una grossa Mercedes sta per parcheggiare in piazza quando un altro con una piccola 500 gli passa davanti e gli frega il posto. Quello della Mercedes si lamenta, “c’ero prima io”, ma quello della 500 si stringe nelle spalle. “Il mondo è dei furbi,” gli dice. Allora quello della Mercedes ci pensa un po’ su, poi scuote la testa e dice “no, il mondo è di chi ha i soldi”, ingrana la marcia e gli schiaccia il cinquino contro le colonne del porticato della piazza. Gli venne in mente proprio perché era a Faenza, ad aspettare paziente che un 131 finisse di fare marcia indietro per liberargli il posto, quando ecco uno che arriva dall’altra parte e si infila, tutto storto, incurante della sua freccia paziente, e anche dei due colpi di clacson che gli aveva sparato dietro. L’altro era un tipetto basso e tarchiato, con una tuta da meccanico aperta sul petto, e fece il gesto di un minuto, uscendo dalla macchina senza neanche spegnere la radio che teneva a tutto volume. Ci vuole un fisico bestiale, cantava Luca Carboni. Lui suonò ancora, nervoso, perché stava cominciando a perdere la pazienza. Una piccola parte del suo cervello pensò che non era vera, quella storia della 500 e della Mercedes, perché a parte che lui aveva un Porsche e quello un Panda, ci sarebbe voluto un caterpillar per schiacciare una macchina contro le colonne, e in ogni caso lui non avrebbe mai fatto niente che potesse anche soltanto rigarla, la sua 911. Il resto del cervello, invece, fumava sotto i suoi riccioli corti fissati dal gel, perché l’altro gli aveva fatto il gesto di “vaffanculo”, non proprio così esplicito, giusto uno schiaffo della mano come per scacciare una mosca, ma si capiva che il senso era quello. Ci vuole un fisico speciale, per fare quello che ti pare. Scese dal Porsche come un giaguaro. In due passi era già arrivato dall’altro, che si era fatto sotto come un cinghiale. Sul cruscotto della 911 c’erano ancora i resti della striscia di coca che si era tirato un quarto d’ora prima dentro un centone arrotolato stretto come una cannuccia. Gli ribolliva in testa sotto il sole di luglio, ma non era il tipo da cazzotti. Gli era sempre bastato tirare fuori il tesserino da tenente della guardia di finanza, lo sguardo sprezzante di chi dice “e adesso?” negli occhi azzurrissimi, il sorriso strafottente di chi è conscio del suo potere – di più, dell’abuso del suo potere – e non tanto per il ruolo, quanto per il carattere. Perché di solito a nessuno va bene così come sei. Per questo aveva messo la mano sotto la giacca, dietro, per prendere il portafoglio col tesserino che aveva nella tasca posteriore dei calzoni. Lo aveva fatto in fretta, e siccome anche sul cruscotto del Panda c’erano le tracce di una riga di coca che l’altro s’era tirato su con la cannuccia di un millino, più
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