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Ferocemente ironico, tagliente, tragicomico. Armi di famiglia inizia con un biglietto, quello che i Vento, storici produttori di armi, ricevono da Olivia, la figlia più piccola. È un invito a tutti i membri della famiglia a riunirsi a casa. Così, per la prima volta dopo anni, si ritrovano… Viviana, la madre: amministratore delegato, che gestisce le questioni affettive come fossero comunicati aziendali. Vittoria, la primogenita: conduttrice TV, con due figli in sovrappeso e una vita che si misura in numero di spettatori. Virginia, direttore marketing ossessionata dalle strategie: “Se il tizio di Brescia delle pompe funebri distribuisce anelli a forma di bara, non vedo perché non dovremmo farlo anche noi con i fucili”. Viola, doppiatrice: è davanti alla scelta più complicata per una donna. E Giacomo, il padre, che consuma le giornate nel silenzio del suo laboratorio. Tutti hanno un obiettivo: tenere nascosto qualcosa. Perché Olivia è l’unica a tardare? Perché al suo posto si presenta Elio, un giovane che si stabilisce in casa pilotando le dinamiche familiari? Francesca Lancini torna con un nuovo romanzo dal ritmo serrato: un ritratto di famiglia in un Nord di restrizioni emotive, fra insulti travestiti da complimenti e sguardi impietosi che sembrano porre un’unica domanda: esiste forse qualcosa di più comico dell’infelicità? Francesca Lancini è nata a Brescia nel 1983. Conduce i programmi “Cool Tour” su Rai 5 e “Rai Player” in onda su tutte le reti Rai. È docente di Scrittura creativa all’università NABA di Milano. Ha pubblicato con Bompiani Senza tacchi (2011). NARRATORI ITALIANI FRANCESCA LANCINI ARMI DI FAMIGLIA © 2014 Bompiani / RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano ISBN 978-88-58-76695-8 Prima edizione digitale 2014 da edizione Bompiani maggio 2014 Immagine di copertina: Untitled #395, from the series Dier en Kind, 2012. © Hellen van Meene. Courtesy of the Artist and Yancey Richardson Gallery. Copertina: Paola Bertozzi. Progetto grafico: Polystudio. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. http://www.bompiani.eu http://www.facebook.com/pages/Bompiani/111059814766 Alvino e Margherita, per voi. Una visita fa sempre piacere, se non all’arrivo, quantomeno alla partenza. Béatrix Beck IL GAZZETTINO DELLA PROVINCIA Ad armi pari La fiera dedicata alle armi leggere si chiude con una sorpresa: raddoppiate le presenze femminili. Brescia, 13 aprile. Donne: sono loro le protagoniste dell’evento più importante dell’anno per quanto riguarda le armi sportive, security e outdoor. Un settore che conta settantadue aziende presenti sul territorio. La più antica di queste imprese è la Vento e Vivi Armi che quest’anno ha festeggiato gli ottant’anni di V.V., la prima doppietta prodotta dai Vento nel 1930. Presenza d’eccezione: Valdemaro Vento, presidente dell’azienda che è apparso per la prima volta in un’occasione pubblica accanto alla figlia Viviana, amministratore delegato. Numerose le domande dei giornalisti. Come mai ha scelto proprio questo evento? “Perché sto morendo e voglio festeggiare così il mio ultimo compleanno. Nel 1930, quando sono nato, i miei genitori hanno fatto incidere le mie iniziali sulla prima doppietta, e io ho voluto fare lo stesso con figli e nipoti. Non devono perdere la memoria di quello che sono stati.” Come ha trascorso questi ottant’anni? “Ho venduto trecentoquarantatremila fucili e ho passato il tempo a chiedermi perché mi siano nate solo donne.” LUNEDÌ 24 MAGGIO “Sono felice che tu sia tornata a casa,” dice mio padre spostando la sedia verso di me. Non capisco se lo fa per avvicinarsi o per trovare l’ombra. “È arrivato il momento?” “Di cosa?” “Penso che tu lo sappia.” Mi chiedo dove abbia nascosto le sue fragilità in tutti questi anni. “Preferisci andare da sola?” “Sì,” dico alzandomi. Questa mattina all’alba ho infilato la valigia nel portabagagli. Nessuno deve sapere che non tornerò. 11 GIORNI PRIMA: GIOVEDÌ Smettere di respirare per un po’, forse per sempre Lunedì, Serena Melzi ha scambiato il GPL per benzina ed è rimasta a piedi in autostrada tra Cormano e Agrate, senza credito nel cellulare. Martedì si è dimenticata di mettere la sveglia, mercoledì le è scoppiata la macchina del caffè e giovedì non ha collegato il tubo di scarico della lavatrice al lavandino: il ciclo breve è stato il più lungo della sua vita. L’orologio segna le 10.20 e Serena è in ritardo, io invece sono puntuale come sempre. La sala di doppiaggio è muta, notturna e sotterranea, anche se è al quinto piano di un palazzo che dà su piazza Castello. Non accendo la luce, rimango nell’ombra per spiare i movimenti della stanza oltre il vetro: Sebastiano, il fonico, si toglie la giacca che s’impiglia nei suoi lunghi dreadlocks neri. Fa un giro su se stesso per cercare l’appendiabiti e sbatte contro la porta che si apre in quell’istante per far entrare Massimo seguito da Serena. Si salutano tutti con due baci sulle guance ciascuno. Li conto: sei baci. Serena si scusa per il ritardo con la voce che ha usato per doppiare Gas Gas, il topo di Cenerentola e viene perdonata da Massimo, il direttore del doppiaggio. Per la prima volta da quando lo conosco è vestito come il giorno precedente: pantaloni marroni di velluto e camicia bianca. All’appello mancano ancora due baci, quelli di Elisa, l’assistente al doppiaggio che ha impostato un mese di turni a orari assurdi e mi detesta silenziosamente, perché io lavoro con la voce e lei con l’agenda. Elisa entra con una sigaretta spenta in mano e schiaccia l’interruttore della sala. La mia figura appare oltre il vetro. Sebastiano è l’unico che non fa il verso del singhiozzo quando mi vede, gli altri sono pietrificati. È Massimo a schiacciare il pulsante dell’interfono. “Buongiorno, Viola,” dice facendo una pausa impercettibile tra il saluto e il nome. “Buongiorno a te. Ho un aereo da prendere, ti spiace se iniziamo?” Lui abbassa gli occhi sul copione e li rialza immediatamente, per incontrare di nuovo il mio sguardo. Serena mi raggiunge davanti al leggio per guardare il testo. È il nostro ultimo giorno e il personaggio interpretato da Angelina Jolie, l’attrice che doppio, morirà poco dopo il prossimo dialogo, quando Jessica Biel le infilerà del cianuro nel bicchiere. È un thriller di pessima scrittura e ottimi incassi. Vediamo la scena, il botta e risposta è veloce. Serena chiede di riguardarla, poi inizia lei. “Ti offro qualcosa?” “No, grazie, di cosa volevi parlarmi?” “Ho della vodka.” “Devo dimenticare qualcosa?” “È probabile che succederà.” “Perché parli come in un film noir?” “Sono andata a letto con Martin.” “Cosa?” “Sono andata a letto con Massimo.” Mi fermo, tolgo le cuffie e guardo Serena. Lei guarda Massimo, Massimo guarda me. Introduco lentamente aria nei polmoni e poi do un calcio al leggio che va a finire nell’immagine delle due attrici dentro al plasma ventotto pollici. Prendo la giacca, il trolley ed esco. Sento i passi di Massimo dietro di me, incerti e colpevoli. Schiaccio il pulsante prima che lui riesca a entrare in ascensore e chiudo gli occhi per cinque piani. Quando li riapro lo trovo ad aspettarmi, ansimante e ansioso di spiegarmi perché, dopo sei anni di relazione, ha deciso di andare a letto con la voce del topo di Cenerentola. “Vi…” “Vi di vaffanculo.” “Viola…” “Smettila, Massimo.” Attraverso la strada senza guardare né a destra né a sinistra. “Viola, entriamo un secondo qui per favore…” dice indicando il cancello di parco Sempione. Mi siedo sulla prima panchina che incontro e metto la valigia davanti a me per appoggiarci le gambe. Lui rimane in piedi, il senso di colpa inibisce i movimenti. “Viola…” “Basta.” “Scusa.” “E poi?” gli chiedo ficcandomi l’unghia del pollice sotto quella dell’anulare fino a farlo sanguinare. “È successo ieri sera…” “Perché?” “Perché nel pomeriggio stavamo lavorando.” Quando discutiamo Massimo si trasforma in un’attrice esordiente di vent’anni alla prima intervista televisiva:le sue risposte sono stupide e letterali. Un gruppo di ragazzi con lo skateboard mi passa davanti impedendomi di aggredirlo, almeno con il tono di voce. “A volte non capisco cosa ti aspetti da me,” dice indietreggiando. “Devo prenderla come una spiegazione?” “Non mi sento mai abbastanza per te.” Estraggo dal pacchetto l’ultima sigaretta e la accendo con lo Zippo che mi ha regalato lui. “Potrei farti l’elenco delle tue mediocrità, in ordine di apparizione.” Ho la nausea, getto la sigaretta davanti a me e lui la spegne nascondendola tra i sassi, come ha sempre fatto con i suoi errori. Mi alzo e trascino la valigia che mi accompagna rumorosamente verso la strada. “Possiamo almeno parlarne?” “Lo faremo lunedì.” “No, Viola.” “Tu fai le cazzate e io decido, Massimo.” Fermo un taxi e prima di salire lo guardo negli occhi, aspetto che mi chieda scusa accasciato sul cemento caldo, aspetto di sentire che sono l’unica donna della sua vita, che si getterà sotto un’auto in corsa se non proverò a pensare di perdonarlo e che la sua sarà una lunga penitenza nel dolore. “Lunedì non ci vedremo,” dice abbassando lo sguardo, “ho bisogno di un’altra voce per il prossimo film di Angelina Jolie.” Lui si allontana, io entro nel taxi e considero la possibilità di smettere di respirare per un po’, forse per sempre. La cosa non mi piace La porta è accostata, mi basta spingere con il ginocchio per spalancarla. A una rapida analisi noto che il divano è diventato uno scheletro da cui emerge solo la rete metallica, i cuscini sono ammassati sul balcone, il tavolino di legno è cosparso di sigarette accartocciate e la poltrona ha un foro grande quanto il fondoschiena di chi l’ha sfondata. Mi tolgo la giacca, poso il trolley, prendo il pallone da basket che mi ritrovo tra i piedi e lo scaravento sull’impianto HI-FI che sta suonando una canzone di Lady Gaga a tutto volume. “Che cazzo di spavento!” dice Lavinia materializzandosi in soggiorno. Ha il tono piccato di quando qualcuno, a teatro, interrompe un suo monologo con un colpo di tosse. Non la saluto, mi dirigo a sinistra, verso la porta della mia stanza. La apro con due giri di chiave e mi butto sul letto. Lei bussa ogni cinque minuti per dirmi che intende aprire il mio trolley. Vuole sapere quali vestiti mettere nel cesto dei panni sporchi e quali piegare. La conosco da dieci anni e di situazioni simili ne ho vissute almeno un centinaio: Lavinia non conosce il confine che divide una festa dal delirio distruttivo. “C’è una lettera per te,” dice avvicinando l’orecchio alla porta. “Nessuno scrive più lettere.” “Non c’è il mittente…” La vedo, dal vetro oscurato dalla tenda a pannello, con i riccioli biondi che le cadono su una spalla mentre cerca di spiare il contenuto in controluce. Apro la porta, gliela strappo dalle mani e richiudo. Quando se ne va accendo la lampada da tavolo e, mentre sto per aprirla, mi suona il telefono: è la dodicesima volta in tre ore, escluso il tempo di volo tra Milano-Malpensa e Roma-Fiumicino. Lo metto in un cassetto insieme alla busta, sono stanca. È debolezza emotiva, la mia. Mi prende ogni volta che passo qualche ora più del dovuto a Milano, un posto che mi fa sentire inadeguata. Una città del Nord: la bussola della mia infanzia, un’eterna Orsa maggiore spenta. È tornata la nausea, ho bisogno di dormire. Mi tolgo le scarpe in vernice nera, i jeans a vita alta e la T-shirt degli Arctic Monkeys. Mi infilo sotto le lenzuola, mi passo una mano tra i capelli e penso che la mia cresta sta diventando pericolosamente punk. E la cosa non mi piace. 10 GIORNI PRIMA: VENERDÌ Non sto recitando Mi sveglio presto solo quando sono a Roma e ogni volta i gesti sono gli stessi: metto la testa sotto il cuscino e dico parolacce. Mi infilo una T-shirt, esco dalla camera e trovo Lavinia seduta su uno sgabello alto del tavolo della cucina. Piange, tira su con il naso in modo schifoso e oscilla la testa rischiando di perdere l’equilibrio. Le passo accanto e prendo la mia Bialetti con il manico spezzato a metà che mi accompagna ovunque, dalla prima volta in cui ho scoperto il caffè. La svuoto e la riempio come fosse un esercizio zen, poi verso del latte aperto da una settimana in un pentolino che metto sulla fiamma del gas. “Hai finito?” le chiedo accendendo la tivù. Non risponde, sta battendo la fronte contro il ripiano del tavolo. Ogni mattina, da cinque anni a questa parte, ripassa il copione della soap opera di cui è protagonista. Si alza alle sette, prende possesso dell’isola della cucina e alterna una battuta, a un sorso di caffè americano e un tiro di sigaretta all’aroma di menta. Quando le scene sono drammatiche, la sveglia si estende anche a me. Faccio un rapido calcolo dei danni causati dalla festa, tolgo la caffettiera dal fuoco e verso il contenuto nella tazza. “Hai finito?” “È una delle scene cardine,” dice interrompendo di colpo il pianto per dimostrare il suo inquietante controllo emotivo. “Ma com’è che sono sempre scene cardine?” Non risponde, raduna i fogli, spegne la sigaretta nella tazza che appoggia nel lavandino, prende la borsa e sparisce lasciando la porta semiaperta. Non c’è gesto che riesca a terminare da sola: è questo che l’ha portata a scegliere una convivenza nonostante il suo stipendio superi quello di un manager. Io bevo l’ultimo sorso del mio caffè e mi accorgo che non è zuccherato. Abbasso gli occhi su un pacchetto di sigarette abbandonato da un ospite della festa, lo afferro e mentre me ne accendo una, vedo Lavinia che rientra in casa per portarmi la posta. È più forte di lei, non riesce a lasciare la casella piena. Sfoglio i volantini pubblicitari dedicati al take away di sushi, pizza, kebab e sbircio i prezzi di dieci sedute di cavitazione abbinate a massaggi linfodrenanti. “Come ti sono sembrata?” “Non ti ascoltavo,” dico prendendo il telecomando per sintonizzarmi sul programma La nostra Vittoria quotidiana, il talk show che riempie le mattine delle casalinghe italiane. È in corso un’intervista a una donna sopravvissuta alla furia omicida di suo marito che ha sgozzato la figlia di tre anni e poi è scappato. La domanda di Vittoria, la presentatrice: “Nei confronti di suo marito,” pausa teatrale, “prova rabbia?” Mi viene un conato di vomito. “Ti senti bene?” mi chiede Lavinia mentre controlla la gradazione di bianco dei suoi denti nella vetrinetta della libreria. Giro il viso verso di lei e scoppio in lacrime, ma io non sto recitando. Sequestrato Roma è una città senza rimandi, non si ha mai l’illusione di trovarsi altrove. Stendhal la preferiva con la pioggia, a me il clima importa solo quando prendo la bicicletta. Pedalo veloce spingendo con la punta dei piedi per sentire i polpacci che si contraggono fino a farmi male. Percorro il lungotevere senza guardare l’acqua. Disegno una linea morbida, un taglio che non sanguina mai. Roma è la città che mi ospita; quando si è di passaggio non c’è spazio per i conflitti e le ferite. Si ha tempo solo per una quieta e disperata osservazione. Mi fermo a Villa Borghese, alla terrazza del Pincio. Appoggio la bicicletta a un albero e mi siedo su una panchina. Non c’è nessuno con me, solo una busta da lettera, ma agli oggetti non importa niente della nostra vita, siamo noi a esserne dipendenti. Non pensare ai dieci piccoli indiani, Agata Christie mi ha sempre fatto schifo. Piuttosto: sabato 22 maggio sei convocata in via Garibaldi 9 a Santa Priscilla. Olivia Mia sorella si definisce beat anche se è nata negli anni novanta. Avrebbe dovuto crescere con l’iPod in mano, i Boyzone nelle cuffie e i poster di Leonardo DiCaprio alle pareti. Avrebbe dovuto desiderare di essere come Claudia Schiffer, battere i piedi per avere la Playstation, mangiare Kinder Pinguì e passare il tempo su Google a cercare social network su cui postare foto in bikini. Invece Olivia si faceva comprare i fumetti dei nativi americani e scappava di casa con la sua Graziella. Caricava la radio di nostro padre nel cestello di paglia e spariva per ore. A quindici anni si vestiva con le gonnedi nostra madre che rubava di nascosto dal suo armadio, e mentre io cercavo la mia identità alcolica passando da una discoteca all’altra, lei scopriva i testi di Krishnamurti, nascosti sotto il suo letto insieme alle poesie di Gregory Corso. È sempre stata una rilettrice professionista con una passione specifica per tutta quella letteratura inglese che non ho mai sopportato: Tristram Shandy, L’uomo che fu Giovedì, Gli anni fulgenti di Miss Brodie. Detestava la carne, per il piacere della nostra famiglia di cacciatori, e diventò presto un’ambientalista sfrenata quando la raccolta differenziata suonava come una canzone di Elio e le Storie Tese. Riciclava ogni scontrino della spesa, chiudeva l’acqua quando mi facevo il bagno e spegneva il mio abat-jour perché non era a risparmio energetico. Al liceo rischiò la bocciatura per cinque anni di fila perché non sopportava le imposizioni. Le piacevano le biografie, gli approfondimenti sulle persone che si nascondevano dietro ai personaggi della politica; e così un’interrogazione sulla Guerra dei trent’anni si convertiva nel racconto della vita di uno dei suoi miti: John Ruskin. Olivia andò all’esame di maturità con una valigia e un biglietto aereo in tasca. Diceva di non avere un sogno da perseguire, ma di voler andare in un posto in cui poterlo cercare. Un posto letterario: l’Inghilterra. Da allora ci sentiamo per tutte le occasioni inutili: compleanno, Natale e capodanno. Siamo nate entrambe nel mese di gennaio, a pochi giorni di distanza, perciò le nostre frequentazioni telefoniche hanno sempre un vuoto temporale di undici mesi. Piego il foglio di carta riciclata e mi accendo una sigaretta. “È l’ultima della giornata,” dico alla mia coscienza. “Sono solo le dieci del mattino,” risponde lei. Devo smettere di fumare o la mia voce diventerà come quella di Paolo Conte e non me lo posso permettere. Mio padre mi diceva sempre che fumavo da uomo, soprattutto quando mi perdevo in qualche ragionamento contorto: rotolavo la sigaretta tra il pollice e l’indice, e facevo cadere la cenere. Mia madre si preoccupava dei tappeti, mio padre dei miei ragionamenti. Mi alzo e sposto la testa in tempo per evitare un pallone da calcio che colpisce l’albero dietro di me. I ragazzini che hanno attentato alla mia vita sono a cinquanta metri; metto il pallone nel portapacchi della bici e riparto: sequestrato. 9 GIORNI PRIMA: SABATO Assenze Guardo la radio: è accesa ma senza volume. Sto guidando da quattro ore nel silenzio. Lo alzo, ci sono gli Echo and the Bunnymen a ricordarmi che niente dura per sempre. Neanche i trent’anni. Ed è un sollievo, perché i miei non hanno ancora un punto di vista chiaro su alcune questioni. Sono quei trent’anni che non si afferrano perché si nutrono di un movimento continuo che non ti appartiene mai. Come i colori della voce, come le esigenze degli altri. Non è vero che a trent’anni si è un campo di grano, come dice qualcuno. Non è vero che si è liberi, ribelli e fuorilegge. Non è vero che è finita l’angoscia dell’attesa, né che si smetta di temere la disobbedienza, la colpa e il peccato. Non è vero niente: a trent’anni si è il funambolo, il filo e la città. “Bisogna avere un po’ di fiducia, sai, nella gente,” dice Mariel Hemingway nell’ultima scena di Manhattan. Uno dei film preferiti di Olivia. “L’unico rimedio per superare la fine di una relazione è la cura Woody Allen,” sostiene lei. Manhattan è doppiato divinamente da Lionello padre e figlia. Sono loro i due protagonisti: s’innamorano, si separano e poi tornano insieme in una specie di incesto vocale. Penso a mio padre. L’unica voce che ho voglia di ascoltare. Al diavolo gli Echo and the Bunnymen. Cambio frequenza e cambio marcia, sto per uscire dall’autostrada che mi ha ipnotizzato, con i suoi pensieri formato A4. Trent’anni. L’età in cui Massimo ha iniziato a guardarsi le tempie allo specchio, pregando di non vedere dei capelli staccarsi da quel gruppetto già scarso che chiamava in causa con le dita, quando non trovava la parola giusta. “È inutile fare i conti con lo specchio, facciamoli con noi stessi,” gli dicevo. Io intendevo insieme. In due si hanno più mani per contare. Trent’anni. L’ultima possibilità di fare qualcosa di importante: ripromettermi che questo sarà l’ultimo ritorno a casa. Il terreno fa sobbalzare l’auto. Non lo ricordavo così irregolare; l’ultimo viaggio fu in treno, tra soste per la neve, famiglie in ansia e suocere che diventano violente quando le festività si avvicinano e richiedono bontà. Era il 25 dicembre e si celebrava il funerale di zia Assunta, una celebrità in paese, per essere riuscita a compiere il suo centesimo compleanno raggiungendo il ristorante alla guida della sua vecchia Fiat 500. Arrivai la mattina di Natale, partecipai passivamente alla cerimonia nella chiesa del paese, al pranzo post trauma e ai tornei di briscola chiamata con i cugini. Zia Assunta, nelle sue ultime volontà, aveva chiesto un funerale d’azzardo. Mi fermai fino a sera, il tempo di litigare in modo irreversibile con qualcuno e poi andarmene in silenzio e con maleducazione, salutando solo gli indispensabili. Sono le cose che non scegliamo a farci diventare quello che siamo. Non ho scelto il paese dove sono nata; per imparare a vivere la mia vita adulta sono andata altrove: Milano, Roma. Spazi dove è consentito essere invisibili. Apparire e scomparire come trasformisti di se stessi. Non torno a casa da cinque anni. Le famiglie del Nord sono abituate alle assenze. Soprattutto tu, Algisa Il navigatore dice che devo proseguire “uno virgola quattro chilometri”, per l’applicazione Google Map dell’iPad dovrei svoltare a sinistra tra cento metri, e il sito ViaMichelin, sullo schermo del BlackBerry, non riporta la strada statale che percorro da mezz’ora. L’iPad si scarica e si spegne, il navigatore mi ripete continuamente di fare un’inversione di marcia e il telefono inizia a squillare proprio nel momento in cui trovo il numero identificativo dell’unica strada che devo prendere. È Massimo, per la settima volta in due ore. Vedo i suoi lineamenti spigolosi nella foto che illumina lo schermo, e quel suo sguardo di poco fuori dall’obiettivo della camera, con l’espressione di chi si è lasciato scappare un aquilone. Spengo il telefono e mi fermo in una piazzola. Scendo dall’auto e respiro allargando le narici per far entrare “l’aria buona del Nord”, come dice mio nonno Valdemaro, quella che va accompagnata da una dieta padana con polenta, volatili e incisioni rupestri. Davanti a me le colline disegnano i fianchi di una donna che si stiracchia al mattino, per ritardare il risveglio. Non sono lontana, penso. Purtroppo. Imposto il navigatore per la terza volta e quando riparto scopro che era in modalità dimostrazione. Alla fine di una strada stretta e confusa dai rami, raggiungo il ponte dei pensieri. È così che lo chiamavo da piccola, perché separa il mio paese da quelli vicini, e ogni volta che lo attraversavo mi costringeva a pensare a ciò che lasciavo, anche solo per poche ore. Ho sempre avuto bisogno di punti di riferimento, conferme fisiche: la scala a quattro pioli del letto a castello che dividevo con Olivia, la spalliera a cui mi attaccavo quando ero scossa dal pianto. Sapevo che quelle assi di legno non mi avrebbero mai lasciata sola. Oggi attraverso il ponte guardando la luce del mattino che si specchia nel fiume sotto i miei piedi, sotto le mie ruote. I cartelli che costeggiano la strada non sono cambiati: c’è il concorso di bellezza, vinto, ogni anno, da una delle figlie del sindaco, anche se la più piccola ha trent’anni; e il trofeo di ciclismo che passa tra le vie del paese. Al traguardo di ogni edizione manca sempre qualcuno, rapito da un panino alla mortadella al bar dell’oratorio. Più avanti, al semaforo a cui hanno installato delle telecamere, c’è il poster dei Curcuma, il gruppo rock più speziato del paese. Pepe al basso, Paprika alle tastiere, Curry alla chitarra, Ginger è la voce, e Timo al triangolo, perché è il piccolo del gruppo e figliodel produttore: il sindaco. La locandina dice che suoneranno il prossimo fine settimana, quando non ci sarò più. Ho solo bisogno di parlare con Olivia, farle cambiare idea rispetto a qualsiasi stronzata possa aver pensato per la sua vita e andarmene con lo stesso sollievo con cui l’ho fatto anni prima. Vengo da un paese dove una ragazza non può portare i capelli corti perché sono da maschio, la convivenza prima del matrimonio è peccato, l’omosessualità un problema genetico e l’ironia un arnese da cucina come la leccarda o il colino: buona solo per cuocere o filtrare. Percorro la strada principale, alla mia destra scorrono immagini di paese: i campi da tennis, il panettiere, la farmacia, il macellaio, il benzinaio, la casa del benzinaio, la casa del cane del benzinaio, una piccola fortezza di mattoni grigi; e finalmente la rotonda che mi porta sulla via giusta. La piazza, i parcheggi diventati a pagamento anche se non si ferma mai nessuno e la chiesa, con le sue mura ridipinte costantemente di bianco per coprire le frasi dei graffitari del paese. La costeggio e svolto a sinistra nel cortile del palazzo dove trovo gli archi che conducono all’atrio interno, fino all’ascensore. Mai preso: sono l’unica claustrofobica della famiglia. Scendo dall’auto e, mentre estraggo il trolley dal baule, sento due mani che mi prendono le spalle e le ruotano di centottanta gradi. “Violina!” dice Algisa, amica di famiglia, confidente e babysitter, che mi ha fatto trascorrere un’infanzia felice nella sua vasca da bagno quando in casa mia era permessa solo la doccia. “Non mi chiamano più così dalla seconda media.” “È morto qualcuno e io non l’ho saputo?” “Mi avrebbero avvisato.” “Neanche zia Geggia che ha preso il fuoco di sant’Antonio?” Allargo le braccia. “Neanche il cugino di tua mamma che gli hanno messo due bypass?” “Spero di no.” “E allora perché sei tornata, gioia, ti serve un fucile?” dice stringendomi le guance con le sue mani rovinate dalla candeggina. Algisa non sopporta la presenza di macchie sulla biancheria. Sorride, dietro le lenti da otto millimetri che ingrandiscono il suo mondo fatto di risate sincere, con la gola aperta pronta a scatti potenti composti da un’unica vocale: la A. Io sto in silenzio: non riesco a trasmetterle quel senso di casa che negli anni ho ricevuto proprio da lei. L’affetto gratuito mi paralizza. “Sto andando al mercato, mi accompagni? Prendiamo un po’ di pesce fritto, poi ce lo mangiamo con i peperoni che ho fatto ieri a Michele, che poi alla fine non li ha neanche digeriti… Ma perché gli hanno fatto un bendaggio gastrico. Amen, comunque possiamo andare a trovare la zia Giuseppa che neanche lei sta bene, poverina… Lo sai che ha scoperto di aver preso un fungo? Nella sua vasca da bagno! Le farà così piacere vederti, tra l’altro oggi dovrebbe passare di lì sua nuora, la Claretta, te la ricordi la Claretta? Ogni pomeriggio veniva a suonarti il campanello e tu dalla finestra le dicevi: ‘Cazzo vuoi?!’ Che bella gioia che eri…” Mi tocca i capelli per spegnere il mio ciuffo al gel e dice: “Dovresti farli crescere, sei una signorina ormai.” Mi dà un bacio con lo schiocco che risuona nel cortile, richiamando l’attenzione di due gatti che passano di lì. “Vado a fare un po’ di cose,” dico raccogliendo valigia e borsa. È una frase chiave, in grado di aprire qualsiasi possibilità di fuga. “Ah giusto, giusto,” dice alzando le mani in segno di rispetto, o difesa. Il portone è aperto, come sempre da trent’anni a questa parte, ma è comparso un cartello scritto a mano da mia madre. “Abbiate pazienza, chiudete ogni tanto. SOPRATTUTTO TU, ALGISA.” E capisco tutto Il palazzo dove vive la mia famiglia è stato fatto costruire da Nevio, il mio bisnonno. È il più alto del paese perché lui aveva manie di grandezza e non si è mai preoccupato di deturpare il paesaggio. Deve essere stato questo senso di vertigine a non portarci mai in una di quelle ville dagli spazi adeguati agli imprenditori come noi. O forse è solo merito di mio nonno Valdemaro che spara colpi penalmente perseguibili dal terrazzo all’ultimo piano. La sua amicizia con l’intera caserma dei carabinieri del paese gli permetterebbe di passare liscia anche una rapina a mano armata. Il palazzo ha sette piani: il primo è occupato da Algisa, al secondo ci sono i signori Magri, due anziani con una quantità di nipoti scout che supera una confraternita, a cui piace vincere la noia appiccando piccoli focolai. Al terzo c’è mia zia Vanella, detta Nella, sorella di mia madre, fervente cattolica impegnata a litigare con Erminio, suo marito, fanatico di calcio e scommesse. Hanno un figlio: Rivaldo, vent’anni e la personalità tipica di chi s’infila nel mezzo di una coda per saltare l’attesa e cercare di vendere, a chi è prima di lui, biglietti falsi dello stadio per vedere l’Atalanta. Il quarto piano è occupato da Uto, fioraio del paese, e il quinto è diviso in due: da una parte c’è la sala per le riunioni condominiali, gli happening o i nascondigli di Pier il postino, che vive nell’appartamento accanto e si rifugia lì quando vuole fumare un sigaro senza che Rosi, sua moglie da quarant’anni, gli ricordi che tutti i componenti della famiglia hanno avuto almeno un infarto nella vita. Il sesto e il settimo piano sono della mia famiglia. All’uscita dell’ascensore incontro un ragazzino in pigiama con un fazzoletto annodato al collo che sorregge un MacBook sopra la sua testa: è alla ricerca di una connessione wireless. Mi lancia un “buongiorno” e prosegue per le scale. Ho qualche esitazione prima di entrare, immagino i miei parenti schierati davanti all’entrata, in attesa di palpeggiarmi e poi ignorarmi con lo stesso amore. Sul divano a due posti dell’ingresso, trovo un gatto bianco e grigio che mi guarda e poi si gira per mostrarmi la coda o la sua noncuranza. La radio della cucina trasmette un pezzo di Bob Dylan, è il preferito di mio padre: Lay, Lady, Lay. Seguo le note e scopro che è vuota, come il corridoio e il soggiorno. Salgo le scale interne e passo davanti alle stanze da letto: sono aperte e pulite, con la luce che si fa largo tra le tende color crema. Nella mia le serrande sono abbassate, al centro della stanza c’è una pianola a cui mancano dei tasti, uno stendibiancheria pieno di calzini e la cuccia di Don, il nostro bassethound sempre annoiato. Accanto al letto, coperto da un paio di sacchi trasparenti dentro cui intravedo qualche mio vestito, c’è un’asciugatrice in funzione. La mia scrivania, invece, è stata trasformata in un piano di appoggio per la collezione di orologi di mio padre. Abbandono la valigia e vado alla ricerca di qualcuno che mi dia una spiegazione. Il resto è come l’avevo lasciato, perfino l’ordine per altezza dei vasi in cotto sul mobile dell’entrata e i libri di poesia accanto alle riviste di caccia, sopra la cassettiera del corridoio. Non ci sono fotografie, tracce di vacanze, compleanni, momenti rapiti per sbaglio dalla carta di una macchina usa e getta. La mia famiglia vive per sottrarre tutto ciò che il resto del mondo si sforza di tenere vivo: i ricordi. Mi viene in mente lo sguardo di Olivia mentre parla con qualcuno, sempre diretto nel punto più in basso sulla sinistra, alla ricerca di immagini da riportare in vita. Entro nella sua stanza e guardo il letto a castello, le pareti sono ricoperte di poster dei Beatles e sopra il comodino c’è un piccolo riquadro di legno in cui risalta il bianco e nero dell’unica fotografia di casa: le mani di Jorge Louis Borges appoggiate al suo bastone. Esco e mi dirigo all’ultimo piano, in terrazzo: l’unico luogo per cui provo nostalgia. In fondo al corridoio c’è la scala a chiocciola che conduce alla porta, sempre chiusa inspiegabilmente a chiave tranne oggi. “Cristo santo, nonno!” Valdemaro Vento mi sta puntando addosso un Winchester calibro 22. Ha appena compiuto ottant’anni e non mi fido della sua mira. “Violentina!” dice lasciando cadere l’arma sull’avambraccio. Mi viene incontro, mi stringe. Sento l’acciaio della canna contro la spalla. “Quando sei arrivata?”“Adesso.” “Cosa mi racconti?” dice appoggiando il fucile sul tavolo sotto il gazebo. “Dove sono tutti?” “Non lo so mica, questi qui mi lasciano sempre solo…” dice infilando uno scovolino nella canna dell’arma. È difficile capire se gli dia più gioia far esplodere un fagiano o vedere il piccolo straccio imbevuto di olio diventare scuro dopo il terzo passaggio nelle cavità dell’arma. “Vado a cercare la mamma.” “Aspetta, non vuoi vedere come balla?” dice richiudendo la culatta. “Magari un’altra volta.” “Tua sorella ne ha vendute una barca. Vero, Don?” Il cane si avvicina stancamente alle sue gambe. “Ci vediamo per cena?” “Ragù di cinghiale.” Si gira verso il cielo: è in posizione di sparo. Quando chiudo la porta alle mie spalle, sento un applauso a più mani arrivare dal basso e capisco tutto. La seduta è tolta Non c’è una sedia libera nella sala riunioni, le ultime file sono occupate da quindici ragazzini con gli scarponcini e quel maledetto fazzoletto annodato al collo. Alcuni sono impegnati a scrivere sullo schermo del loro MacBook, le tecniche di costruzione di una zattera; altri seguono le braccia di mia madre: l’amministratrice di condominio. Nonostante gli impegni, non ha mai rinunciato al suo passatempo preferito: controllare le vite degli altri. I suoi gesti sono ampi e ripetitivi; non aiutano le parole, distraggono, la rendono protagonista al posto del discorso. Sta proponendo ai condomini di costruire una piscina che occupi metà parcheggio, con una scala esterna collegata al terrazzo del primo piano, quello di Algisa, per prevenire il desiderio dei ragazzi di fare balconing. Tutti alzano la mano per chiedere cos’è il balconing e per dare il proprio consenso, tranne l’unica interessata: Algisa è al mercato a comprare il pesce fritto. Il secondo argomento riguarda il timer di accensione e spegnimento della luce delle scale. Pier, il postino, chiede di allungarlo per permettergli di arrivare in casa, al quinto piano, senza prendere l’ascensore. Mia madre gli impone di cronometrarsi e fare una stima dei minuti necessari. “Se superi i sette rimani al buio.” “Allora mi abbassate la quota delle spese.” “Paghi già il minimo.” Lui sbuffa sotto i baffi neri e sua moglie Rosi, una sessantenne con la passione per il ricamo e il rimprovero, gli tira una gomitata. “Vediamo se ti tengo via ancora le raccomandate…” sussurra Pier a mia madre che lo guarda come si fa con un bambino quando protesta: un mix letale di disapprovazione, arroganza ed elusività; uno sguardo che ho sentito addosso da piccola e mi faceva correre nella fessura tra i divani del soggiorno disposti ad angolo. Lo stesso sguardo che, qualche anno dopo, mi ha colpito in viso quando ho detto che sarei andata via di casa e non avrei lavorato nell’azienda di famiglia. Mia madre ha sempre avuto una profonda conoscenza delle tecniche di radicamento del senso di colpa; lo faceva entrare in ogni stanza e lo corteggiava come un ospite gradito. Gli permetteva di dormire nel mio letto e, nonostante sperassi che durante il giorno se ne andasse per le strade del paese, la notte lo ritrovavo sempre lì, come una coperta fredda. Io lo dicevo a mia madre, ma lei non la toccava. Ho dormito per anni nel gelo. L’ultimo argomento di discussione riguarda il punto 10bis del regolamento condominiale redatto da mia madre e da Uto il fiorista. È muto; alcuni dicono per timidezza, altri per boria, ma Uto non ha mai avuto granché da dire: gli piacciono le margherite e per comunicare con gli altri usa i fiori. Il nostro terrazzo è pieno di cactus. All’esterno del palazzo sono stati installati altoparlanti che trasmettono musica per le professioniste del pettegolezzo, alle quattro di ogni pomeriggio il portico di casa diventa un centro congressi. La proposta ha la voce roca della signora Magri che si alza in piedi per leggere il suo foglio delle richieste. Vuole aggiungere alla compilation delle cinque Forever per sempre di Marcella e Gianni Bella, La vita è molto di più di Pupo e Per tutte le volte che di Valerio Scanu. Le alzate di mano sono poche: bocciata. Ho un attacco di starnuti, sono capace di farne quindici di fila, anche se il mio record è diciassette. È un’allergia allo starnuto stesso, genetica e problematica, soprattutto perché si girano tutti e mia madre si accorge di me. “È arrivata Lina!” urla facendo partire un applauso poco spontaneo. Lina è la variante di Violina e ricordarlo mi fa starnutire ancora di più. “Avanti, avanti!” m’invita a raggiungerla in cattedra. Io cammino con un fazzoletto appiccicato al naso per porre fine alla lacrimazione e tutti pensano che sia commossa. “Saluta questa massa di anziani,” dice stringendomi le spalle. Mia madre ha mani forti, mani che sollevano scatoloni, sorreggono fucili a canna liscia, dita che sventrano animali e cuori sensibili. Ho sempre pensato che chi ha a che fare con carcasse di animali abbia una conoscenza più superficiale dell’interiorità: si aprono corpi e forse ci si dimentica di guardare dov’è l’anima. “Voi non ve lo ricordate,” dice strofinandosi le mani nei pantaloni, “ma la nostra Lina è la doppiatrice di una famosa attrice americana: Angelina Jolie, quella che sta con Brad Pitt, per intenderci, e ogni volta che andate al cinema e sentite la sua voce, non è la sua voce vera, ma quella della mia Lina che, diciamocelo, è anche più bella.” Smetto di starnutire e sorrido, è l’unica cosa che mi resta da fare quando mia madre esce dal suo ruolo per diventare il mio ufficio stampa. I condomini sanno già tutto di me, mi hanno vista crescere e poi andarmene, come quasi tutte le mie sorelle. L’unica rimasta è Virginia, la più stimata venditrice della Vento e Vivi Armi: la nostra azienda. Ogni famiglia del palazzo possiede una doppietta con incisioni a mano per due motivi: perché siamo generosi e perché “il concetto di eleganza sta tutto in una bascula calibro 36”, sostiene Viviana, mia madre, l’amministratore delegato. Anche se, penso io, in un paese di poco più di seimila abitanti nel cuore della pianura padana, il massimo del rischio è che sbaglino a darti il resto nella bottega dietro casa. Le campane della chiesa iniziano a suonare per il rosario del sabato mattina e un ragazzino di otto anni, nell’ultima fila, si sente in dovere di sottolineare il fatto con una bestemmia. La sua catechista, mia zia Vanella, entra in quel momento e perde i sensi. La seduta è tolta. La brava figlia che non hanno mai avuto “Sei arrivata giusto in tempo, domani c’è il battesimo di Olmo,” dice mia madre che mi precede sulle scale. “Chi è?” “Il figlio di tuo cugino.” “E perché non chiamarlo Orto o Orso…” “Alle nove c’è la messa, poi abbiamo il pranzo alla cascina Correnti, ci siamo stati l’altra settimana con Valter e la Piera, abbiamo mangiato così bene…” “Io non vengo.” “Tu non darai un altro dispiacere alla tua famiglia,” dice spalancando la porta di casa con uno dei suoi gesti indelicati di cui non sentivo la mancanza. “Non torni mai, non chiami mai e quando ci sei ti neghi.” Ed eccolo di nuovo, il senso di colpa che s’infila nel nostro appartamento. “Perché c’è un’asciugatrice accanto al mio letto?” “C’è il ragù di cinghiale per cena,” dice togliendo dal frigo tre chili e mezzo di carne macinata. Un gatto bianco e grigio si fa largo tra le mie gambe che bloccano l’entrata; mia madre si accuccia e lo accarezza sotto il muso, in attesa che si stenda sul pavimento. “È Patù,” dice massaggiandogli la pancia, “si nascondeva dietro la porta del garage dei vicini. Tuo padre starnutisce solo a vederlo, e Don non se lo fila, ma a me vuole bene.” Per mia madre l’affetto è una questione di ricezione. “Vado a fare una doccia.” “Sei qui per il biglietto di Olivia, vero?” Mi volto, la guardo. “Sei qui solo per quello?” “Non accendere l’acqua calda in cucina, per favore,” dico rubando una Galatina dal cesto dei dolci. “Perché tu credi che si farà viva?” La domanda mi accompagna per le scale. La ripete tre volte mentre scarto la caramella e assaporo il gusto della mia infanzia. Papàle comprava ogni sabato, le metteva nel vaso di vetro accanto al telefono e non era difficile distrarlo per finirle tutte in un giorno. Prendo una maglia pulita dal sacco sul mio letto ed entro in uno dei nostri bagni. Mi spoglio lentamente, perché non riconosco gli spazi che toccavo a memoria, con sicurezza. Gli appoggi e i gesti automatici se ne sono andati con la lontananza. Nell’armadio degli asciugamani c’è ancora quello con il mio nome scritto in corsivo accanto al disegno stilizzato di una lupara. M’infilo sotto l’acqua bollente e cerco di non pensare ai buoni motivi per non essere qui, ma loro si presentano nella mia testa sotto forma di foglio Excel, per non farmi sbagliare riga. 1. Nessuno va d’accordo con nessuno. 2. Non c’è intesa, affinità intellettiva né fisica, ci tocchiamo ma è come se avessimo a che fare con bambole di cera, pronte a sciogliersi alla prima fiammata di livore. 3. Nessuno chiede scusa, ma ognuno se lo aspetta, anche quando non serve. 4. Sono tutti invadenti. Il punto cinque scompare con un soffio di vento freddo: qualcuno ha aperto la porta. “Di secondo preferisci lo spezzatino o il brasato?” “È primavera mamma. Prendo un’insalata. Esci per favore.” Invece si avvicina e sbircia tra i vetri appannati della doccia. “Sei magrolina, ti faccio un po’ di polenta?” “Potresti uscire per favore?” Obbedisce e mi spegne la luce. La sua non è cattiveria, è disattenzione. Io urlo, ma lei è già sulle scale. In casi come questi la prima cosa da fare è pentirsi di tutto: essere in questo posto in questo preciso istante. Poi però bisogna trovare una soluzione, anche con il viso insaponato. Quando riesco a farmi passare il bruciore, la luce torna, insieme a un’altra folata di aria fredda. “Quante cazzo di volte ti ho detto di non spegnere la luce quando c’è qualcuno nella stanza.” “Ciao zia Violetta,” dicono due voci nasali rotte dal rumore di piccoli saltelli sul pavimento bagnato. Sono i figli di mia sorella più grande. Naomi, dieci anni, nata dal primo matrimonio con un imprenditore bergamasco ed Eros, otto anni, nato dal secondo con un produttore televisivo. Le loro voci si portano dietro qualcosa di inquietante: proibizioni, promesse non mantenute e desideri inespressi. “Ciao mostri,” dico mettendomi un asciugamano intorno al corpo prima di aggredirli fisicamente. “La mamma dov’è?” “Boh.” Naomi si rovescia sulle mani mezzo barattolo di Nivea. “È vero che conosci Angelina Jolie?” mi chiede Eros incastrato nel bidet con le gambe penzoloni. Li prendo entrambi per le maniche delle loro T-shirt Armani Junior e li accompagno fuori, cercando di non rimanere nuda. “Andate a dare una mano alla nonna,” dico chiudendo la porta. In casa esistono doppioni di chiavi per ogni ingresso o cassetto, perché fin da piccole i nostri genitori ci hanno insegnato a proteggerci. Ed è andata così: abbiamo imparato a difenderci da loro. “Lina!” sento urlare dal basso. Il punto della tabella che era svanito ritorna. 5. Nessuno mi chiama mai con il mio vero nome. Mi vesto chiedendomi il perché. Raccolgo la crema che Naomi ha abbandonato sul pavimento e mi pettino i capelli come la brava figlia che non hanno mai avuto. Solo in televisione La penultima notizia del telegiornale parla di ponti e festività: dove andare e perché. Le SPA più costose al mondo e cinque motivi per passare almeno un giorno a nuotare nel fango. L’ultima riguarda l’argomento di conversazione preferito dalle professioniste del pettegolezzo: il tempo. I meteorologi impiegano dieci minuti per consegnare al pubblico la loro rivelazione: quest’anno la primavera sarà caratterizzata da piogge e temperature miti. Da metà scala ho un campo medio sul soggiorno. I protagonisti: Eros, Naomi, mia sorella, i miei genitori e Algisa. Gli adulti mangiano M&M’s e i bambini le tirano addosso a Don che si è appisolato sotto la finestra. Non vengono rimproverati perché mia sorella è impegnata ad alzare il volume del talk show La mia Vittoria quotidiana. Alla partenza della sigla mia madre inizia ad applaudire insieme ad Algisa che unisce il pianto al battito di mani. Mio padre invece si volta, mi vede e posa il dizionario etimologico, oggetto da cui non si separa mai. Lo aspetto all’ultimo gradino e lascio cadere il peso del mio corpo sul suo petto. Lo stringo forte per tutto il tempo del balletto introduttivo del programma, sulle note di Tiziano Ferro con E Raffaella canta a cui sono state cambiate le parole in E Vittoria parla. Mi mette una mano al centro della schiena, in corrispondenza del cuore. Una conferma di ciò che vorrei sentirmi dire da tempo: che sono la sua preferita. È una cosa stupida da figlia stupida, lo so. Ma non lo lascio andare. Mi prendo il primo abbraccio di casa e cerco di scacciare quella sensazione che mi fa odiare mia sorella più grande quando si gira verso di noi per dire: “Ti abbiamo chiamato mille volte! L’hai vista questa puntata?” Papà allenta la presa, la timidezza precede e segue ogni sua azione. “Ciao Vittoria,” dico scendendo l’ultimo gradino. “È quella in cui rivelo la presunta relazione tra un attore e un regista famoso. È un’esclusiva,” dice scandendo le parole, poi si volta verso il video. “La tua presenza non è sufficiente? Bisogna vederti per forza raddoppiata?” Lancio un’occhiata complice a mio padre. “Sembro grassa. Non è vero mamma? Quando parlo il mio collo si allarga troppo. Vero mamma?” “Sei bellissima,” dice mia madre aspettando che Algisa la incalzi con un: “Sì, sei proprio una bella gioia.” “Bambini! State guardando la mamma in televisione?” continua Vittoria. “Ma perché sei qui e anche lì?” chiede Eros. “Perché la mamma ha i super poteri scemo di uno scemo,” dice Naomi, “e se non stai zitto ti fa sparire.” Ha una risata tra il satanico e il nevrotico. Eros scatta in cucina piangendo e Vittoria impone a Naomi di seguirlo. “Ma non è mio fratello al cento per cento!” “Hai ragione amore, lo è al cinquanta, ma per questo non merita di soffrire,” dice mia sorella senza staccare gli occhi dal primo piano di se stessa. La bimba si alza, ma non va in cucina, sfila davanti a me e papà con un vestito di maglia troppo aderente per le sue forme. Siamo noi a raggiungere Eros che sta ingurgitando pezzi di gelatina. È un bambino in sovrappeso, come la sorella. Se fossero amati dimagrirebbero? Quando torno a casa mi chiedo sempre se sia l’affetto a restituire la giusta forma alle cose, o a distruggerle. Mi fermo sulla porta; mio padre invece si siede per terra, accanto a suo nipote, con la schiena contro il frigorifero. Gli asciuga il volto, poi prende una gelatina e la mastica piano, vincendo il suo odio per tutto ciò che è indefinito e inconsistente. In pochi minuti il petto di Eros smette di sussultare. Quando anche la fame compulsiva si placa, la sua testa bionda si appoggia al braccio di papà. A lui non sono mai servite le parole, ha sempre agito con gesti di amorevole silenzio e a me non è bastato: ci sono momenti in cui si ha bisogno di un urlo; di altra natura, ma simile come potenza, a quello che arriva dal soggiorno. È finita la prima parte del programma di Vittoria. Mia madre si complimenta con lei, ma non è in grado di trovare sinonimi, per rinforzare qualcosa deve ripeterlo infinite volte. Algisa invece fa domande: “Ma ti truccano loro? I vestiti sono tuoi? Hai tutto scritto o dici quello che vuoi? Cosa fai durante la pubblicità? Ma se ti scappa la pipì?” Mia sorella rimane in silenzio, non è portata per dare risposte. “Chiedi subito scusa a tutti, Eros,” dice entrando in cucina con un paio di decolleté da ottocento euro. Il bimbo sposta gli occhi verso di lei, ma le sue sopracciglia rimangono all’ingiù. “Hai disturbato una cosa importante della mamma. Adesso vai a chiamare tua sorella e lavati le mani.” Lui si alza e le passa accanto. “Mi perdoni?” dice sfiorandole l’abito. “Ci sto pensando.” I nostri genitori sono turbati, io no. Vittoria è una madre indulgente e amorevole, ha sempre una lacrima di riserva per gli argomenti delicati e la sua frase preferitaè: “Lo so bene, sono una mamma anch’io.” Sì, ma solo in televisione. La verità con il vestito da sera Durante il primo pranzo di famiglia, Vittoria fa l’elenco di tutte le celebrità che ha intervistato; Eros sputa gelatina addosso a Naomi e mia madre passa la maggior parte del tempo nella sua posizione naturale: in piedi con le mani impegnate. “Chi stai chiamando?” mi chiede distribuendo le tazzine. “Niente caffè per me,” rispondo irritata, perché il telefono di Olivia è irraggiungibile: l’aggettivo più adatto alla sua personalità. “Che bello che sei tornata Violina,” dice mio nonno per distrarre sua figlia e mettere un cucchiaino di zucchero in più nella tazza ancora vuota. “Massimo come sta? Viene a trovarci?” dice mia madre cambiando la tazza di suo padre con quella di Vittoria. “A proposito,” dice mia sorella frugandosi nelle tasche per tirare fuori il suo dolcificante dietetico, “quando arriva la voce di Johnny Depp?” “Non credo che ci raggiungerà.” Controllo la posta in entrata del BlackBerry per sperare in una sua email. “Poco male, preferiamo sentire la sua voce piuttosto che vederlo, visto che non è proprio come Depp, ecco.” A mia sorella piace finire le frasi così: in sospeso tra una cattiveria e l’altra. “Ecco, cosa?” Faccio scorrere il dito sulla piccola sfera al centro del telefono. “È un bel ragazzo invece,” interviene mia madre sollecitando con lo sguardo un commento del nonno, che arriva puntuale: “E anche bravo, l’ultima volta mi ha aiutato con le volpi.” “Eros si è addormentato,” dice mio padre entrando con il suo passo silenzioso. Mamma gli versa il caffè e io mi chiedo come possano amarsi da più di trent’anni. Mi chiedo come mio padre possa amare una donna che non si siede, non inciampa, non esita, non perdona. Mi chiedo come possa amare una donna che nella sua vita ha fatto solo due cose: figlie e armi. “Chiuso, chiuso!” dice una voce che arriva dall’ingresso. Penso al portone, alle battaglie scritte e verbali della mia famiglia per impedire a ladri immaginari di portarsi via le fondamenta del palazzo. Virginia entra in cucina con una valigetta di pelle di coccodrillo e l’atteggiamento di chi deve sempre convincere qualcuno. Il tailleur scuro e il rossetto color mattone non fanno che confermare il suo ruolo all’interno dell’azienda: responsabile del settore commerciale. “Siamo ricchi,” dice fermandosi sulla soglia. “E siamo anche felici?” dico io. “Allora?!” Mia madre va incontro a Virginia che ha nel sangue, e nel nome, il senso del melodramma. “Hanno firmato: cinque pezzi della linea King’s Speech da spedire entro mercoledì, pagamento a trenta giorni, e omaggi della duchessa inclusi. E quest’anno saliamo a centoquattro pezzi unici solo per il Regno Unito.” Urlano entrambe e saltano sul posto: hanno chiuso un contratto come molti altri, ma pensano sia l’unico modo in cui debbano andare le cose. Non si rendono conto delle condizioni in cui versano le aziende che ci circondano, come quelle rilevate dai turchi, o quelle che vendono rubinetti. Nel terzo millennio, sparare è diventato più importante che lavarsi le mani. Mio padre le guarda con gioia, mentre Vittoria è disgustata dalla consapevolezza che, per qualche minuto, la macchina da presa dell’attenzione non sia su di lei. Naomi le chiede se può andare in terrazzo, la risposta è no; lo sarebbe stata anche se avesse chiesto di riordinare la sua stanza. Vado al piano superiore. Mi segue Don che, con le unghie sul parquet, fornisce una colonna sonora alla nostra passeggiata. Prima delle scale incontriamo l’altro animale di casa: Patù ci guarda e ci ignora. Quando arriviamo in camera si accuccia sul suo materasso al centro della stanza; io sposto il sacco dal letto, prendo l’iPad, vado su Internet e compongo: www.ventoevivi.com Nell’homepage appare l’immagine di mia madre. È nel suo ufficio, porta una camicia bianca dalle maniche rimboccate e pantaloni neri che scendono stretti fino a un paio di ballerine. I tacchi per lei sono sempre stati una perdita di tempo. A ogni spostamento del mouse i fucili che imbraccia cambiano modello e forma, finché una scritta svolazza sopra la sua testa: Armonia di Vento. Se clicco due volte, una brezza leggera trasforma l’ufficio in un bosco e il puntatore del mouse diventa un mirino che conduce a due sentieri: Vento di oggi e Vento di ieri. Scelgo il secondo e trovo la foto di mio nonno, vestito in frac con Don accucciato ai suoi piedi. Cliccando sulle parti del corpo, appare la http://www.ventoevivi.com storia di famiglia divisa in tre aree: la mente, il cuore e le braccia. Interrompo la navigazione dopo aver notato che il racconto inizia con la frase “C’era una volta” abbinata alla foto dei miei bisnonni gemelli Nevio e Nievo, fondatori dell’azienda nei primi del Novecento. Scrivo un’email a Olivia, a caratteri grandi: SPERO CHE IL TUO BIGLIETTO NASCONDA QUALCOSA DI RIVOLUZIONARIO PER TUTTI NOI. PER LA CARITÀ DI UN DIO QUALUNQUE, ARRIVI?! Mi firmo con una semplice V, un angolo acuto pieno di durezze, come la mia famiglia, che per imposizione del bisnonno Nevio, ha una V in ogni nome fino alla quinta generazione. Ogni volta che lo racconto a qualcuno, mi viene in mente il film V per vendetta: l’immagine della protagonista e del suo assassino mascherato è inquietante quanto l’amore di mia madre per la ricerca dei nomi da dare ai vecchi modelli di carabine. Mi alzo per cancellare l’immagine virtuale dei miei famigliari e ne cerco una che mi restituisca un po’ di verità. La trovo passando davanti alla camera dei miei genitori: mio padre, disteso sul letto, immobile, con una smorfia più vicina al sorriso che alla serietà del sonno di alcuni padri di famiglia. Non ho mai capito se sia la sua espressione da riposo o da pensiero. Non m’importa se sta fingendo, è quello che cercavo. È la verità con il vestito da sera. Cose del mio mondo: strumenti musicali che non ho mai saputo suonare. Cose più piccole: lancette che girano e non possono essere modificate. Cose infinitamente più piccole: punti e virgole, segni lasciati dal mio bulino. Dettagli. Detail, o in francese détail, una parola composta da de e tailler: tagliare, dividere, separare. Ho passato la vita a incidere metalli e guardare i dettagli per capire se potessero trasformare un pezzo d’acciaio in qualcosa di vivo. Invece sono finito in una famiglia il cui fine era opposto. Io, che ho abbellito coltelli senza mai usarne uno se non per radermi. Lavoro otto ore al giorno da quando ho quattordici anni, da quando il maestro incisore Battista Pendenti mi ha preso nella sua bottega come apprendista. Ne ho lavorate il doppio quando mi sono messo in proprio, prima che una grande azienda mi assumesse. Lì le ore diminuivano, ma era la noia a riempirle. Così me ne sono andato, ho ricominciato con le mie sedici ore. Da solo, ma libero. Finché una mattina venne da me Valdemaro Vento, proprietario della Vento e Vivi. Mi diede una fotografia di sua figlia e mi chiese di incidere il suo volto su un’antica carabina. Qualche anno più tardi quella donna diventò mia moglie. E il mio lavoro. E molte altre cose. E così tornai alle mie otto ore, in un laboratorio a pochi passi da una casa piena di armi. Fucili da incidere e cose da non toccare. Le case dei ricchi hanno sempre qualcosa da lasciare in pace. Stanze che avrei dovuto sentire mie, ma che non lo sono mai state. A volte mi chiedo se anche le mie figlie si sentano così. Sono arrivate. Sono qui, vicino a me; o molto lontano, dipende da come le guardo. E non so perché, ma preferisco guardarle a occhi chiusi. 8 GIORNI PRIMA: DOMENICA Il sonno Algisa si sveglia alle 6.45, apre le imposte e si affaccia alla finestra per battere il tappeto. Due piani più in alto c’è la signora Magri che fa gli stessi gesti e, quando abbassa gli occhi, incontra la domanda della sua vicina: “Hai sentito chi c’è morto?” “Chi?” “Ninì.” “Oh Signur.” “Eh sì, un colpo.” “Ma quale Ninì?” “Il fratello della Pulce.” “Quella che sta vicino alla chiesa delle Capitoline?” “No, quella è laTinta, la sorella del Gino, che anche lui…” “È morto? Non ho mica sentito le campane.” “È in ospedale, chemioterapia. È in stanza con la Bigia.” “La cugina coscritta della Pulce?” “Quella è Luisella, ma è morta due settimane fa.” “Ma pensa… Sono stata due giorni da mia nipote e me la sono persa.” “Tua sorella come sta?” “Ha il marito che non sta bene.” “Artrite?” “Peggio.” “Vene varicose?” “Peggio.” “Cancro?” “Cataratta, non può più vedere la tivù.” “Povera gioia…” “Lo sai invece chi sta per morire?” “Chi?” “Il figlio della Dorina.” “Di cosa è malato?” “Epatite.” “Ma dove l’ha presa?” “Ha fatto il Passo del Tonale.” “Quanti anni ha?” “Eh… giovane…” “Ha l’età del fratello del fruttivendolo.” “È del ’21?” “Eh sì… giovane poverino.” Alle 6.58 suonano le campane a morto. “Sarà il Gino?” dice Algisa spingendo gli occhiali sul naso. “Il Gino o la Bigia, chi era più malato?” “Lui ha già avuto un ictus.” “Lei però era in coma.” “Ci vediamo davanti alle carte da morto?” “Tra cinque minuti.” Alle 7.00 il condominio si sveglia. Il bollettino dei morti ha sepolto il sonno. Foto di famiglia La famiglia è schierata all’ingresso di casa: Vittoria, con una scollatura da bordo piscina, sta raccogliendo i lunghi capelli biondi di Naomi in due trecce; Eros gioca con la Playstation portatile e fa palloncini con il chewing-gum senza aspartame che mia sorella gli mette in bocca fin dal mattino per non farlo mangiare. Il nonno indossa l’abito della domenica: blazer blu e papillon. È appoggiato allo scaffale accanto all’entrata e sta sfogliando Il maneggiamento delle macchine d’artiglieria. Virginia è in cucina con nostra madre a bere il quarto caffè della mattina e a discutere sull’organizzazione del prossimo torneo di tiro all’elica, mentre mio padre è in soggiorno, davanti al televideo, per controllare il risultato di Inter- Roma. “Ha perso,” dice infilandosi la giacca del completo. “Due goal e un rigore fallito.” “Ecco,” urla mia sorella. “Bambini, dovevate andare a confessarvi ieri, ve l’avevo detto.” Strappa dalle mani la Playstation a Eros che inizia a piagnucolare. Virginia e mia madre ci raggiungono per mettere in scena un siparietto consolatorio ai danni di Eros che non le sopporta, lo dimostra il suo sguardo, molto vicino a quello che usano gli attori quando stanno per pugnalare qualcuno. Anche il nonno cerca di sdrammatizzare con il suo “dai, dai, su, su,” mentre papà apre la porta con cinque mandate di chiave, toglie l’allarme del perimetro interno ed esterno, e finalmente possiamo andare alla messa di don Cosimo, il parroco del paese. È siciliano di origine, ma interista di fede calcistica e non confessa quando la sua squadra del cuore perde in casa. Ho la nausea, ho voglia di fumare, forse di urlare. La mia giornata è iniziata con delle fitte all’addome a cui non ho dato importanza, poi mi sono messa le scarpe basse lucide e un gilet nero che ha suscitato l’antipatia generale per il mio lato maschile da esibizione. Anche i pantaloni sono neri, come il trucco per nascondere le occhiaie e far risaltare le pupille scure. Ho gli occhi piccoli, come quelli di mio padre che si nascondono invece di aprirsi al mondo. Al contrario di quelli azzurri di mia madre che nelle foto da giovane assomiglia a Lauren Bacall, ma più bella e appariscente. Mio padre non ha niente a che vedere con Bogart, sembra Philip Roth, ma senza la sua ripetitività nello scrivere. È un artigiano, non usa le parole, parla con le mani: incide metalli. Io ho preso il peggio da entrambi. Il mio fascino è racchiuso in quelle cavità interne che vibrano quando emetto un suono più che uno sguardo. Forse è per questo che le mie relazioni sono sempre state molto telefoniche. “Ciao lesbica,” dice mio cugino di primo grado, che attendeva qualcuno da infastidire dietro lo spioncino della porta. “Ciao Rivaldo, che ci fai ancora qui?” “Siamo in ritardo?” chiede infilandosi la camicia nei pantaloni. “No, pensavo che fossi dentro per furto, spaccio o sfruttamento della prostituzione.” Lui esibisce un dito medio che ignoro. Sono quasi a piano terra, dove ritrovo Virginia. È bella. È lei che ha preso da mia madre, è lei la figlia di Lauren Bacall, e mi abbraccia. È bella e ha l’odore del dulce de leche argentino, ma non porta il profumo, è la sua naturale dolcezza a renderla così antipatica. Se fosse una ragazza del college, tutti farebbero la fila per accompagnarla al ballo o passarle i compiti sotto il banco. Io che sono sua sorella posso solo sprofondare nella mia philiprothitudine. “Mi sei mancata Violina,” dice scompigliandomi i capelli a cui mi ero sforzata di dare una forma. “Che combini?” “Mi sposo.” Mi coglie di sorpresa e non riesco a dire nulla. Virginia, oltre a essere bella e profumata, è anche una donna di marketing: brava a vendersi e attenta a lasciarsi comprare solo dal miglior offerente. I suoi standard sono sempre stati troppo alti per chiunque, finché non ha trovato Carlo Zeni, della Zeni Armi. Il suo corrispettivo, ma più potente. “Non dire niente per favore,” dice sorridendo solo con la bocca. Non posso chiederle perché, Vittoria arriva alle nostre spalle, ci spinge verso il portone e dice: “Sono già tutti in chiesa, non facciamoci riconoscere, che poi dicono che ce la tiriamo perché abbiamo una VIP in casa.” Ci basta uscire dal cortile e percorrere una stradina in discesa per raggiungere il centro storico del paese valorizzato dall’ampio sagrato, dove sono stati immortalati i baci di tutti i novelli sposi della famiglia Vento. Sulla facciata sinistra è comparso l’ultimo lavoro dei graffitari, il disegno del viso di don Cosimo con la scritta: “Non avrete altro don all’infuori di me.” “Stai bene?” mi sussurra mio padre. “Sì,” dico sorridendo come se avessi ricevuto un complimento. Chiudo gli occhi e cerco di recuperare l’equilibrio perso a causa di un abbassamento di pressione. Resto vicina a lui mentre la folla avanza verso l’entrata della chiesa. La voce scintillante di mia madre manifesta la gioia vanitosa di chi si sente superiore alle persone che la circondano. Stringo mani, bacio guance, dico ovvietà che si trasformano in sussurri perché la cerimonia è già iniziata: don Cosimo non aspetta mai il silenzio. La chiesa ha mezzo tetto scoperto, alcuni operai sono al lavoro nella parte di ponteggio sospesa sopra l’altare con cavi invisibili che sorreggono i loro corpi. Si spostano cercando di non fare rumore, anche perché don Cosimo interrompe la messa per lanciare loro occhiate poco rassicuranti. “Se lavoro io potete farlo anche voi, in rispettoso silenzio,” deve aver detto per convincerli a sgobbare nel giorno in cui anche il Signore nostro si riposa. Il piccolo Olmo dorme quando gli viene versato un litro di acqua santa in testa. Io me ne sto in piedi, a contatto con il muro freddo. Mi aiuta a mantenere un po’ di lucidità per seguire la teatralità artefatta della messa. Dopo aver spezzato il pane, don Cosimo alza il calice proclamando le parole di rito. A seguire arriva il silenzio del pathos cattolico, ma quando gli occhi di tutti sono puntati verso la coppa piena di un ottimo rosso della Franciacorta, un piccolo oggetto precipita dall’alto. La corsa è breve, la destinazione sacra: il sangue di Cristo. Il liquido rosso sobbalza sul naso del prete, i ragazzi del coro si portano le mani alla bocca, qualcuno grida al miracolo, altri sgranano gli occhi, i bambini ridono, i genitori impallidiscono, ma il don rimane immobile. Posa il calice, si pulisce il viso con il tovagliolo santo, afferra il microfono e, con gli occhi all’insù, dice: “Dio dà e io tolgo. Amuninne arriminamunne, che poi ci vediamo.” Nello stesso istante, Terzilia, la più anziana del paese con i suoi novantotto anni di funzioni religiose, mi sorprende alle spalle. “A me mica mi piace tutta questa messa in scena.” Guardo la superficie uniforme della sua cotonatura grigia. “Insomma, non è divertente.” “Sono d’accordo, è una vergogna assolutamente ingiustificabile.” Mi fa segno di avvicinarmi. Sarebbe capace di darmi uno schiaffo peravermi vista ridere. “Tu che sei nell’ambiente, fagli vedere come si fa il cinema a questi qui.” “In che senso?” “Ma perché non ci porti un bel coro gospel?” Forse ho capito male. “Se ci fosse anche una squadretta di ballo? Un po’ di movimento…” dice scuotendo le spalle in modo preoccupante. Forse ho capito male. “Altrimenti che gusto c’è?!” Le prometto che ci proverò e mi allontano: sta iniziando la comunione, non posso tirarmi indietro, mia madre tiene d’occhio tutti i membri della famiglia per assicurarsi che il Corpo di Cristo entri nelle loro bocche e le riempia di grazia. Mi metto in fila davanti a tre ragazzini. I primi due si avvicinano al prete per ricevere l’Ostia disponendo le mani in modo da indicare i due goal che l’Inter ha preso in casa. Il terzo, invece, all’affermazione: “Corpo di Cristo,” risponde: “Baciamo le mani, don Cosimo.” Inizio a starnutire e nel frattempo cerco di riconquistare il mio posto accanto all’entrata: devo trovare il modo di andarmene senza farmi vedere da mio nonno che si aggira per la chiesa con le mani dietro la schiena importunando chiunque gli dia attenzione. Ha un problema di iperattività e oggi è irritato perché la domenica è giorno di caccia, non di messa. Di solito non abbandona mai la riproduzione della vecchia doppietta che si porta in spalla quando percorre le strade del paese in motorino. Nel bauletto aperto dietro di lui c’è il bassethound che da sette anni è uscito dal ruolo di cane da caccia per immedesimarsi in quello di cane tediato dall’esistenza. Ho stampato in mente il ritaglio di giornale affisso accanto all’entrata di casa, l’ho letto così tante volte che lo conosco a memoria: IL GAZZETTINO DELLA PROVINCIA Cane spara a cacciatore Santa Priscilla (Brescia), 6 giugno. Valdemaro Vento, presidente dell’azienda di armi Vento e Vivi, ha rischiato la vita a causa del suo cane, un bassethound dal pelo corto, che durante una battuta di caccia è salito sopra il fucile calibro 22 lasciato incustodito accanto a una preda, e ha fatto partire un colpo che ha quasi sfiorato la nuca del suo padrone. “Volevo ricordarvi che domenica prossima la chiesa sarà pronta”, dice don Cosimo interrompendo i miei ricordi di famiglia. “Festeggeremo la nostra santissima Priscilla,” dice gettando un’altra occhiata ai due operai. Il capo del coro chiama un applauso seguito dall’ultima canzone, indispensabile per accompagnare l’uscita dei fedeli. Io sono già fuori, a guardare la piazza dove sono cresciuta, chiusa in un cerchio perfetto di alberi secolari sui quali mi è sempre stata vietata l’arrampicata selvaggia. Sotto i portici, le serrande abbassate della pizzeria La chiave, in omaggio alla passione di Mirco, il proprietario, per l’opera omnia di Tinto Brass. Un cartellone appeso accanto all’entrata indica le proiezioni del weekend sul megaschermo interno: venerdì film evento con Salon Kitty, sabato sera calzone farcito, bibita e Tra(sgre)dire a 8 euro, mentre domenica sconto su pizza mari e monti con visione del film Miranda. Il sagrato si è riempito di parenti che festeggiano l’entrata di Olmo nella sua vita cattolica in cui potrà peccare e sentirsi in colpa fino alla fine dei suoi giorni. Lui non sembra accorgersene, continua a dormire nonostante i sobbalzi di sua madre che vuole fotografarlo con gli occhi aperti. “Perché sono blu come i miei, è ovvio, ha preso tutto da me,” dice il padre, un cugino di terzo grado che è sempre stato innamorato di Virginia e ha passato metà cerimonia a guardarla. Vittoria firma autografi, Eros gioca con i piccioni e Naomi ha quel broncio tipico di chi cresce addomesticato. Ripesco nella mente una serie di scuse progettate negli anni e stipate nel cantiere dei “no, grazie”: non voglio andare al ricevimento, e mentre penso a una strategia, mia madre mi passa Olmo che apre gli occhi per la prima volta sollevando un “oh” generale. Mi guarda: ha il naso piccolo e perfetto, le labbra appena pronunciate, di un rosa che sembra essere stato inventato alla sua nascita. Le mie braccia si ammorbidiscono e il suo corpo cede nella forma che creo per lui. Tutti si stringono attorno a me lanciando gridolini di piacere, mia madre mi prende il mento e lo solleva verso l’obiettivo di una macchina fotografica a qualche metro da noi, poi arriva il suono dello scatto: la mia prima foto di famiglia. Qualche metro a piedi Quando passa dalla seconda alla terza, mio padre stacca la mano dal cambio per posarla sulla mia gamba. I suoi gesti sono conversazioni. È il linguaggio del tocco e delle intenzioni che spiegano tutto solo a chi è in grado di comprendere le pause tra i suoni. Le parole appartengono a mia madre, pronta allo scambio d’opinioni di cui custodisce sempre la ragione. Sul sedile posteriore ci sono zia Nella, la sorella di mia madre, zia Nives, sorella di mio nonno e Naomi al centro. Eros ha voluto restare con Vittoria anche se è stato ricoperto d’insulti perché in chiesa, nel fare il segno della croce, si è toccato i genitali provocando una risata di massa tra i nipoti scout della signora Magri. “Come va il lavoro?” mi chiede mio padre mentre le zie fanno il terzo grado a Naomi sul mondo della televisione. “Benissimo.” Lui gira la testa per guardarmi. Un’occhiata che interpreto come un invito a dire la verità. “Abbastanza bene,” mento lanciando lo sguardo oltre il finestrino, oltre le case basse della campagna padana, oltre i campi che stanno per cambiare colore, oltre la linea che separa la mia regione dalle altre. Poi lo fermo, per non perderlo, e lo riporto sulle mani di mio padre che disegnano un’onda sui miei pantaloni. Annuisce spostando il capo avanti e indietro, ma io so dove vuole arrivare: la trama di ogni famiglia con un ottimo reddito e tanti posti di lavoro si ripete. Me lo sento, sta per offrirmi un impiego, quindi lo anticipo: “Hai un sogno ricorrente?” Gli angoli delle labbra si spostano verso sinistra: sta pensando. “Dai, racconta.” “È imbarazzante.” Riesco a tirarglielo fuori dopo dieci minuti. “Bruce Springsteen.” “Prego?” Sospira. “Sono seduto al tavolo del mio laboratorio e accanto a me compare Garry Tallent che mi prega di unirmi alla E Street Band. Dice che non possono fare a meno di me. Lo ringrazio, cerco di ignorarlo e me ne vado, ma poi in strada incontro Stevie Van Zandt che mi canta: ‘I just want to hear some rhythm! I just want to hear some rhythm!’ e mi chiede di andare con loro in turné. Io resisto, ma quando arrivo in cortile trovo Bruce che mi dice: basta Giacomo, il tuo futuro è il rock.” “Interessante.” Annuisce concentrandosi sulla strada. Sposto lo sguardo verso il finestrino e rimango a fissare le immagini del paesaggio, finché entriamo nel viale alberato che ci conduce alla cascina dove si terrà il ricevimento. Mio padre rallenta e poi mette la retromarcia per parcheggiare, ma un motorino sfreccia davanti a noi e si infila nell’unico posto libero. C’è il nonno alla guida, dietro di lui don Cosimo, che scende con un balzo, si toglie i Ray-Ban dalla montatura chiara abbinati al suo colletto da prete e benedice l’aria che avvolge la cascina. Non ricordo l’ultima volta in cui mio nonno e mio padre si siano scambiati un’opinione. Non parlano, sono coinvolti in una di quelle guerre che mio padre vince con facilità: quella del silenzio. Non ho mai capito il motivo e non sono qui per scoprirlo, visto che me ne andrò presto. All’entrata del ristorante il mio sguardo incontra quello di una ragazza dai tratti familiari che posa un vassoio pieno di calici per corrermi incontro. Io stiro le labbra in orizzontale facendo scorrere mentalmente il foglio Excel dei parenti di cui non ricordo il nome. Risultato ottenuto: tutti. Cambio foglio, prendo quello delle conoscenze di vecchia data e controllo ogni riga mentre lei si avvicina. Elementari, medie, superiori? “Dio mio, Viola,” dice abbracciandomi. “Dio mio davvero.” Resisto al contatto fisico non gradito. Oratorio, catechismo, coro della chiesa, discoteca, videoteca? “Mi avevano detto che eri in fin di vita, pensavo non ce l’avessifatta.” “Scusa?” dico stracciando i fogli Excel, dato trovato: figlia della professoressa di matematica, terza liceo. Ottimi voti in matematica, pessimi in tutte le altre materie. Scuola abbandonata l’anno successivo per dedicarsi al ramo turistico. “La scorsa estate non sei stata ricoverata?” “Per una gastroenterite.” “Sì, ma in India!” dice arricciando il naso. “Adesso stai bene?” Mi tocca la pancia e io faccio un salto all’indietro, come se fossi stata sfiorata dalla lama di un coltello. Ripeto: i ritorni danneggiano gravemente la salute. “Non si sa mai come si esce da quei posti,” dice riprendendo il vassoio. “Non sarai mica diventata buddhista?” Mi chiedo se sia meglio correre in bagno o direttamente in macchina, per muovermi lentamente verso la linea di confine del mondo, fermarmi sull’orlo del dirupo e sperimentare la sensazione di vuoto per un po’. Ma quando guardo il posto che mi è stato assegnato, penso che per raggiungere quel precipizio mi basta percorrere qualche metro a piedi. Il buio che si solleva dalle acque Il rito del rimpatrio prevede, per imposizione di mia madre, che si passi tra i tavoli a salutare i parenti. I loro obiettivi sono due: farti domande senza aspettare di ascoltare una risposta o lanciarti addosso le loro nevrosi. Decido di visitare un tavolo alla volta, dopo ogni portata, per non bloccare la digestione di colpo. Il menù: Culatello di zibello con le sorelle di mamma. Zia Severa, responsabile amministrativo, mangia mollica di pane per tenere lontana la nicotina e mi dice: “Ho un bravo commercialista tra le mani, ti interessa?”; zia Vilma, capo delle risorse umane, usa il sale in modo compulsivo e chiede: “Secondo te, raccontare qualcosa di personale, compromette quello che sei?”; zia Vanella, catechista, mi accoglie con un sorriso: “Non mi hai ancora detto che metodo anticoncezionale usi.” Sono presenti anche i mariti delle prime due: Dionigi e Camillo fanno scorrere le dita sui rispettivi iPad sincronizzati in una partita ad Angry Birds. L’assente è Erminio, marito della catechista e impiegato nel ramo commerciale. È in Birmania a vendere fucili a chi pratica la non violenza. “Torno subito,” dico. E mi dileguo. Maccheroncini allo stracotto d’asino con le cugine di primo grado. Vanessa, ingegnere meccanico con le unghie laccate di rosso, mi guarda e dice: “Ti ricordavo più slanciata, ma forse sono i pantaloni a vita alta a deprimerti”; Veronica, responsabile del controllo qualità, cerca di zittirla peggiorando le cose: “Porta rispetto per chi guadagna il doppio di te lavorando la metà.” Dalla parte maschile del tavolo arriva solo un commento, è Bernardo, il marito di Vanessa che le sussurra: “Sei sexy quando sei cattiva.” Veronica si aspetta lo stesso commento dal suo compagno, ma Jacopo sta componendo un disegno sul tavolo con le briciole di pane, è un cappello degli alpini. “Buona continuazione,” dico. E scompaio. Assaggio di pizzoccheri al tavolo dei divorziati. “Come va nel cinema?” mi chiede Rosvalda, fanatica dei proiettili Remington Copper Solid in lega di rame. Inizio a esporre le mie teorie sulla crisi del settore. “Dove hai preso quella giacca?” mi interrompe. “L’ho rubata a Virginia.” Appena ricomincio lei si alza per raggiungere mia sorella e farsi dare i contatti del negozio. C’è una cugina che avevo cancellato dalla memoria: Livia, responsabile delle materie prime, l’ennesima donna impiegata in azienda, quasi fosse un requisito fondamentale per avere accesso al mondo del lavoro. È in avvicinamento, ma io mi lascio trascinare via da Gustavo, il cugino di terzo grado più eclettico che ho: laureato in fisica, produttore di birra e pittore. “Chiudi gli occhi cugina,” dice accompagnandomi verso le vetrate che danno sul giardino. “Immagina di essere in uno di quei quadri di Friedrich, con il buio che si solleva dalle acque e ti lascia sola, in controluce…” “È un invito ad annegarmi consapevolmente?” “Pensa invece che ogni goccia diventi il tocco di Pissarro nelle sue giornate di sole, con i contadini al lavoro che si staccano da terra per salire su un carro di Chagall e vivere capovolti,” dice fermandosi sulla soglia del portico. “Il mondo, così, non sembra messo peggio di te?” Lo abbraccio. “Si può sapere come fai?” dico rannicchiandomi su una panchina. Lui sorride e svia il discorso: “Ti fermi a casa per un po’?” “Friedrich o Chagall?” dico alzando solo la testa; il resto del corpo è impegnato a inseguire delle piccole fitte che danzano intorno all’ombelico. “In ogni tela c’è un punto di fuga.” Prende in braccio sua figlia Zelda. Ha sette anni, l’ultima volta che l’ho vista ne aveva appena compiuti due e aveva perso sua madre da poco. Quando Zelda gira il viso verso di me, ritrovo la morbidezza del suo sguardo, e mi chiedo quanto sia forte, in un genitore, il desiderio di ritrovare i propri lineamenti in quelli dei figli. “C’è la fantasia di bolliti,” dice zio Vanni con il suo accento marcato. Gustavo rientra con sua figlia sulle spalle, io mi alzo, barcollo e mi accascio: vedo il buio che si solleva dalle acque. Dolore Il buio diventa ombra e poi luce: un rettangolo si allunga sul muro verde, un verde che si trova nei manicomi o nei corridoi dell’emittente televisiva dove lavora Vittoria. L’odore di disinfettante è più piacevole del profumo che arriva dal polso di zia Nella, quando mi tocca la fronte. È seduta accanto al mio letto, sta recitando il rosario. Mi chiedo se stia pregando per me. Sono stesa su un fianco, verso la finestra dell’ospedale in cui mi hanno portato, nel paese accanto a Santa Priscilla. Sento dei bisbigli tra cui ritrovo le voci di tutte le persone che non vorrei vedere. Non riesco a distinguere le parole ma ne riconosco i colori: sono freddi. Quando mi giro per alzarmi li vedo, schierati come giocatori di rugby in attesa di una danza propiziatoria per sconfiggere il nemico. “Ci fai sempre preoccupare, Violina,” dice mia madre rompendo le righe per venirmi incontro. Gli altri continuano a fare commenti sottovoce. “Sto meglio,” dico ignorando il braccio che mi offre come appoggio. Cammino davanti a loro senza ascoltarli e m’infilo in bagno. Mentre faccio pipì cerco di ritrovare la strada della realtà. “Tutto bene?” dice mia madre bussando alla porta. Perdo ancora sangue. “Lina?” Sono libera, penso. Non è colpa mia, penso. “Violetta?” Mi chiedo se quel loro modo di storpiare i nomi derivi dalla necessità di darmi la forma che vogliono. Esco e li guardo, sono sparsi come chicchi di riso. Mi assaltano le guance con le loro guance: i baci del Nord. Le voci si sovrappongono, come i sorrisi e l’affetto distaccato di chi non ti conosce nemmeno a metà. “Il medico dice che è tutto a posto.” È sempre mia madre a parlare delle questioni ufficiali. Mi siedo. “Cosa?” dico ad alta voce, a me stessa. Vittoria si avvicina per prendermi il viso, come fa con i suoi figli quando le devono prestare attenzione. “Congratulazioni sorellina, ti insegnerò a diventare come me: una mamma perfetta.” Sposto gli occhi poco più in là, verso Eros e Naomi, seduti per terra, a litigarsi la Playstation; poi passo sopra le scarpe di tutte le V della famiglia: Vilma, Severa, Rosvalda, Valter, Veronica, Vanessa, fino a raggiungere le mani di mio padre, nascoste come pietre nelle tasche. Sollevo lo sguardo, incontro il suo e aspetto di vedere qualcosa di più di un’espressione empatica. Non arriva e per l’ennesima volta mi chiedo perché. Lo abbandono e torno al fuori, cercando di spostare l’attenzione, come faccio sempre quando è troppo difficile essere me. Penso alle villette di paese dove sembra chiusa a chiave la felicità, o la desolazione. Penso alle strade innevate su cui mi sdraiavo per ore. I piccoli centri vivono di assenze: lo spostamento dei suoi abitanti in un luogo immaginato, lontano dalle terre da coltivare, dai marciapiedi di cui si conoscono le impronte, dai muri che trattengono pensieri e vapore acqueo. Quando mi volto sono spariti tutti, tranne mia madre. “Torniamo a casa,” dice prendendo la mia
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