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ARMI DI FAMIGLIA

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Ferocemente ironico, tagliente, tragicomico.
Armi di famiglia inizia con un biglietto, quello che i Vento, storici produttori di armi, ricevono
da Olivia, la figlia più piccola. È un invito a tutti i membri della famiglia a riunirsi a casa.
Così, per la prima volta dopo anni, si ritrovano…
Viviana, la madre: amministratore delegato, che gestisce le questioni affettive come fossero
comunicati aziendali. Vittoria, la primogenita: conduttrice TV, con due figli in sovrappeso e
una vita che si misura in numero di spettatori. Virginia, direttore marketing ossessionata dalle
strategie: “Se il tizio di Brescia delle pompe funebri distribuisce anelli a forma di bara, non
vedo perché non dovremmo farlo anche noi con i fucili”. Viola, doppiatrice: è davanti alla
scelta più complicata per una donna.
E Giacomo, il padre, che consuma le giornate nel silenzio del suo laboratorio.
Tutti hanno un obiettivo: tenere nascosto qualcosa.
Perché Olivia è l’unica a tardare? Perché al suo posto si presenta Elio, un giovane che si
stabilisce in casa pilotando le dinamiche familiari?
Francesca Lancini torna con un nuovo romanzo dal ritmo serrato: un ritratto di famiglia in un
Nord di restrizioni emotive, fra insulti travestiti da complimenti e sguardi impietosi che
sembrano porre un’unica domanda: esiste forse qualcosa di più comico dell’infelicità?
Francesca Lancini è nata a Brescia nel 1983. Conduce i programmi “Cool Tour” su Rai 5 e “Rai
Player” in onda su tutte le reti Rai. È docente di Scrittura creativa all’università NABA di
Milano. Ha pubblicato con Bompiani Senza tacchi (2011).
NARRATORI ITALIANI
FRANCESCA LANCINI
ARMI DI FAMIGLIA
© 2014 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-58-76695-8
Prima edizione digitale 2014 da edizione Bompiani maggio 2014
Immagine di copertina: Untitled #395, from the series Dier en Kind, 2012.
© Hellen van Meene. Courtesy of the Artist and Yancey Richardson Gallery.
Copertina: Paola Bertozzi.
Progetto grafico: Polystudio.
 
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
http://www.bompiani.eu
http://www.facebook.com/pages/Bompiani/111059814766
Alvino e Margherita, per voi.
Una visita fa sempre piacere, se non
all’arrivo, quantomeno alla partenza.
Béatrix Beck
IL GAZZETTINO DELLA PROVINCIA
Ad armi pari
La fiera dedicata alle armi leggere si chiude con una sorpresa: raddoppiate le presenze
femminili.
Brescia, 13 aprile. Donne: sono loro le protagoniste dell’evento più importante dell’anno per
quanto riguarda le armi sportive, security e outdoor. Un settore che conta settantadue aziende
presenti sul territorio.
La più antica di queste imprese è la Vento e Vivi Armi che quest’anno ha festeggiato gli
ottant’anni di V.V., la prima doppietta prodotta dai Vento nel 1930. Presenza d’eccezione:
Valdemaro Vento, presidente dell’azienda che è apparso per la prima volta in un’occasione
pubblica accanto alla figlia Viviana, amministratore delegato. Numerose le domande dei
giornalisti.
Come mai ha scelto proprio questo evento?
“Perché sto morendo e voglio festeggiare così il mio ultimo compleanno. Nel 1930, quando
sono nato, i miei genitori hanno fatto incidere le mie iniziali sulla prima doppietta, e io ho voluto
fare lo stesso con figli e nipoti. Non devono perdere la memoria di quello che sono stati.”
Come ha trascorso questi ottant’anni?
“Ho venduto trecentoquarantatremila fucili e ho passato il tempo a chiedermi perché mi siano
nate solo donne.”
LUNEDÌ 24 MAGGIO
“Sono felice che tu sia tornata a casa,” dice mio padre spostando
la sedia verso di me.
Non capisco se lo fa per avvicinarsi o per trovare l’ombra.
“È arrivato il momento?”
“Di cosa?”
“Penso che tu lo sappia.”
Mi chiedo dove abbia nascosto le sue fragilità in tutti questi anni.
“Preferisci andare da sola?”
“Sì,” dico alzandomi.
Questa mattina all’alba ho infilato la valigia nel portabagagli.
Nessuno deve sapere che non tornerò.
11 GIORNI PRIMA: GIOVEDÌ
Smettere di respirare per un po’, forse per sempre
Lunedì, Serena Melzi ha scambiato il GPL per benzina ed è rimasta
a piedi in autostrada tra Cormano e Agrate, senza credito nel
cellulare. Martedì si è dimenticata di mettere la sveglia, mercoledì le
è scoppiata la macchina del caffè e giovedì non ha collegato il tubo
di scarico della lavatrice al lavandino: il ciclo breve è stato il più
lungo della sua vita.
L’orologio segna le 10.20 e Serena è in ritardo, io invece sono
puntuale come sempre. La sala di doppiaggio è muta, notturna e
sotterranea, anche se è al quinto piano di un palazzo che dà su
piazza Castello. Non accendo la luce, rimango nell’ombra per spiare
i movimenti della stanza oltre il vetro: Sebastiano, il fonico, si toglie
la giacca che s’impiglia nei suoi lunghi dreadlocks neri. Fa un giro su
se stesso per cercare l’appendiabiti e sbatte contro la porta che si
apre in quell’istante per far entrare Massimo seguito da Serena. Si
salutano tutti con due baci sulle guance ciascuno. Li conto: sei baci.
Serena si scusa per il ritardo con la voce che ha usato per
doppiare Gas Gas, il topo di Cenerentola e viene perdonata da
Massimo, il direttore del doppiaggio. Per la prima volta da quando
lo conosco è vestito come il giorno precedente: pantaloni marroni di
velluto e camicia bianca.
All’appello mancano ancora due baci, quelli di Elisa, l’assistente al
doppiaggio che ha impostato un mese di turni a orari assurdi e mi
detesta silenziosamente, perché io lavoro con la voce e lei con
l’agenda. Elisa entra con una sigaretta spenta in mano e schiaccia
l’interruttore della sala. La mia figura appare oltre il vetro.
Sebastiano è l’unico che non fa il verso del singhiozzo quando mi
vede, gli altri sono pietrificati. È Massimo a schiacciare il pulsante
dell’interfono.
“Buongiorno, Viola,” dice facendo una pausa impercettibile tra il
saluto e il nome.
“Buongiorno a te. Ho un aereo da prendere, ti spiace se
iniziamo?”
Lui abbassa gli occhi sul copione e li rialza immediatamente, per
incontrare di nuovo il mio sguardo. Serena mi raggiunge davanti al
leggio per guardare il testo. È il nostro ultimo giorno e il
personaggio interpretato da Angelina Jolie, l’attrice che doppio,
morirà poco dopo il prossimo dialogo, quando Jessica Biel le infilerà
del cianuro nel bicchiere. È un thriller di pessima scrittura e ottimi
incassi.
Vediamo la scena, il botta e risposta è veloce. Serena chiede di
riguardarla, poi inizia lei.
“Ti offro qualcosa?”
“No, grazie, di cosa volevi parlarmi?”
“Ho della vodka.”
“Devo dimenticare qualcosa?”
“È probabile che succederà.”
“Perché parli come in un film noir?”
“Sono andata a letto con Martin.”
“Cosa?”
“Sono andata a letto con Massimo.”
Mi fermo, tolgo le cuffie e guardo Serena. Lei guarda Massimo,
Massimo guarda me. Introduco lentamente aria nei polmoni e poi do
un calcio al leggio che va a finire nell’immagine delle due attrici
dentro al plasma ventotto pollici. Prendo la giacca, il trolley ed
esco. Sento i passi di Massimo dietro di me, incerti e colpevoli.
Schiaccio il pulsante prima che lui riesca a entrare in ascensore e
chiudo gli occhi per cinque piani. Quando li riapro lo trovo ad
aspettarmi, ansimante e ansioso di spiegarmi perché, dopo sei anni
di relazione, ha deciso di andare a letto con la voce del topo di
Cenerentola.
“Vi…”
“Vi di vaffanculo.”
“Viola…”
“Smettila, Massimo.”
Attraverso la strada senza guardare né a destra né a sinistra.
“Viola, entriamo un secondo qui per favore…” dice indicando il
cancello di parco Sempione.
Mi siedo sulla prima panchina che incontro e metto la valigia
davanti a me per appoggiarci le gambe. Lui rimane in piedi, il senso
di colpa inibisce i movimenti.
“Viola…”
“Basta.”
“Scusa.”
“E poi?” gli chiedo ficcandomi l’unghia del pollice sotto quella
dell’anulare fino a farlo sanguinare.
“È successo ieri sera…”
“Perché?”
“Perché nel pomeriggio stavamo lavorando.”
Quando discutiamo Massimo si trasforma in un’attrice esordiente
di vent’anni alla prima intervista televisiva:le sue risposte sono
stupide e letterali.
Un gruppo di ragazzi con lo skateboard mi passa davanti
impedendomi di aggredirlo, almeno con il tono di voce.
“A volte non capisco cosa ti aspetti da me,” dice indietreggiando.
“Devo prenderla come una spiegazione?”
“Non mi sento mai abbastanza per te.”
Estraggo dal pacchetto l’ultima sigaretta e la accendo con lo Zippo
che mi ha regalato lui.
“Potrei farti l’elenco delle tue mediocrità, in ordine di
apparizione.”
Ho la nausea, getto la sigaretta davanti a me e lui la spegne
nascondendola tra i sassi, come ha sempre fatto con i suoi errori.
Mi alzo e trascino la valigia che mi accompagna rumorosamente
verso la strada.
“Possiamo almeno parlarne?”
“Lo faremo lunedì.”
“No, Viola.”
“Tu fai le cazzate e io decido, Massimo.”
Fermo un taxi e prima di salire lo guardo negli occhi, aspetto che
mi chieda scusa accasciato sul cemento caldo, aspetto di sentire che
sono l’unica donna della sua vita, che si getterà sotto un’auto in
corsa se non proverò a pensare di perdonarlo e che la sua sarà una
lunga penitenza nel dolore.
“Lunedì non ci vedremo,” dice abbassando lo sguardo, “ho bisogno
di un’altra voce per il prossimo film di Angelina Jolie.”
Lui si allontana, io entro nel taxi e considero la possibilità di
smettere di respirare per un po’, forse per sempre.
La cosa non mi piace
La porta è accostata, mi basta spingere con il ginocchio per
spalancarla. A una rapida analisi noto che il divano è diventato uno
scheletro da cui emerge solo la rete metallica, i cuscini sono
ammassati sul balcone, il tavolino di legno è cosparso di sigarette
accartocciate e la poltrona ha un foro grande quanto il fondoschiena
di chi l’ha sfondata. Mi tolgo la giacca, poso il trolley, prendo il
pallone da basket che mi ritrovo tra i piedi e lo scaravento
sull’impianto HI-FI che sta suonando una canzone di Lady Gaga a
tutto volume.
“Che cazzo di spavento!” dice Lavinia materializzandosi in
soggiorno.
Ha il tono piccato di quando qualcuno, a teatro, interrompe un
suo monologo con un colpo di tosse.
Non la saluto, mi dirigo a sinistra, verso la porta della mia stanza.
La apro con due giri di chiave e mi butto sul letto.
Lei bussa ogni cinque minuti per dirmi che intende aprire il mio
trolley. Vuole sapere quali vestiti mettere nel cesto dei panni sporchi
e quali piegare. La conosco da dieci anni e di situazioni simili ne ho
vissute almeno un centinaio: Lavinia non conosce il confine che
divide una festa dal delirio distruttivo.
“C’è una lettera per te,” dice avvicinando l’orecchio alla porta.
“Nessuno scrive più lettere.”
“Non c’è il mittente…”
La vedo, dal vetro oscurato dalla tenda a pannello, con i riccioli
biondi che le cadono su una spalla mentre cerca di spiare il
contenuto in controluce. Apro la porta, gliela strappo dalle mani e
richiudo. Quando se ne va accendo la lampada da tavolo e, mentre
sto per aprirla, mi suona il telefono: è la dodicesima volta in tre ore,
escluso il tempo di volo tra Milano-Malpensa e Roma-Fiumicino. Lo
metto in un cassetto insieme alla busta, sono stanca. È debolezza
emotiva, la mia. Mi prende ogni volta che passo qualche ora più del
dovuto a Milano, un posto che mi fa sentire inadeguata. Una città
del Nord: la bussola della mia infanzia, un’eterna Orsa maggiore
spenta.
È tornata la nausea, ho bisogno di dormire. Mi tolgo le scarpe in
vernice nera, i jeans a vita alta e la T-shirt degli Arctic Monkeys. Mi
infilo sotto le lenzuola, mi passo una mano tra i capelli e penso che
la mia cresta sta diventando pericolosamente punk. E la cosa non mi
piace.
10 GIORNI PRIMA: VENERDÌ
Non sto recitando
Mi sveglio presto solo quando sono a Roma e ogni volta i gesti
sono gli stessi: metto la testa sotto il cuscino e dico parolacce. Mi
infilo una T-shirt, esco dalla camera e trovo Lavinia seduta su uno
sgabello alto del tavolo della cucina. Piange, tira su con il naso in
modo schifoso e oscilla la testa rischiando di perdere l’equilibrio. Le
passo accanto e prendo la mia Bialetti con il manico spezzato a metà
che mi accompagna ovunque, dalla prima volta in cui ho scoperto il
caffè. La svuoto e la riempio come fosse un esercizio zen, poi verso
del latte aperto da una settimana in un pentolino che metto sulla
fiamma del gas.
“Hai finito?” le chiedo accendendo la tivù.
Non risponde, sta battendo la fronte contro il ripiano del tavolo.
Ogni mattina, da cinque anni a questa parte, ripassa il copione
della soap opera di cui è protagonista. Si alza alle sette, prende
possesso dell’isola della cucina e alterna una battuta, a un sorso di
caffè americano e un tiro di sigaretta all’aroma di menta. Quando le
scene sono drammatiche, la sveglia si estende anche a me.
Faccio un rapido calcolo dei danni causati dalla festa, tolgo la
caffettiera dal fuoco e verso il contenuto nella tazza.
“Hai finito?”
“È una delle scene cardine,” dice interrompendo di colpo il pianto
per dimostrare il suo inquietante controllo emotivo.
“Ma com’è che sono sempre scene cardine?”
Non risponde, raduna i fogli, spegne la sigaretta nella tazza che
appoggia nel lavandino, prende la borsa e sparisce lasciando la
porta semiaperta. Non c’è gesto che riesca a terminare da sola: è
questo che l’ha portata a scegliere una convivenza nonostante il suo
stipendio superi quello di un manager.
Io bevo l’ultimo sorso del mio caffè e mi accorgo che non è
zuccherato. Abbasso gli occhi su un pacchetto di sigarette
abbandonato da un ospite della festa, lo afferro e mentre me ne
accendo una, vedo Lavinia che rientra in casa per portarmi la posta.
È più forte di lei, non riesce a lasciare la casella piena. Sfoglio i
volantini pubblicitari dedicati al take away di sushi, pizza, kebab e
sbircio i prezzi di dieci sedute di cavitazione abbinate a massaggi
linfodrenanti.
“Come ti sono sembrata?”
“Non ti ascoltavo,” dico prendendo il telecomando per
sintonizzarmi sul programma La nostra Vittoria quotidiana, il talk
show che riempie le mattine delle casalinghe italiane. È in corso
un’intervista a una donna sopravvissuta alla furia omicida di suo
marito che ha sgozzato la figlia di tre anni e poi è scappato. La
domanda di Vittoria, la presentatrice: “Nei confronti di suo marito,”
pausa teatrale, “prova rabbia?”
Mi viene un conato di vomito.
“Ti senti bene?” mi chiede Lavinia mentre controlla la gradazione
di bianco dei suoi denti nella vetrinetta della libreria.
Giro il viso verso di lei e scoppio in lacrime, ma io non sto
recitando.
Sequestrato
Roma è una città senza rimandi, non si ha mai l’illusione di
trovarsi altrove. Stendhal la preferiva con la pioggia, a me il clima
importa solo quando prendo la bicicletta. Pedalo veloce spingendo
con la punta dei piedi per sentire i polpacci che si contraggono fino
a farmi male. Percorro il lungotevere senza guardare l’acqua.
Disegno una linea morbida, un taglio che non sanguina mai.
Roma è la città che mi ospita; quando si è di passaggio non c’è
spazio per i conflitti e le ferite. Si ha tempo solo per una quieta e
disperata osservazione. Mi fermo a Villa Borghese, alla terrazza del
Pincio. Appoggio la bicicletta a un albero e mi siedo su una
panchina. Non c’è nessuno con me, solo una busta da lettera, ma
agli oggetti non importa niente della nostra vita, siamo noi a
esserne dipendenti.
Non pensare ai dieci piccoli indiani, Agata Christie mi ha sempre fatto
schifo. Piuttosto: sabato 22 maggio sei convocata in via Garibaldi 9 a
Santa Priscilla.
Olivia
Mia sorella si definisce beat anche se è nata negli anni novanta.
Avrebbe dovuto crescere con l’iPod in mano, i Boyzone nelle cuffie e
i poster di Leonardo DiCaprio alle pareti. Avrebbe dovuto desiderare
di essere come Claudia Schiffer, battere i piedi per avere la
Playstation, mangiare Kinder Pinguì e passare il tempo su Google a
cercare social network su cui postare foto in bikini. Invece Olivia si
faceva comprare i fumetti dei nativi americani e scappava di casa
con la sua Graziella. Caricava la radio di nostro padre nel cestello di
paglia e spariva per ore. A quindici anni si vestiva con le gonnedi
nostra madre che rubava di nascosto dal suo armadio, e mentre io
cercavo la mia identità alcolica passando da una discoteca all’altra,
lei scopriva i testi di Krishnamurti, nascosti sotto il suo letto insieme
alle poesie di Gregory Corso. È sempre stata una rilettrice
professionista con una passione specifica per tutta quella letteratura
inglese che non ho mai sopportato: Tristram Shandy, L’uomo che fu
Giovedì, Gli anni fulgenti di Miss Brodie.
Detestava la carne, per il piacere della nostra famiglia di
cacciatori, e diventò presto un’ambientalista sfrenata quando la
raccolta differenziata suonava come una canzone di Elio e le Storie
Tese. Riciclava ogni scontrino della spesa, chiudeva l’acqua quando
mi facevo il bagno e spegneva il mio abat-jour perché non era a
risparmio energetico. Al liceo rischiò la bocciatura per cinque anni
di fila perché non sopportava le imposizioni. Le piacevano le
biografie, gli approfondimenti sulle persone che si nascondevano
dietro ai personaggi della politica; e così un’interrogazione sulla
Guerra dei trent’anni si convertiva nel racconto della vita di uno dei
suoi miti: John Ruskin.
Olivia andò all’esame di maturità con una valigia e un biglietto
aereo in tasca. Diceva di non avere un sogno da perseguire, ma di
voler andare in un posto in cui poterlo cercare. Un posto letterario:
l’Inghilterra.
Da allora ci sentiamo per tutte le occasioni inutili: compleanno,
Natale e capodanno. Siamo nate entrambe nel mese di gennaio, a
pochi giorni di distanza, perciò le nostre frequentazioni telefoniche
hanno sempre un vuoto temporale di undici mesi.
Piego il foglio di carta riciclata e mi accendo una sigaretta.
“È l’ultima della giornata,” dico alla mia coscienza.
“Sono solo le dieci del mattino,” risponde lei.
Devo smettere di fumare o la mia voce diventerà come quella di
Paolo Conte e non me lo posso permettere.
Mio padre mi diceva sempre che fumavo da uomo, soprattutto
quando mi perdevo in qualche ragionamento contorto: rotolavo la
sigaretta tra il pollice e l’indice, e facevo cadere la cenere.
Mia madre si preoccupava dei tappeti, mio padre dei miei
ragionamenti.
Mi alzo e sposto la testa in tempo per evitare un pallone da calcio
che colpisce l’albero dietro di me. I ragazzini che hanno attentato
alla mia vita sono a cinquanta metri; metto il pallone nel
portapacchi della bici e riparto: sequestrato.
9 GIORNI PRIMA: SABATO
Assenze
Guardo la radio: è accesa ma senza volume. Sto guidando da
quattro ore nel silenzio. Lo alzo, ci sono gli Echo and the Bunnymen
a ricordarmi che niente dura per sempre. Neanche i trent’anni. Ed è
un sollievo, perché i miei non hanno ancora un punto di vista chiaro
su alcune questioni. Sono quei trent’anni che non si afferrano perché
si nutrono di un movimento continuo che non ti appartiene mai.
Come i colori della voce, come le esigenze degli altri.
Non è vero che a trent’anni si è un campo di grano, come dice
qualcuno. Non è vero che si è liberi, ribelli e fuorilegge. Non è vero
che è finita l’angoscia dell’attesa, né che si smetta di temere la
disobbedienza, la colpa e il peccato. Non è vero niente: a trent’anni
si è il funambolo, il filo e la città. “Bisogna avere un po’ di fiducia,
sai, nella gente,” dice Mariel Hemingway nell’ultima scena di
Manhattan. Uno dei film preferiti di Olivia.
“L’unico rimedio per superare la fine di una relazione è la cura
Woody Allen,” sostiene lei.
Manhattan è doppiato divinamente da Lionello padre e figlia. Sono
loro i due protagonisti: s’innamorano, si separano e poi tornano
insieme in una specie di incesto vocale.
Penso a mio padre. L’unica voce che ho voglia di ascoltare.
Al diavolo gli Echo and the Bunnymen. Cambio frequenza e
cambio marcia, sto per uscire dall’autostrada che mi ha ipnotizzato,
con i suoi pensieri formato A4.
Trent’anni. L’età in cui Massimo ha iniziato a guardarsi le tempie
allo specchio, pregando di non vedere dei capelli staccarsi da quel
gruppetto già scarso che chiamava in causa con le dita, quando non
trovava la parola giusta.
“È inutile fare i conti con lo specchio, facciamoli con noi stessi,”
gli dicevo.
Io intendevo insieme. In due si hanno più mani per contare.
Trent’anni. L’ultima possibilità di fare qualcosa di importante:
ripromettermi che questo sarà l’ultimo ritorno a casa.
Il terreno fa sobbalzare l’auto. Non lo ricordavo così irregolare;
l’ultimo viaggio fu in treno, tra soste per la neve, famiglie in ansia e
suocere che diventano violente quando le festività si avvicinano e
richiedono bontà. Era il 25 dicembre e si celebrava il funerale di zia
Assunta, una celebrità in paese, per essere riuscita a compiere il suo
centesimo compleanno raggiungendo il ristorante alla guida della
sua vecchia Fiat 500.
Arrivai la mattina di Natale, partecipai passivamente alla
cerimonia nella chiesa del paese, al pranzo post trauma e ai tornei
di briscola chiamata con i cugini. Zia Assunta, nelle sue ultime
volontà, aveva chiesto un funerale d’azzardo. Mi fermai fino a sera,
il tempo di litigare in modo irreversibile con qualcuno e poi
andarmene in silenzio e con maleducazione, salutando solo gli
indispensabili.
Sono le cose che non scegliamo a farci diventare quello che siamo.
Non ho scelto il paese dove sono nata; per imparare a vivere la mia
vita adulta sono andata altrove: Milano, Roma. Spazi dove è
consentito essere invisibili. Apparire e scomparire come trasformisti
di se stessi.
Non torno a casa da cinque anni. Le famiglie del Nord sono
abituate alle assenze.
 
Soprattutto tu, Algisa
Il navigatore dice che devo proseguire “uno virgola quattro
chilometri”, per l’applicazione Google Map dell’iPad dovrei svoltare
a sinistra tra cento metri, e il sito ViaMichelin, sullo schermo del
BlackBerry, non riporta la strada statale che percorro da mezz’ora.
L’iPad si scarica e si spegne, il navigatore mi ripete continuamente
di fare un’inversione di marcia e il telefono inizia a squillare proprio
nel momento in cui trovo il numero identificativo dell’unica strada
che devo prendere. È Massimo, per la settima volta in due ore. Vedo
i suoi lineamenti spigolosi nella foto che illumina lo schermo, e quel
suo sguardo di poco fuori dall’obiettivo della camera, con
l’espressione di chi si è lasciato scappare un aquilone.
Spengo il telefono e mi fermo in una piazzola. Scendo dall’auto e
respiro allargando le narici per far entrare “l’aria buona del Nord”,
come dice mio nonno Valdemaro, quella che va accompagnata da
una dieta padana con polenta, volatili e incisioni rupestri. Davanti a
me le colline disegnano i fianchi di una donna che si stiracchia al
mattino, per ritardare il risveglio.
Non sono lontana, penso. Purtroppo.
Imposto il navigatore per la terza volta e quando riparto scopro
che era in modalità dimostrazione.
Alla fine di una strada stretta e confusa dai rami, raggiungo il
ponte dei pensieri. È così che lo chiamavo da piccola, perché separa
il mio paese da quelli vicini, e ogni volta che lo attraversavo mi
costringeva a pensare a ciò che lasciavo, anche solo per poche ore.
Ho sempre avuto bisogno di punti di riferimento, conferme fisiche:
la scala a quattro pioli del letto a castello che dividevo con Olivia, la
spalliera a cui mi attaccavo quando ero scossa dal pianto. Sapevo
che quelle assi di legno non mi avrebbero mai lasciata sola. Oggi
attraverso il ponte guardando la luce del mattino che si specchia nel
fiume sotto i miei piedi, sotto le mie ruote. I cartelli che costeggiano
la strada non sono cambiati: c’è il concorso di bellezza, vinto, ogni
anno, da una delle figlie del sindaco, anche se la più piccola ha
trent’anni; e il trofeo di ciclismo che passa tra le vie del paese. Al
traguardo di ogni edizione manca sempre qualcuno, rapito da un
panino alla mortadella al bar dell’oratorio. Più avanti, al semaforo a
cui hanno installato delle telecamere, c’è il poster dei Curcuma, il
gruppo rock più speziato del paese. Pepe al basso, Paprika alle
tastiere, Curry alla chitarra, Ginger è la voce, e Timo al triangolo,
perché è il piccolo del gruppo e figliodel produttore: il sindaco. La
locandina dice che suoneranno il prossimo fine settimana, quando
non ci sarò più. Ho solo bisogno di parlare con Olivia, farle
cambiare idea rispetto a qualsiasi stronzata possa aver pensato per
la sua vita e andarmene con lo stesso sollievo con cui l’ho fatto anni
prima.
Vengo da un paese dove una ragazza non può portare i capelli
corti perché sono da maschio, la convivenza prima del matrimonio è
peccato, l’omosessualità un problema genetico e l’ironia un arnese
da cucina come la leccarda o il colino: buona solo per cuocere o
filtrare.
Percorro la strada principale, alla mia destra scorrono immagini
di paese: i campi da tennis, il panettiere, la farmacia, il macellaio, il
benzinaio, la casa del benzinaio, la casa del cane del benzinaio, una
piccola fortezza di mattoni grigi; e finalmente la rotonda che mi
porta sulla via giusta. La piazza, i parcheggi diventati a pagamento
anche se non si ferma mai nessuno e la chiesa, con le sue mura
ridipinte costantemente di bianco per coprire le frasi dei graffitari
del paese. La costeggio e svolto a sinistra nel cortile del palazzo
dove trovo gli archi che conducono all’atrio interno, fino
all’ascensore. Mai preso: sono l’unica claustrofobica della famiglia.
Scendo dall’auto e, mentre estraggo il trolley dal baule, sento due
mani che mi prendono le spalle e le ruotano di centottanta gradi.
“Violina!” dice Algisa, amica di famiglia, confidente e babysitter,
che mi ha fatto trascorrere un’infanzia felice nella sua vasca da
bagno quando in casa mia era permessa solo la doccia.
“Non mi chiamano più così dalla seconda media.”
“È morto qualcuno e io non l’ho saputo?”
“Mi avrebbero avvisato.”
“Neanche zia Geggia che ha preso il fuoco di sant’Antonio?”
Allargo le braccia.
“Neanche il cugino di tua mamma che gli hanno messo due
bypass?”
“Spero di no.”
“E allora perché sei tornata, gioia, ti serve un fucile?” dice
stringendomi le guance con le sue mani rovinate dalla candeggina.
Algisa non sopporta la presenza di macchie sulla biancheria.
Sorride, dietro le lenti da otto millimetri che ingrandiscono il suo
mondo fatto di risate sincere, con la gola aperta pronta a scatti
potenti composti da un’unica vocale: la A. Io sto in silenzio: non
riesco a trasmetterle quel senso di casa che negli anni ho ricevuto
proprio da lei. L’affetto gratuito mi paralizza.
“Sto andando al mercato, mi accompagni? Prendiamo un po’ di
pesce fritto, poi ce lo mangiamo con i peperoni che ho fatto ieri a
Michele, che poi alla fine non li ha neanche digeriti… Ma perché gli
hanno fatto un bendaggio gastrico. Amen, comunque possiamo
andare a trovare la zia Giuseppa che neanche lei sta bene,
poverina… Lo sai che ha scoperto di aver preso un fungo? Nella sua
vasca da bagno! Le farà così piacere vederti, tra l’altro oggi
dovrebbe passare di lì sua nuora, la Claretta, te la ricordi la
Claretta? Ogni pomeriggio veniva a suonarti il campanello e tu
dalla finestra le dicevi: ‘Cazzo vuoi?!’ Che bella gioia che eri…”
Mi tocca i capelli per spegnere il mio ciuffo al gel e dice: “Dovresti
farli crescere, sei una signorina ormai.”
Mi dà un bacio con lo schiocco che risuona nel cortile,
richiamando l’attenzione di due gatti che passano di lì.
“Vado a fare un po’ di cose,” dico raccogliendo valigia e borsa.
È una frase chiave, in grado di aprire qualsiasi possibilità di fuga.
“Ah giusto, giusto,” dice alzando le mani in segno di rispetto, o
difesa.
Il portone è aperto, come sempre da trent’anni a questa parte, ma
è comparso un cartello scritto a mano da mia madre.
“Abbiate pazienza, chiudete ogni tanto. SOPRATTUTTO TU, ALGISA.”
E capisco tutto
Il palazzo dove vive la mia famiglia è stato fatto costruire da
Nevio, il mio bisnonno. È il più alto del paese perché lui aveva
manie di grandezza e non si è mai preoccupato di deturpare il
paesaggio. Deve essere stato questo senso di vertigine a non portarci
mai in una di quelle ville dagli spazi adeguati agli imprenditori
come noi. O forse è solo merito di mio nonno Valdemaro che spara
colpi penalmente perseguibili dal terrazzo all’ultimo piano. La sua
amicizia con l’intera caserma dei carabinieri del paese gli
permetterebbe di passare liscia anche una rapina a mano armata.
Il palazzo ha sette piani: il primo è occupato da Algisa, al secondo
ci sono i signori Magri, due anziani con una quantità di nipoti scout
che supera una confraternita, a cui piace vincere la noia appiccando
piccoli focolai. Al terzo c’è mia zia Vanella, detta Nella, sorella di
mia madre, fervente cattolica impegnata a litigare con Erminio, suo
marito, fanatico di calcio e scommesse. Hanno un figlio: Rivaldo,
vent’anni e la personalità tipica di chi s’infila nel mezzo di una coda
per saltare l’attesa e cercare di vendere, a chi è prima di lui, biglietti
falsi dello stadio per vedere l’Atalanta. Il quarto piano è occupato da
Uto, fioraio del paese, e il quinto è diviso in due: da una parte c’è la
sala per le riunioni condominiali, gli happening o i nascondigli di
Pier il postino, che vive nell’appartamento accanto e si rifugia lì
quando vuole fumare un sigaro senza che Rosi, sua moglie da
quarant’anni, gli ricordi che tutti i componenti della famiglia hanno
avuto almeno un infarto nella vita. Il sesto e il settimo piano sono
della mia famiglia.
All’uscita dell’ascensore incontro un ragazzino in pigiama con un
fazzoletto annodato al collo che sorregge un MacBook sopra la sua
testa: è alla ricerca di una connessione wireless. Mi lancia un
“buongiorno” e prosegue per le scale. Ho qualche esitazione prima
di entrare, immagino i miei parenti schierati davanti all’entrata, in
attesa di palpeggiarmi e poi ignorarmi con lo stesso amore.
Sul divano a due posti dell’ingresso, trovo un gatto bianco e grigio
che mi guarda e poi si gira per mostrarmi la coda o la sua
noncuranza. La radio della cucina trasmette un pezzo di Bob Dylan,
è il preferito di mio padre: Lay, Lady, Lay. Seguo le note e scopro che
è vuota, come il corridoio e il soggiorno. Salgo le scale interne e
passo davanti alle stanze da letto: sono aperte e pulite, con la luce
che si fa largo tra le tende color crema. Nella mia le serrande sono
abbassate, al centro della stanza c’è una pianola a cui mancano dei
tasti, uno stendibiancheria pieno di calzini e la cuccia di Don, il
nostro bassethound sempre annoiato. Accanto al letto, coperto da un
paio di sacchi trasparenti dentro cui intravedo qualche mio vestito,
c’è un’asciugatrice in funzione. La mia scrivania, invece, è stata
trasformata in un piano di appoggio per la collezione di orologi di
mio padre. Abbandono la valigia e vado alla ricerca di qualcuno che
mi dia una spiegazione.
Il resto è come l’avevo lasciato, perfino l’ordine per altezza dei
vasi in cotto sul mobile dell’entrata e i libri di poesia accanto alle
riviste di caccia, sopra la cassettiera del corridoio. Non ci sono
fotografie, tracce di vacanze, compleanni, momenti rapiti per
sbaglio dalla carta di una macchina usa e getta. La mia famiglia
vive per sottrarre tutto ciò che il resto del mondo si sforza di tenere
vivo: i ricordi. Mi viene in mente lo sguardo di Olivia mentre parla
con qualcuno, sempre diretto nel punto più in basso sulla sinistra,
alla ricerca di immagini da riportare in vita.
Entro nella sua stanza e guardo il letto a castello, le pareti sono
ricoperte di poster dei Beatles e sopra il comodino c’è un piccolo
riquadro di legno in cui risalta il bianco e nero dell’unica fotografia
di casa: le mani di Jorge Louis Borges appoggiate al suo bastone.
Esco e mi dirigo all’ultimo piano, in terrazzo: l’unico luogo per cui
provo nostalgia. In fondo al corridoio c’è la scala a chiocciola che
conduce alla porta, sempre chiusa inspiegabilmente a chiave tranne
oggi.
“Cristo santo, nonno!”
Valdemaro Vento mi sta puntando addosso un Winchester calibro
22. Ha appena compiuto ottant’anni e non mi fido della sua mira.
“Violentina!” dice lasciando cadere l’arma sull’avambraccio.
Mi viene incontro, mi stringe. Sento l’acciaio della canna contro la
spalla.
“Quando sei arrivata?”“Adesso.”
“Cosa mi racconti?” dice appoggiando il fucile sul tavolo sotto il
gazebo.
“Dove sono tutti?”
“Non lo so mica, questi qui mi lasciano sempre solo…” dice
infilando uno scovolino nella canna dell’arma.
È difficile capire se gli dia più gioia far esplodere un fagiano o
vedere il piccolo straccio imbevuto di olio diventare scuro dopo il
terzo passaggio nelle cavità dell’arma.
“Vado a cercare la mamma.”
“Aspetta, non vuoi vedere come balla?” dice richiudendo la
culatta.
“Magari un’altra volta.”
“Tua sorella ne ha vendute una barca. Vero, Don?”
Il cane si avvicina stancamente alle sue gambe.
“Ci vediamo per cena?”
“Ragù di cinghiale.”
Si gira verso il cielo: è in posizione di sparo.
Quando chiudo la porta alle mie spalle, sento un applauso a più
mani arrivare dal basso e capisco tutto.
La seduta è tolta
Non c’è una sedia libera nella sala riunioni, le ultime file sono
occupate da quindici ragazzini con gli scarponcini e quel maledetto
fazzoletto annodato al collo. Alcuni sono impegnati a scrivere sullo
schermo del loro MacBook, le tecniche di costruzione di una zattera;
altri seguono le braccia di mia madre: l’amministratrice di
condominio. Nonostante gli impegni, non ha mai rinunciato al suo
passatempo preferito: controllare le vite degli altri. I suoi gesti sono
ampi e ripetitivi; non aiutano le parole, distraggono, la rendono
protagonista al posto del discorso. Sta proponendo ai condomini di
costruire una piscina che occupi metà parcheggio, con una scala
esterna collegata al terrazzo del primo piano, quello di Algisa, per
prevenire il desiderio dei ragazzi di fare balconing. Tutti alzano la
mano per chiedere cos’è il balconing e per dare il proprio consenso,
tranne l’unica interessata: Algisa è al mercato a comprare il pesce
fritto. Il secondo argomento riguarda il timer di accensione e
spegnimento della luce delle scale. Pier, il postino, chiede di
allungarlo per permettergli di arrivare in casa, al quinto piano,
senza prendere l’ascensore. Mia madre gli impone di cronometrarsi
e fare una stima dei minuti necessari.
“Se superi i sette rimani al buio.”
“Allora mi abbassate la quota delle spese.”
“Paghi già il minimo.”
Lui sbuffa sotto i baffi neri e sua moglie Rosi, una sessantenne con
la passione per il ricamo e il rimprovero, gli tira una gomitata.
“Vediamo se ti tengo via ancora le raccomandate…” sussurra Pier
a mia madre che lo guarda come si fa con un bambino quando
protesta: un mix letale di disapprovazione, arroganza ed elusività;
uno sguardo che ho sentito addosso da piccola e mi faceva correre
nella fessura tra i divani del soggiorno disposti ad angolo. Lo stesso
sguardo che, qualche anno dopo, mi ha colpito in viso quando ho
detto che sarei andata via di casa e non avrei lavorato nell’azienda
di famiglia.
Mia madre ha sempre avuto una profonda conoscenza delle
tecniche di radicamento del senso di colpa; lo faceva entrare in ogni
stanza e lo corteggiava come un ospite gradito. Gli permetteva di
dormire nel mio letto e, nonostante sperassi che durante il giorno se
ne andasse per le strade del paese, la notte lo ritrovavo sempre lì,
come una coperta fredda. Io lo dicevo a mia madre, ma lei non la
toccava. Ho dormito per anni nel gelo.
L’ultimo argomento di discussione riguarda il punto 10bis del
regolamento condominiale redatto da mia madre e da Uto il fiorista.
È muto; alcuni dicono per timidezza, altri per boria, ma Uto non ha
mai avuto granché da dire: gli piacciono le margherite e per
comunicare con gli altri usa i fiori. Il nostro terrazzo è pieno di
cactus.
All’esterno del palazzo sono stati installati altoparlanti che
trasmettono musica per le professioniste del pettegolezzo, alle
quattro di ogni pomeriggio il portico di casa diventa un centro
congressi. La proposta ha la voce roca della signora Magri che si
alza in piedi per leggere il suo foglio delle richieste. Vuole
aggiungere alla compilation delle cinque Forever per sempre di
Marcella e Gianni Bella, La vita è molto di più di Pupo e Per tutte le
volte che di Valerio Scanu. Le alzate di mano sono poche: bocciata.
Ho un attacco di starnuti, sono capace di farne quindici di fila,
anche se il mio record è diciassette. È un’allergia allo starnuto
stesso, genetica e problematica, soprattutto perché si girano tutti e
mia madre si accorge di me.
“È arrivata Lina!” urla facendo partire un applauso poco
spontaneo. Lina è la variante di Violina e ricordarlo mi fa starnutire
ancora di più.
“Avanti, avanti!” m’invita a raggiungerla in cattedra.
Io cammino con un fazzoletto appiccicato al naso per porre fine
alla lacrimazione e tutti pensano che sia commossa.
“Saluta questa massa di anziani,” dice stringendomi le spalle.
Mia madre ha mani forti, mani che sollevano scatoloni,
sorreggono fucili a canna liscia, dita che sventrano animali e cuori
sensibili.
Ho sempre pensato che chi ha a che fare con carcasse di animali
abbia una conoscenza più superficiale dell’interiorità: si aprono
corpi e forse ci si dimentica di guardare dov’è l’anima.
“Voi non ve lo ricordate,” dice strofinandosi le mani nei
pantaloni, “ma la nostra Lina è la doppiatrice di una famosa attrice
americana: Angelina Jolie, quella che sta con Brad Pitt, per
intenderci, e ogni volta che andate al cinema e sentite la sua voce,
non è la sua voce vera, ma quella della mia Lina che, diciamocelo, è
anche più bella.”
Smetto di starnutire e sorrido, è l’unica cosa che mi resta da fare
quando mia madre esce dal suo ruolo per diventare il mio ufficio
stampa.
I condomini sanno già tutto di me, mi hanno vista crescere e poi
andarmene, come quasi tutte le mie sorelle. L’unica rimasta è
Virginia, la più stimata venditrice della Vento e Vivi Armi: la nostra
azienda.
Ogni famiglia del palazzo possiede una doppietta con incisioni a
mano per due motivi: perché siamo generosi e perché “il concetto di
eleganza sta tutto in una bascula calibro 36”, sostiene Viviana, mia
madre, l’amministratore delegato. Anche se, penso io, in un paese di
poco più di seimila abitanti nel cuore della pianura padana, il
massimo del rischio è che sbaglino a darti il resto nella bottega
dietro casa.
Le campane della chiesa iniziano a suonare per il rosario del
sabato mattina e un ragazzino di otto anni, nell’ultima fila, si sente
in dovere di sottolineare il fatto con una bestemmia. La sua
catechista, mia zia Vanella, entra in quel momento e perde i sensi.
La seduta è tolta.
La brava figlia che non hanno mai avuto
“Sei arrivata giusto in tempo, domani c’è il battesimo di Olmo,”
dice mia madre che mi precede sulle scale.
“Chi è?”
“Il figlio di tuo cugino.”
“E perché non chiamarlo Orto o Orso…”
“Alle nove c’è la messa, poi abbiamo il pranzo alla cascina
Correnti, ci siamo stati l’altra settimana con Valter e la Piera,
abbiamo mangiato così bene…”
“Io non vengo.”
“Tu non darai un altro dispiacere alla tua famiglia,” dice
spalancando la porta di casa con uno dei suoi gesti indelicati di cui
non sentivo la mancanza.
“Non torni mai, non chiami mai e quando ci sei ti neghi.”
Ed eccolo di nuovo, il senso di colpa che s’infila nel nostro
appartamento.
“Perché c’è un’asciugatrice accanto al mio letto?”
“C’è il ragù di cinghiale per cena,” dice togliendo dal frigo tre chili
e mezzo di carne macinata.
Un gatto bianco e grigio si fa largo tra le mie gambe che bloccano
l’entrata; mia madre si accuccia e lo accarezza sotto il muso, in
attesa che si stenda sul pavimento.
“È Patù,” dice massaggiandogli la pancia, “si nascondeva dietro la
porta del garage dei vicini. Tuo padre starnutisce solo a vederlo, e
Don non se lo fila, ma a me vuole bene.”
Per mia madre l’affetto è una questione di ricezione.
“Vado a fare una doccia.”
“Sei qui per il biglietto di Olivia, vero?”
Mi volto, la guardo.
“Sei qui solo per quello?”
“Non accendere l’acqua calda in cucina, per favore,” dico rubando
una Galatina dal cesto dei dolci.
“Perché tu credi che si farà viva?”
La domanda mi accompagna per le scale. La ripete tre volte
mentre scarto la caramella e assaporo il gusto della mia infanzia.
Papàle comprava ogni sabato, le metteva nel vaso di vetro accanto
al telefono e non era difficile distrarlo per finirle tutte in un giorno.
Prendo una maglia pulita dal sacco sul mio letto ed entro in uno
dei nostri bagni. Mi spoglio lentamente, perché non riconosco gli
spazi che toccavo a memoria, con sicurezza. Gli appoggi e i gesti
automatici se ne sono andati con la lontananza.
Nell’armadio degli asciugamani c’è ancora quello con il mio nome
scritto in corsivo accanto al disegno stilizzato di una lupara. M’infilo
sotto l’acqua bollente e cerco di non pensare ai buoni motivi per non
essere qui, ma loro si presentano nella mia testa sotto forma di
foglio Excel, per non farmi sbagliare riga.
1. Nessuno va d’accordo con nessuno.
2. Non c’è intesa, affinità intellettiva né fisica, ci tocchiamo ma è
come se avessimo a che fare con bambole di cera, pronte a
sciogliersi alla prima fiammata di livore.
3. Nessuno chiede scusa, ma ognuno se lo aspetta, anche quando
non serve.
4. Sono tutti invadenti.
Il punto cinque scompare con un soffio di vento freddo: qualcuno
ha aperto la porta.
“Di secondo preferisci lo spezzatino o il brasato?”
“È primavera mamma. Prendo un’insalata. Esci per favore.”
Invece si avvicina e sbircia tra i vetri appannati della doccia. “Sei
magrolina, ti faccio un po’ di polenta?”
“Potresti uscire per favore?”
Obbedisce e mi spegne la luce. La sua non è cattiveria, è
disattenzione.
Io urlo, ma lei è già sulle scale. In casi come questi la prima cosa
da fare è pentirsi di tutto: essere in questo posto in questo preciso
istante. Poi però bisogna trovare una soluzione, anche con il viso
insaponato.
Quando riesco a farmi passare il bruciore, la luce torna, insieme a
un’altra folata di aria fredda.
“Quante cazzo di volte ti ho detto di non spegnere la luce quando
c’è qualcuno nella stanza.”
“Ciao zia Violetta,” dicono due voci nasali rotte dal rumore di
piccoli saltelli sul pavimento bagnato.
Sono i figli di mia sorella più grande. Naomi, dieci anni, nata dal
primo matrimonio con un imprenditore bergamasco ed Eros, otto
anni, nato dal secondo con un produttore televisivo. Le loro voci si
portano dietro qualcosa di inquietante: proibizioni, promesse non
mantenute e desideri inespressi.
“Ciao mostri,” dico mettendomi un asciugamano intorno al corpo
prima di aggredirli fisicamente. “La mamma dov’è?”
“Boh.”
Naomi si rovescia sulle mani mezzo barattolo di Nivea.
“È vero che conosci Angelina Jolie?” mi chiede Eros incastrato nel
bidet con le gambe penzoloni.
Li prendo entrambi per le maniche delle loro T-shirt Armani
Junior e li accompagno fuori, cercando di non rimanere nuda.
“Andate a dare una mano alla nonna,” dico chiudendo la porta.
In casa esistono doppioni di chiavi per ogni ingresso o cassetto,
perché fin da piccole i nostri genitori ci hanno insegnato a
proteggerci. Ed è andata così: abbiamo imparato a difenderci da
loro.
“Lina!” sento urlare dal basso.
Il punto della tabella che era svanito ritorna.
5. Nessuno mi chiama mai con il mio vero nome.
Mi vesto chiedendomi il perché.
Raccolgo la crema che Naomi ha abbandonato sul pavimento e mi
pettino i capelli come la brava figlia che non hanno mai avuto.
Solo in televisione
La penultima notizia del telegiornale parla di ponti e festività:
dove andare e perché. Le SPA più costose al mondo e cinque motivi
per passare almeno un giorno a nuotare nel fango. L’ultima
riguarda l’argomento di conversazione preferito dalle professioniste
del pettegolezzo: il tempo. I meteorologi impiegano dieci minuti per
consegnare al pubblico la loro rivelazione: quest’anno la primavera
sarà caratterizzata da piogge e temperature miti.
Da metà scala ho un campo medio sul soggiorno. I protagonisti:
Eros, Naomi, mia sorella, i miei genitori e Algisa. Gli adulti
mangiano M&M’s e i bambini le tirano addosso a Don che si è
appisolato sotto la finestra. Non vengono rimproverati perché mia
sorella è impegnata ad alzare il volume del talk show La mia Vittoria
quotidiana. Alla partenza della sigla mia madre inizia ad applaudire
insieme ad Algisa che unisce il pianto al battito di mani. Mio padre
invece si volta, mi vede e posa il dizionario etimologico, oggetto da
cui non si separa mai. Lo aspetto all’ultimo gradino e lascio cadere il
peso del mio corpo sul suo petto. Lo stringo forte per tutto il tempo
del balletto introduttivo del programma, sulle note di Tiziano Ferro
con E Raffaella canta a cui sono state cambiate le parole in E Vittoria
parla.
Mi mette una mano al centro della schiena, in corrispondenza del
cuore. Una conferma di ciò che vorrei sentirmi dire da tempo: che
sono la sua preferita. È una cosa stupida da figlia stupida, lo so. Ma
non lo lascio andare. Mi prendo il primo abbraccio di casa e cerco di
scacciare quella sensazione che mi fa odiare mia sorella più grande
quando si gira verso di noi per dire: “Ti abbiamo chiamato mille
volte! L’hai vista questa puntata?” Papà allenta la presa, la
timidezza precede e segue ogni sua azione.
“Ciao Vittoria,” dico scendendo l’ultimo gradino.
“È quella in cui rivelo la presunta relazione tra un attore e un
regista famoso. È un’esclusiva,” dice scandendo le parole, poi si
volta verso il video.
“La tua presenza non è sufficiente? Bisogna vederti per forza
raddoppiata?”
Lancio un’occhiata complice a mio padre.
“Sembro grassa. Non è vero mamma? Quando parlo il mio collo si
allarga troppo. Vero mamma?”
“Sei bellissima,” dice mia madre aspettando che Algisa la incalzi
con un: “Sì, sei proprio una bella gioia.”
“Bambini! State guardando la mamma in televisione?” continua
Vittoria.
“Ma perché sei qui e anche lì?” chiede Eros.
“Perché la mamma ha i super poteri scemo di uno scemo,” dice
Naomi, “e se non stai zitto ti fa sparire.”
Ha una risata tra il satanico e il nevrotico.
Eros scatta in cucina piangendo e Vittoria impone a Naomi di
seguirlo.
“Ma non è mio fratello al cento per cento!”
“Hai ragione amore, lo è al cinquanta, ma per questo non merita
di soffrire,” dice mia sorella senza staccare gli occhi dal primo piano
di se stessa.
La bimba si alza, ma non va in cucina, sfila davanti a me e papà
con un vestito di maglia troppo aderente per le sue forme. Siamo noi
a raggiungere Eros che sta ingurgitando pezzi di gelatina. È un
bambino in sovrappeso, come la sorella. Se fossero amati
dimagrirebbero? Quando torno a casa mi chiedo sempre se sia
l’affetto a restituire la giusta forma alle cose, o a distruggerle.
Mi fermo sulla porta; mio padre invece si siede per terra, accanto
a suo nipote, con la schiena contro il frigorifero. Gli asciuga il volto,
poi prende una gelatina e la mastica piano, vincendo il suo odio per
tutto ciò che è indefinito e inconsistente.
In pochi minuti il petto di Eros smette di sussultare. Quando anche
la fame compulsiva si placa, la sua testa bionda si appoggia al
braccio di papà. A lui non sono mai servite le parole, ha sempre
agito con gesti di amorevole silenzio e a me non è bastato: ci sono
momenti in cui si ha bisogno di un urlo; di altra natura, ma simile
come potenza, a quello che arriva dal soggiorno. È finita la prima
parte del programma di Vittoria. Mia madre si complimenta con lei,
ma non è in grado di trovare sinonimi, per rinforzare qualcosa deve
ripeterlo infinite volte. Algisa invece fa domande: “Ma ti truccano
loro? I vestiti sono tuoi? Hai tutto scritto o dici quello che vuoi? Cosa
fai durante la pubblicità? Ma se ti scappa la pipì?”
Mia sorella rimane in silenzio, non è portata per dare risposte.
“Chiedi subito scusa a tutti, Eros,” dice entrando in cucina con un
paio di decolleté da ottocento euro.
Il bimbo sposta gli occhi verso di lei, ma le sue sopracciglia
rimangono all’ingiù.
“Hai disturbato una cosa importante della mamma. Adesso vai a
chiamare tua sorella e lavati le mani.”
Lui si alza e le passa accanto.
“Mi perdoni?” dice sfiorandole l’abito.
“Ci sto pensando.”
I nostri genitori sono turbati, io no. Vittoria è una madre
indulgente e amorevole, ha sempre una lacrima di riserva per gli
argomenti delicati e la sua frase preferitaè: “Lo so bene, sono una
mamma anch’io.”
Sì, ma solo in televisione.
La verità con il vestito da sera
Durante il primo pranzo di famiglia, Vittoria fa l’elenco di tutte le
celebrità che ha intervistato; Eros sputa gelatina addosso a Naomi e
mia madre passa la maggior parte del tempo nella sua posizione
naturale: in piedi con le mani impegnate.
“Chi stai chiamando?” mi chiede distribuendo le tazzine.
“Niente caffè per me,” rispondo irritata, perché il telefono di
Olivia è irraggiungibile: l’aggettivo più adatto alla sua personalità.
“Che bello che sei tornata Violina,” dice mio nonno per distrarre
sua figlia e mettere un cucchiaino di zucchero in più nella tazza
ancora vuota.
“Massimo come sta? Viene a trovarci?” dice mia madre cambiando
la tazza di suo padre con quella di Vittoria.
“A proposito,” dice mia sorella frugandosi nelle tasche per tirare
fuori il suo dolcificante dietetico, “quando arriva la voce di Johnny
Depp?”
“Non credo che ci raggiungerà.”
Controllo la posta in entrata del BlackBerry per sperare in una
sua email.
“Poco male, preferiamo sentire la sua voce piuttosto che vederlo,
visto che non è proprio come Depp, ecco.”
A mia sorella piace finire le frasi così: in sospeso tra una cattiveria
e l’altra.
“Ecco, cosa?”
Faccio scorrere il dito sulla piccola sfera al centro del telefono.
“È un bel ragazzo invece,” interviene mia madre sollecitando con
lo sguardo un commento del nonno, che arriva puntuale: “E anche
bravo, l’ultima volta mi ha aiutato con le volpi.”
“Eros si è addormentato,” dice mio padre entrando con il suo
passo silenzioso. Mamma gli versa il caffè e io mi chiedo come
possano amarsi da più di trent’anni. Mi chiedo come mio padre
possa amare una donna che non si siede, non inciampa, non esita,
non perdona. Mi chiedo come possa amare una donna che nella sua
vita ha fatto solo due cose: figlie e armi.
“Chiuso, chiuso!” dice una voce che arriva dall’ingresso.
Penso al portone, alle battaglie scritte e verbali della mia famiglia
per impedire a ladri immaginari di portarsi via le fondamenta del
palazzo. Virginia entra in cucina con una valigetta di pelle di
coccodrillo e l’atteggiamento di chi deve sempre convincere
qualcuno. Il tailleur scuro e il rossetto color mattone non fanno che
confermare il suo ruolo all’interno dell’azienda: responsabile del
settore commerciale.
“Siamo ricchi,” dice fermandosi sulla soglia.
“E siamo anche felici?” dico io.
“Allora?!”
Mia madre va incontro a Virginia che ha nel sangue, e nel nome,
il senso del melodramma.
“Hanno firmato: cinque pezzi della linea King’s Speech da spedire
entro mercoledì, pagamento a trenta giorni, e omaggi della duchessa
inclusi. E quest’anno saliamo a centoquattro pezzi unici solo per il
Regno Unito.”
Urlano entrambe e saltano sul posto: hanno chiuso un contratto
come molti altri, ma pensano sia l’unico modo in cui debbano
andare le cose. Non si rendono conto delle condizioni in cui versano
le aziende che ci circondano, come quelle rilevate dai turchi, o quelle
che vendono rubinetti. Nel terzo millennio, sparare è diventato più
importante che lavarsi le mani.
Mio padre le guarda con gioia, mentre Vittoria è disgustata dalla
consapevolezza che, per qualche minuto, la macchina da presa
dell’attenzione non sia su di lei. Naomi le chiede se può andare in
terrazzo, la risposta è no; lo sarebbe stata anche se avesse chiesto di
riordinare la sua stanza.
Vado al piano superiore. Mi segue Don che, con le unghie sul
parquet, fornisce una colonna sonora alla nostra passeggiata. Prima
delle scale incontriamo l’altro animale di casa: Patù ci guarda e ci
ignora. Quando arriviamo in camera si accuccia sul suo materasso al
centro della stanza; io sposto il sacco dal letto, prendo l’iPad, vado
su Internet e compongo: www.ventoevivi.com
Nell’homepage appare l’immagine di mia madre. È nel suo ufficio,
porta una camicia bianca dalle maniche rimboccate e pantaloni neri
che scendono stretti fino a un paio di ballerine. I tacchi per lei sono
sempre stati una perdita di tempo.
A ogni spostamento del mouse i fucili che imbraccia cambiano
modello e forma, finché una scritta svolazza sopra la sua testa:
Armonia di Vento. Se clicco due volte, una brezza leggera trasforma
l’ufficio in un bosco e il puntatore del mouse diventa un mirino che
conduce a due sentieri: Vento di oggi e Vento di ieri. Scelgo il
secondo e trovo la foto di mio nonno, vestito in frac con Don
accucciato ai suoi piedi. Cliccando sulle parti del corpo, appare la
http://www.ventoevivi.com
storia di famiglia divisa in tre aree: la mente, il cuore e le braccia.
Interrompo la navigazione dopo aver notato che il racconto inizia
con la frase “C’era una volta” abbinata alla foto dei miei bisnonni
gemelli Nevio e Nievo, fondatori dell’azienda nei primi del
Novecento.
Scrivo un’email a Olivia, a caratteri grandi:
SPERO CHE IL TUO BIGLIETTO NASCONDA QUALCOSA DI RIVOLUZIONARIO PER TUTTI NOI.
PER LA CARITÀ DI UN DIO QUALUNQUE, ARRIVI?!
Mi firmo con una semplice V, un angolo acuto pieno di durezze,
come la mia famiglia, che per imposizione del bisnonno Nevio, ha
una V in ogni nome fino alla quinta generazione.
Ogni volta che lo racconto a qualcuno, mi viene in mente il film V
per vendetta: l’immagine della protagonista e del suo assassino
mascherato è inquietante quanto l’amore di mia madre per la ricerca
dei nomi da dare ai vecchi modelli di carabine.
Mi alzo per cancellare l’immagine virtuale dei miei famigliari e ne
cerco una che mi restituisca un po’ di verità. La trovo passando
davanti alla camera dei miei genitori: mio padre, disteso sul letto,
immobile, con una smorfia più vicina al sorriso che alla serietà del
sonno di alcuni padri di famiglia. Non ho mai capito se sia la sua
espressione da riposo o da pensiero. Non m’importa se sta fingendo,
è quello che cercavo. È la verità con il vestito da sera.
 
Cose del mio mondo: strumenti musicali che non ho mai saputo suonare. Cose più piccole:
lancette che girano e non possono essere modificate. Cose infinitamente più piccole: punti e
virgole, segni lasciati dal mio bulino. Dettagli. Detail, o in francese détail, una parola composta
da de e tailler: tagliare, dividere, separare.
Ho passato la vita a incidere metalli e guardare i dettagli per capire se potessero trasformare
un pezzo d’acciaio in qualcosa di vivo.
Invece sono finito in una famiglia il cui fine era opposto. Io, che ho abbellito coltelli senza mai
usarne uno se non per radermi.
Lavoro otto ore al giorno da quando ho quattordici anni, da quando il maestro incisore
Battista Pendenti mi ha preso nella sua bottega come apprendista. Ne ho lavorate il doppio
quando mi sono messo in proprio, prima che una grande azienda mi assumesse. Lì le ore
diminuivano, ma era la noia a riempirle. Così me ne sono andato, ho ricominciato con le mie
sedici ore. Da solo, ma libero. Finché una mattina venne da me Valdemaro Vento, proprietario
della Vento e Vivi. Mi diede una fotografia di sua figlia e mi chiese di incidere il suo volto su
un’antica carabina. Qualche anno più tardi quella donna diventò mia moglie. E il mio lavoro. E
molte altre cose.
E così tornai alle mie otto ore, in un laboratorio a pochi passi da una casa piena di armi. Fucili
da incidere e cose da non toccare. Le case dei ricchi hanno sempre qualcosa da lasciare in
pace.
Stanze che avrei dovuto sentire mie, ma che non lo sono mai state. A volte mi chiedo se
anche le mie figlie si sentano così.
Sono arrivate. Sono qui, vicino a me; o molto lontano, dipende da come le guardo. E non so
perché, ma preferisco guardarle a occhi chiusi.
8 GIORNI PRIMA: DOMENICA
Il sonno
Algisa si sveglia alle 6.45, apre le imposte e si affaccia alla
finestra per battere il tappeto. Due piani più in alto c’è la signora
Magri che fa gli stessi gesti e, quando abbassa gli occhi, incontra la
domanda della sua vicina: “Hai sentito chi c’è morto?”
“Chi?”
“Ninì.”
“Oh Signur.”
“Eh sì, un colpo.”
“Ma quale Ninì?”
“Il fratello della Pulce.”
“Quella che sta vicino alla chiesa delle Capitoline?”
“No, quella è laTinta, la sorella del Gino, che anche lui…”
“È morto? Non ho mica sentito le campane.”
“È in ospedale, chemioterapia. È in stanza con la Bigia.”
“La cugina coscritta della Pulce?”
“Quella è Luisella, ma è morta due settimane fa.”
“Ma pensa… Sono stata due giorni da mia nipote e me la sono
persa.”
“Tua sorella come sta?”
“Ha il marito che non sta bene.”
“Artrite?”
“Peggio.”
“Vene varicose?”
“Peggio.”
“Cancro?”
“Cataratta, non può più vedere la tivù.”
“Povera gioia…”
“Lo sai invece chi sta per morire?”
“Chi?”
“Il figlio della Dorina.”
“Di cosa è malato?”
“Epatite.”
“Ma dove l’ha presa?”
“Ha fatto il Passo del Tonale.”
“Quanti anni ha?”
“Eh… giovane…”
“Ha l’età del fratello del fruttivendolo.”
“È del ’21?”
“Eh sì… giovane poverino.”
Alle 6.58 suonano le campane a morto.
“Sarà il Gino?” dice Algisa spingendo gli occhiali sul naso.
“Il Gino o la Bigia, chi era più malato?”
“Lui ha già avuto un ictus.”
“Lei però era in coma.”
“Ci vediamo davanti alle carte da morto?”
“Tra cinque minuti.”
Alle 7.00 il condominio si sveglia. Il bollettino dei morti ha sepolto
il sonno.
Foto di famiglia
La famiglia è schierata all’ingresso di casa: Vittoria, con una
scollatura da bordo piscina, sta raccogliendo i lunghi capelli biondi
di Naomi in due trecce; Eros gioca con la Playstation portatile e fa
palloncini con il chewing-gum senza aspartame che mia sorella gli
mette in bocca fin dal mattino per non farlo mangiare. Il nonno
indossa l’abito della domenica: blazer blu e papillon. È appoggiato
allo scaffale accanto all’entrata e sta sfogliando Il maneggiamento
delle macchine d’artiglieria. Virginia è in cucina con nostra madre a
bere il quarto caffè della mattina e a discutere sull’organizzazione
del prossimo torneo di tiro all’elica, mentre mio padre è in
soggiorno, davanti al televideo, per controllare il risultato di Inter-
Roma.
“Ha perso,” dice infilandosi la giacca del completo. “Due goal e un
rigore fallito.”
“Ecco,” urla mia sorella. “Bambini, dovevate andare a confessarvi
ieri, ve l’avevo detto.”
Strappa dalle mani la Playstation a Eros che inizia a
piagnucolare.
Virginia e mia madre ci raggiungono per mettere in scena un
siparietto consolatorio ai danni di Eros che non le sopporta, lo
dimostra il suo sguardo, molto vicino a quello che usano gli attori
quando stanno per pugnalare qualcuno. Anche il nonno cerca di
sdrammatizzare con il suo “dai, dai, su, su,” mentre papà apre la
porta con cinque mandate di chiave, toglie l’allarme del perimetro
interno ed esterno, e finalmente possiamo andare alla messa di don
Cosimo, il parroco del paese. È siciliano di origine, ma interista di
fede calcistica e non confessa quando la sua squadra del cuore perde
in casa.
Ho la nausea, ho voglia di fumare, forse di urlare. La mia giornata
è iniziata con delle fitte all’addome a cui non ho dato importanza,
poi mi sono messa le scarpe basse lucide e un gilet nero che ha
suscitato l’antipatia generale per il mio lato maschile da esibizione.
Anche i pantaloni sono neri, come il trucco per nascondere le
occhiaie e far risaltare le pupille scure. Ho gli occhi piccoli, come
quelli di mio padre che si nascondono invece di aprirsi al mondo. Al
contrario di quelli azzurri di mia madre che nelle foto da giovane
assomiglia a Lauren Bacall, ma più bella e appariscente. Mio padre
non ha niente a che vedere con Bogart, sembra Philip Roth, ma
senza la sua ripetitività nello scrivere. È un artigiano, non usa le
parole, parla con le mani: incide metalli. Io ho preso il peggio da
entrambi. Il mio fascino è racchiuso in quelle cavità interne che
vibrano quando emetto un suono più che uno sguardo. Forse è per
questo che le mie relazioni sono sempre state molto telefoniche.
“Ciao lesbica,” dice mio cugino di primo grado, che attendeva
qualcuno da infastidire dietro lo spioncino della porta.
“Ciao Rivaldo, che ci fai ancora qui?”
“Siamo in ritardo?” chiede infilandosi la camicia nei pantaloni.
“No, pensavo che fossi dentro per furto, spaccio o sfruttamento
della prostituzione.”
Lui esibisce un dito medio che ignoro. Sono quasi a piano terra,
dove ritrovo Virginia. È bella. È lei che ha preso da mia madre, è lei
la figlia di Lauren Bacall, e mi abbraccia. È bella e ha l’odore del
dulce de leche argentino, ma non porta il profumo, è la sua naturale
dolcezza a renderla così antipatica. Se fosse una ragazza del college,
tutti farebbero la fila per accompagnarla al ballo o passarle i
compiti sotto il banco. Io che sono sua sorella posso solo
sprofondare nella mia philiprothitudine.
“Mi sei mancata Violina,” dice scompigliandomi i capelli a cui mi
ero sforzata di dare una forma.
“Che combini?”
“Mi sposo.”
Mi coglie di sorpresa e non riesco a dire nulla. Virginia, oltre a
essere bella e profumata, è anche una donna di marketing: brava a
vendersi e attenta a lasciarsi comprare solo dal miglior offerente. I
suoi standard sono sempre stati troppo alti per chiunque, finché non
ha trovato Carlo Zeni, della Zeni Armi. Il suo corrispettivo, ma più
potente.
“Non dire niente per favore,” dice sorridendo solo con la bocca.
Non posso chiederle perché, Vittoria arriva alle nostre spalle, ci
spinge verso il portone e dice: “Sono già tutti in chiesa, non
facciamoci riconoscere, che poi dicono che ce la tiriamo perché
abbiamo una VIP in casa.”
Ci basta uscire dal cortile e percorrere una stradina in discesa per
raggiungere il centro storico del paese valorizzato dall’ampio
sagrato, dove sono stati immortalati i baci di tutti i novelli sposi
della famiglia Vento. Sulla facciata sinistra è comparso l’ultimo
lavoro dei graffitari, il disegno del viso di don Cosimo con la scritta:
“Non avrete altro don all’infuori di me.”
“Stai bene?” mi sussurra mio padre.
“Sì,” dico sorridendo come se avessi ricevuto un complimento.
Chiudo gli occhi e cerco di recuperare l’equilibrio perso a causa di un
abbassamento di pressione.
Resto vicina a lui mentre la folla avanza verso l’entrata della
chiesa. La voce scintillante di mia madre manifesta la gioia vanitosa
di chi si sente superiore alle persone che la circondano.
Stringo mani, bacio guance, dico ovvietà che si trasformano in
sussurri perché la cerimonia è già iniziata: don Cosimo non aspetta
mai il silenzio.
La chiesa ha mezzo tetto scoperto, alcuni operai sono al lavoro
nella parte di ponteggio sospesa sopra l’altare con cavi invisibili che
sorreggono i loro corpi. Si spostano cercando di non fare rumore,
anche perché don Cosimo interrompe la messa per lanciare loro
occhiate poco rassicuranti.
“Se lavoro io potete farlo anche voi, in rispettoso silenzio,” deve
aver detto per convincerli a sgobbare nel giorno in cui anche il
Signore nostro si riposa.
Il piccolo Olmo dorme quando gli viene versato un litro di acqua
santa in testa. Io me ne sto in piedi, a contatto con il muro freddo.
Mi aiuta a mantenere un po’ di lucidità per seguire la teatralità
artefatta della messa. Dopo aver spezzato il pane, don Cosimo alza
il calice proclamando le parole di rito. A seguire arriva il silenzio del
pathos cattolico, ma quando gli occhi di tutti sono puntati verso la
coppa piena di un ottimo rosso della Franciacorta, un piccolo
oggetto precipita dall’alto. La corsa è breve, la destinazione sacra: il
sangue di Cristo. Il liquido rosso sobbalza sul naso del prete, i
ragazzi del coro si portano le mani alla bocca, qualcuno grida al
miracolo, altri sgranano gli occhi, i bambini ridono, i genitori
impallidiscono, ma il don rimane immobile. Posa il calice, si pulisce
il viso con il tovagliolo santo, afferra il microfono e, con gli occhi
all’insù, dice: “Dio dà e io tolgo. Amuninne arriminamunne, che poi ci
vediamo.”
Nello stesso istante, Terzilia, la più anziana del paese con i suoi
novantotto anni di funzioni religiose, mi sorprende alle spalle.
“A me mica mi piace tutta questa messa in scena.”
Guardo la superficie uniforme della sua cotonatura grigia.
“Insomma, non è divertente.”
“Sono d’accordo, è una vergogna assolutamente ingiustificabile.”
Mi fa segno di avvicinarmi. Sarebbe capace di darmi uno schiaffo
peravermi vista ridere.
“Tu che sei nell’ambiente, fagli vedere come si fa il cinema a
questi qui.”
“In che senso?”
“Ma perché non ci porti un bel coro gospel?”
Forse ho capito male.
“Se ci fosse anche una squadretta di ballo? Un po’ di
movimento…” dice scuotendo le spalle in modo preoccupante.
Forse ho capito male.
“Altrimenti che gusto c’è?!”
Le prometto che ci proverò e mi allontano: sta iniziando la
comunione, non posso tirarmi indietro, mia madre tiene d’occhio
tutti i membri della famiglia per assicurarsi che il Corpo di Cristo
entri nelle loro bocche e le riempia di grazia. Mi metto in fila
davanti a tre ragazzini. I primi due si avvicinano al prete per
ricevere l’Ostia disponendo le mani in modo da indicare i due goal
che l’Inter ha preso in casa. Il terzo, invece, all’affermazione: “Corpo
di Cristo,” risponde: “Baciamo le mani, don Cosimo.”
Inizio a starnutire e nel frattempo cerco di riconquistare il mio
posto accanto all’entrata: devo trovare il modo di andarmene senza
farmi vedere da mio nonno che si aggira per la chiesa con le mani
dietro la schiena importunando chiunque gli dia attenzione. Ha un
problema di iperattività e oggi è irritato perché la domenica è
giorno di caccia, non di messa.
Di solito non abbandona mai la riproduzione della vecchia
doppietta che si porta in spalla quando percorre le strade del paese
in motorino. Nel bauletto aperto dietro di lui c’è il bassethound che
da sette anni è uscito dal ruolo di cane da caccia per immedesimarsi
in quello di cane tediato dall’esistenza.
Ho stampato in mente il ritaglio di giornale affisso accanto
all’entrata di casa, l’ho letto così tante volte che lo conosco a
memoria:
IL GAZZETTINO DELLA PROVINCIA
Cane spara a cacciatore
Santa Priscilla (Brescia), 6 giugno. Valdemaro Vento, presidente
dell’azienda di armi Vento e Vivi, ha rischiato la vita a causa del suo
cane, un bassethound dal pelo corto, che durante una battuta di
caccia è salito sopra il fucile calibro 22 lasciato incustodito accanto a
una preda, e ha fatto partire un colpo che ha quasi sfiorato la nuca
del suo padrone.
“Volevo ricordarvi che domenica prossima la chiesa sarà pronta”,
dice don Cosimo interrompendo i miei ricordi di famiglia.
“Festeggeremo la nostra santissima Priscilla,” dice gettando
un’altra occhiata ai due operai.
Il capo del coro chiama un applauso seguito dall’ultima canzone,
indispensabile per accompagnare l’uscita dei fedeli. Io sono già
fuori, a guardare la piazza dove sono cresciuta, chiusa in un cerchio
perfetto di alberi secolari sui quali mi è sempre stata vietata
l’arrampicata selvaggia. Sotto i portici, le serrande abbassate della
pizzeria La chiave, in omaggio alla passione di Mirco, il proprietario,
per l’opera omnia di Tinto Brass. Un cartellone appeso accanto
all’entrata indica le proiezioni del weekend sul megaschermo
interno: venerdì film evento con Salon Kitty, sabato sera calzone
farcito, bibita e Tra(sgre)dire a 8 euro, mentre domenica sconto su
pizza mari e monti con visione del film Miranda.
Il sagrato si è riempito di parenti che festeggiano l’entrata di
Olmo nella sua vita cattolica in cui potrà peccare e sentirsi in colpa
fino alla fine dei suoi giorni. Lui non sembra accorgersene, continua
a dormire nonostante i sobbalzi di sua madre che vuole fotografarlo
con gli occhi aperti. “Perché sono blu come i miei, è ovvio, ha preso
tutto da me,” dice il padre, un cugino di terzo grado che è sempre
stato innamorato di Virginia e ha passato metà cerimonia a
guardarla.
Vittoria firma autografi, Eros gioca con i piccioni e Naomi ha quel
broncio tipico di chi cresce addomesticato. Ripesco nella mente una
serie di scuse progettate negli anni e stipate nel cantiere dei “no,
grazie”: non voglio andare al ricevimento, e mentre penso a una
strategia, mia madre mi passa Olmo che apre gli occhi per la prima
volta sollevando un “oh” generale. Mi guarda: ha il naso piccolo e
perfetto, le labbra appena pronunciate, di un rosa che sembra essere
stato inventato alla sua nascita. Le mie braccia si ammorbidiscono e
il suo corpo cede nella forma che creo per lui. Tutti si stringono
attorno a me lanciando gridolini di piacere, mia madre mi prende il
mento e lo solleva verso l’obiettivo di una macchina fotografica a
qualche metro da noi, poi arriva il suono dello scatto: la mia prima
foto di famiglia.
Qualche metro a piedi
Quando passa dalla seconda alla terza, mio padre stacca la mano
dal cambio per posarla sulla mia gamba. I suoi gesti sono
conversazioni. È il linguaggio del tocco e delle intenzioni che
spiegano tutto solo a chi è in grado di comprendere le pause tra i
suoni. Le parole appartengono a mia madre, pronta allo scambio
d’opinioni di cui custodisce sempre la ragione. Sul sedile posteriore
ci sono zia Nella, la sorella di mia madre, zia Nives, sorella di mio
nonno e Naomi al centro. Eros ha voluto restare con Vittoria anche
se è stato ricoperto d’insulti perché in chiesa, nel fare il segno della
croce, si è toccato i genitali provocando una risata di massa tra i
nipoti scout della signora Magri.
“Come va il lavoro?” mi chiede mio padre mentre le zie fanno il
terzo grado a Naomi sul mondo della televisione.
“Benissimo.”
Lui gira la testa per guardarmi. Un’occhiata che interpreto come
un invito a dire la verità.
“Abbastanza bene,” mento lanciando lo sguardo oltre il finestrino,
oltre le case basse della campagna padana, oltre i campi che stanno
per cambiare colore, oltre la linea che separa la mia regione dalle
altre. Poi lo fermo, per non perderlo, e lo riporto sulle mani di mio
padre che disegnano un’onda sui miei pantaloni. Annuisce
spostando il capo avanti e indietro, ma io so dove vuole arrivare: la
trama di ogni famiglia con un ottimo reddito e tanti posti di lavoro
si ripete. Me lo sento, sta per offrirmi un impiego, quindi lo
anticipo: “Hai un sogno ricorrente?”
Gli angoli delle labbra si spostano verso sinistra: sta pensando.
“Dai, racconta.”
“È imbarazzante.”
Riesco a tirarglielo fuori dopo dieci minuti.
“Bruce Springsteen.”
“Prego?”
Sospira.
“Sono seduto al tavolo del mio laboratorio e accanto a me
compare Garry Tallent che mi prega di unirmi alla E Street Band.
Dice che non possono fare a meno di me. Lo ringrazio, cerco di
ignorarlo e me ne vado, ma poi in strada incontro Stevie Van Zandt
che mi canta: ‘I just want to hear some rhythm! I just want to hear some
rhythm!’ e mi chiede di andare con loro in turné. Io resisto, ma
quando arrivo in cortile trovo Bruce che mi dice: basta Giacomo, il
tuo futuro è il rock.”
“Interessante.”
Annuisce concentrandosi sulla strada.
Sposto lo sguardo verso il finestrino e rimango a fissare le
immagini del paesaggio, finché entriamo nel viale alberato che ci
conduce alla cascina dove si terrà il ricevimento. Mio padre rallenta
e poi mette la retromarcia per parcheggiare, ma un motorino
sfreccia davanti a noi e si infila nell’unico posto libero. C’è il nonno
alla guida, dietro di lui don Cosimo, che scende con un balzo, si
toglie i Ray-Ban dalla montatura chiara abbinati al suo colletto da
prete e benedice l’aria che avvolge la cascina.
Non ricordo l’ultima volta in cui mio nonno e mio padre si siano
scambiati un’opinione. Non parlano, sono coinvolti in una di quelle
guerre che mio padre vince con facilità: quella del silenzio. Non ho
mai capito il motivo e non sono qui per scoprirlo, visto che me ne
andrò presto.
All’entrata del ristorante il mio sguardo incontra quello di una
ragazza dai tratti familiari che posa un vassoio pieno di calici per
corrermi incontro. Io stiro le labbra in orizzontale facendo scorrere
mentalmente il foglio Excel dei parenti di cui non ricordo il nome.
Risultato ottenuto: tutti. Cambio foglio, prendo quello delle
conoscenze di vecchia data e controllo ogni riga mentre lei si
avvicina.
Elementari, medie, superiori?
“Dio mio, Viola,” dice abbracciandomi.
“Dio mio davvero.”
Resisto al contatto fisico non gradito.
Oratorio, catechismo, coro della chiesa, discoteca, videoteca?
“Mi avevano detto che eri in fin di vita, pensavo non ce l’avessifatta.”
“Scusa?” dico stracciando i fogli Excel, dato trovato: figlia della
professoressa di matematica, terza liceo. Ottimi voti in matematica,
pessimi in tutte le altre materie. Scuola abbandonata l’anno
successivo per dedicarsi al ramo turistico.
“La scorsa estate non sei stata ricoverata?”
“Per una gastroenterite.”
“Sì, ma in India!” dice arricciando il naso. “Adesso stai bene?”
Mi tocca la pancia e io faccio un salto all’indietro, come se fossi
stata sfiorata dalla lama di un coltello.
Ripeto: i ritorni danneggiano gravemente la salute.
“Non si sa mai come si esce da quei posti,” dice riprendendo il
vassoio. “Non sarai mica diventata buddhista?”
Mi chiedo se sia meglio correre in bagno o direttamente in
macchina, per muovermi lentamente verso la linea di confine del
mondo, fermarmi sull’orlo del dirupo e sperimentare la sensazione di
vuoto per un po’. Ma quando guardo il posto che mi è stato
assegnato, penso che per raggiungere quel precipizio mi basta
percorrere qualche metro a piedi.
Il buio che si solleva dalle acque
Il rito del rimpatrio prevede, per imposizione di mia madre, che si
passi tra i tavoli a salutare i parenti. I loro obiettivi sono due: farti
domande senza aspettare di ascoltare una risposta o lanciarti
addosso le loro nevrosi.
Decido di visitare un tavolo alla volta, dopo ogni portata, per non
bloccare la digestione di colpo.
Il menù:
Culatello di zibello con le sorelle di mamma.
Zia Severa, responsabile amministrativo, mangia mollica di pane
per tenere lontana la nicotina e mi dice: “Ho un bravo
commercialista tra le mani, ti interessa?”; zia Vilma, capo delle
risorse umane, usa il sale in modo compulsivo e chiede: “Secondo te,
raccontare qualcosa di personale, compromette quello che sei?”; zia
Vanella, catechista, mi accoglie con un sorriso: “Non mi hai ancora
detto che metodo anticoncezionale usi.”
Sono presenti anche i mariti delle prime due: Dionigi e Camillo
fanno scorrere le dita sui rispettivi iPad sincronizzati in una partita
ad Angry Birds. L’assente è Erminio, marito della catechista e
impiegato nel ramo commerciale. È in Birmania a vendere fucili a
chi pratica la non violenza. “Torno subito,” dico.
E mi dileguo.
Maccheroncini allo stracotto d’asino con le cugine di primo grado.
Vanessa, ingegnere meccanico con le unghie laccate di rosso, mi
guarda e dice: “Ti ricordavo più slanciata, ma forse sono i pantaloni
a vita alta a deprimerti”; Veronica, responsabile del controllo
qualità, cerca di zittirla peggiorando le cose: “Porta rispetto per chi
guadagna il doppio di te lavorando la metà.”
Dalla parte maschile del tavolo arriva solo un commento, è
Bernardo, il marito di Vanessa che le sussurra: “Sei sexy quando sei
cattiva.” Veronica si aspetta lo stesso commento dal suo compagno,
ma Jacopo sta componendo un disegno sul tavolo con le briciole di
pane, è un cappello degli alpini. “Buona continuazione,” dico.
E scompaio.
Assaggio di pizzoccheri al tavolo dei divorziati.
“Come va nel cinema?” mi chiede Rosvalda, fanatica dei proiettili
Remington Copper Solid in lega di rame.
Inizio a esporre le mie teorie sulla crisi del settore. “Dove hai
preso quella giacca?” mi interrompe.
“L’ho rubata a Virginia.”
Appena ricomincio lei si alza per raggiungere mia sorella e farsi
dare i contatti del negozio.
C’è una cugina che avevo cancellato dalla memoria: Livia,
responsabile delle materie prime, l’ennesima donna impiegata in
azienda, quasi fosse un requisito fondamentale per avere accesso al
mondo del lavoro. È in avvicinamento, ma io mi lascio trascinare
via da Gustavo, il cugino di terzo grado più eclettico che ho: laureato
in fisica, produttore di birra e pittore. “Chiudi gli occhi cugina,” dice
accompagnandomi verso le vetrate che danno sul giardino.
“Immagina di essere in uno di quei quadri di Friedrich, con il buio
che si solleva dalle acque e ti lascia sola, in controluce…”
“È un invito ad annegarmi consapevolmente?”
“Pensa invece che ogni goccia diventi il tocco di Pissarro nelle sue
giornate di sole, con i contadini al lavoro che si staccano da terra
per salire su un carro di Chagall e vivere capovolti,” dice fermandosi
sulla soglia del portico. “Il mondo, così, non sembra messo peggio di
te?”
Lo abbraccio. “Si può sapere come fai?” dico rannicchiandomi su
una panchina.
Lui sorride e svia il discorso: “Ti fermi a casa per un po’?”
“Friedrich o Chagall?” dico alzando solo la testa; il resto del corpo
è impegnato a inseguire delle piccole fitte che danzano intorno
all’ombelico. “In ogni tela c’è un punto di fuga.”
Prende in braccio sua figlia Zelda. Ha sette anni, l’ultima volta
che l’ho vista ne aveva appena compiuti due e aveva perso sua
madre da poco. Quando Zelda gira il viso verso di me, ritrovo la
morbidezza del suo sguardo, e mi chiedo quanto sia forte, in un
genitore, il desiderio di ritrovare i propri lineamenti in quelli dei
figli.
“C’è la fantasia di bolliti,” dice zio Vanni con il suo accento
marcato. Gustavo rientra con sua figlia sulle spalle, io mi alzo,
barcollo e mi accascio: vedo il buio che si solleva dalle acque.
 
Dolore
Il buio diventa ombra e poi luce: un rettangolo si allunga sul muro
verde, un verde che si trova nei manicomi o nei corridoi
dell’emittente televisiva dove lavora Vittoria.
L’odore di disinfettante è più piacevole del profumo che arriva dal
polso di zia Nella, quando mi tocca la fronte. È seduta accanto al
mio letto, sta recitando il rosario. Mi chiedo se stia pregando per
me.
Sono stesa su un fianco, verso la finestra dell’ospedale in cui mi
hanno portato, nel paese accanto a Santa Priscilla. Sento dei bisbigli
tra cui ritrovo le voci di tutte le persone che non vorrei vedere. Non
riesco a distinguere le parole ma ne riconosco i colori: sono freddi.
Quando mi giro per alzarmi li vedo, schierati come giocatori di
rugby in attesa di una danza propiziatoria per sconfiggere il nemico.
“Ci fai sempre preoccupare, Violina,” dice mia madre rompendo le
righe per venirmi incontro. Gli altri continuano a fare commenti
sottovoce.
“Sto meglio,” dico ignorando il braccio che mi offre come
appoggio. Cammino davanti a loro senza ascoltarli e m’infilo in
bagno. Mentre faccio pipì cerco di ritrovare la strada della realtà.
“Tutto bene?” dice mia madre bussando alla porta.
Perdo ancora sangue.
“Lina?”
Sono libera, penso.
Non è colpa mia, penso.
“Violetta?”
Mi chiedo se quel loro modo di storpiare i nomi derivi dalla
necessità di darmi la forma che vogliono.
Esco e li guardo, sono sparsi come chicchi di riso. Mi assaltano le
guance con le loro guance: i baci del Nord. Le voci si
sovrappongono, come i sorrisi e l’affetto distaccato di chi non ti
conosce nemmeno a metà.
“Il medico dice che è tutto a posto.”
È sempre mia madre a parlare delle questioni ufficiali. Mi siedo.
“Cosa?” dico ad alta voce, a me stessa.
Vittoria si avvicina per prendermi il viso, come fa con i suoi figli
quando le devono prestare attenzione.
“Congratulazioni sorellina, ti insegnerò a diventare come me: una
mamma perfetta.”
Sposto gli occhi poco più in là, verso Eros e Naomi, seduti per
terra, a litigarsi la Playstation; poi passo sopra le scarpe di tutte le V
della famiglia: Vilma, Severa, Rosvalda, Valter, Veronica, Vanessa,
fino a raggiungere le mani di mio padre, nascoste come pietre nelle
tasche. Sollevo lo sguardo, incontro il suo e aspetto di vedere
qualcosa di più di un’espressione empatica. Non arriva e per
l’ennesima volta mi chiedo perché. Lo abbandono e torno al fuori,
cercando di spostare l’attenzione, come faccio sempre quando è
troppo difficile essere me.
Penso alle villette di paese dove sembra chiusa a chiave la felicità,
o la desolazione. Penso alle strade innevate su cui mi sdraiavo per
ore.
I piccoli centri vivono di assenze: lo spostamento dei suoi abitanti
in un luogo immaginato, lontano dalle terre da coltivare, dai
marciapiedi di cui si conoscono le impronte, dai muri che
trattengono pensieri e vapore acqueo. Quando mi volto sono spariti
tutti, tranne mia madre.
“Torniamo a casa,” dice prendendo la mia

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