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«Noi donne ci siamo, per così dire, emancipate, abbiamo
conquistato la libertà di scegliere, nel lavoro, nell’amore, nella
vita. Ma a che prezzo? Siamo davvero più felici? E soprattutto,
rendiamo più felici le persone che ci sono affidate? Non è che per
caso femminismo, rivoluzione sessuale e battaglie per la parità
hanno finito per lasciarci più sole e tristi? Per rispondere a queste
domande, dobbiamo liberarci dagli schemi della rivendicazione e
capire quale grande privilegio sia l’essere femmine, destinate
dalla natura ad accogliere la vita, chinandoci su di lei, in qualsiasi
forma si presenti alla nostra porta. E quale grande avventura
possa essere per noi diventare spose e madri, accanto all’uomo
con cui possiamo arrivare a diventare una carne sola. Non sto
mica parlando della casalinga anni Cinquanta: le tante donne che
ho avuto la fortuna di incontrare - donne realizzate spesso anche
nel lavoro - hanno percorso strade difficili, perfino drammatiche,
eppure ne sono emerse straordinariamente capaci di vita, capaci
di speranza contro ogni ragione. Mi hanno insegnato che essere
felici è possibile, ma richiede un lavoro; che si può pure andare
dove ci porta il cuore, ma poi bisogna chiamare il cervello perché
ci venga a riprendere, e ci porti in un luogo segreto, dove si mette
in moto una vita più feconda e piena. Quello che ho imparato da
queste amiche vorrei insegnarlo alle mie figlie, adesso che ancora
mi ascoltano: poi - credo sia questione di minuti - saranno
adolescenti e sarà troppo tardi.»
COSTANZA MIRIANO
COSTANZA MIRIANO ha quattro figli, un solo marito ed è giornalista
alla Rai. Per Sonzogno ha pubblicato Sposala e muori per lei
(2012), Sposati e sii sottomessa (2013) e Obbedire è meglio
(2014).
Costanza Miriano
Quando eravamo femmine
Lo straordinario potere delle donne
Della stessa autrice nel catalogo Sonzogno
Sposala e muori per lei
Sposati e sii sottomessa
Obbedire è meglio
In copertina: illustrazione di Giulia Amadei.
Design di copertina: tapiro.
Copyright © 2016 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione digitale 2016
ISBN 978-88-454-9758-2
www.sonzognoeditori.it
ebook@marsilioeditori.it
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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QUANDO ERAVAMO FEMMINE
A Lavinia e Livia,
ai loro fratelli Tommaso e Bernardo,
e soprattutto a mio marito
Indice
Copertina
Abstract - Autrice
Frontespizio
Della stessa autrice - Copyright
Esergo
Introduzione. Nobili come vere donne
Il mistero della donna ovvero Spose dello Sposo
Essere figlie ovvero Lo sguardo del Padre
Essere donne ovvero A chi voglio piacere, io?
Essere spose ovvero Portare l’uomo alla grandezza
Essere madri ovvero Salvate dai figli
Del desiderio ovvero “Catholics do it better”
Della bellezza ovvero Sei bella dentro (ma è meglio se ti trucchi
un po’)
Della conciliazione lavoro-famiglia ovvero All’assalto, con
fantasia
Del sesso ovvero Adamo ed Eva dopo la pillola
Conclusione. Quando eravamo femmine
Bibliografia
file:///tmp/calibre_4.99.5_tmp_zfgiuotr/kxqx8m8c_pdf_out/OEBPS/Text/Copertina.xhtml
Introduzione
Nobili come vere donne
Non è da farne un dramma, è solo che arrivi a una fase della
vita in cui capisci che certi dadi sono tratti, non puoi più cullarti
nell’illusione che tutte le strade davanti a te, ammesso che ci
fossero davvero, siano ancora aperte, come era scritto sul poster
della Nike che ha ispirato la mia adolescenza, appeso in camera
da letto insieme a quello della Dorio che vinceva l’oro olimpico –
era il tempo in cui credevo a tutto – e agli altri di impresentabili
cantanti che non sono disposta a rivelare gratis. Ormai lo so: io
l’oro olimpico non lo vincerò (i pantaloncini uguali a lei però ce li
avevo), né sarò mai un magistrato, o una in grado di cambiare una
ruota, né una persona mattiniera, di quelle che sanno scegliere
con sicurezza una carta da parati prima di mezzogiorno (i negozi
di arredamento sono aperti il pomeriggio apposta).
Altre conquiste penso che le potrei raggiungere ancora, se solo
mi impegnassi. Potrei addirittura imparare ad arrivare puntuale
ogni tanto, indossare il reggiseno, limitare l’uso delle parole a
quanto richiesto dalle circostanze. Come fanno i miei figli, i quali
al mio «come va?», generalmente rientrando a casa, rispondono
emettendo una vocale a scelta e abbandonando le Adidas in
corridoio con un tonfo secco («Se ero morto non tornavo»
chiosano, quando proprio vogliono sfoggiare le lunghe ore
dedicate allo studio della retorica e sentirsi parte di un’élite
intellettuale). A me, invece, purtroppo la medesima domanda
scatena un insopprimibile impulso alla condivisione, o, più
precisamente, il dovere morale di elencare per filo e per segno
tutto quello che manca alla mia perfetta felicità. E siccome noi
siamo “infiniti quanto al desiderio”, come disse Dio a santa
Caterina da Siena, l’elenco di quello che manca a volte può
rivelarsi davvero impegnativo. Dipende sempre da quanto tempo
hai, incauto interlocutore che mi hai posto la domanda, o quanto
credito sul telefono. Ciò che mi impedirà di correggermi, temo, è
che ho tante amiche che riescono sempre a trovare un po’ di
spazio per me, anche in mezzo a un numero impensabile di figli e
lavori. Perché questa è la caratteristica di noi donne: la capacità
di fare comunque, in qualche modo, spazio a un altro, ascoltare,
accogliere, ricevere, anche quando sembra di non avere più
spazio interiore. Mi ascolta anche l’amica che torna dal turno di
lavoro, e quando la chiamo la trovo in autostrada che sta appunto
piangendo un po’, giusto per mettersi avanti col lavoro, in modo
da arrivare a casa già “pianta”, anticipando il ruolino di marcia
quotidiano. Mi ascolta quella con la figlia malata e quella senza
lavoro, e non mi mandano neanche a lumache, mai, neppure
quando io con le mie paturnie le derubo delle forze residue.
Conosco donne che hanno sempre un po’ di spazio da farti, le
orecchie in ascolto, la capacità quasi soprannaturale di chiamarti
quando ne hai bisogno, o di offrirti una mano quando stai sul
punto di servire un gin tonic alla prole per creare un clima disteso
e favorire una mediazione sulla questione dei posti sul divano che
ha provocato due graffi e tre seiunidiota. Ascoltano anche quelle
che si proclamano forti e indifferenti alle debolezze da
femminuccia, anche quelle che non sono amiche, perché la vita,
comunque, è il nostro core business, di tutte, anche quando non lo
vogliamo ammettere.
Ho incrociato, intercettato, a volte intrecciato le vite e le storie
di tante donne. Ci siamo raccontate la vita, magari solo un pezzo,
in pochi minuti o in anni di amicizia. Miracolosamente, io che
dimentico compleanni e pediatre, vado ai convegni il giorno dopo
e detengo il record mondiale assoluto di persona alla quale è stato
spiegato più volte, invano, il conflitto israelo-palestinese, io,
invece, me li ricordo questi racconti e, non so come, li associo
anche ai nomi e ai volti giusti, anche se ormai credo siano
diventati migliaia, anche se li ho solo sfiorati per qualche
momento. È che le storie delle persone mi interessano tantissimo,
per un motivo che non saprei esattamente in quale punto
collocare lungo quella sottile linea che congiunge una persona dal
cuore spazioso e accogliente a un’altra solo pettegola e curiosa.
Qualunque sia il motivo, le persone mi interessano. Il perché non
riesca maia ricordare quali vaccini ho fatto ai figli (ma è scritto in
un foglietto che sta nella scatola dei biscotti, mi pare) né dove ho
messo il telefono (forse non lo vedo perché ci sto parlando
dentro), mentre la storia che Francesca mi ha raccontato due anni
fa sia impressa a caratteri di fuoco nella mia mente, lo ha spiegato
benissimo sant’Agostino, e siccome non era una sua confidenza
personale ho dimenticato le parole precise. Il senso era questo:
impariamo solo quello che ci piace. Deve essere per questo che ho
tanti problemi con il router del wi-fi e i lettori xdcam: a me
interessano solo le persone, anzi, proprio non concepisco che
possa esistere qualcosa di inanimato, credo profondamente che la
stampante a volte mi guardi con disprezzo se perdo tempo su
Facebook, che le lampadine non si fulminino per motivi tecnici ma
si spengano per solidarietà quando sono triste, e che il lettore
mp3 in macchina salti non per le vibrazioni dei sampietrini ma
esattamente per ricordarmi che devo dire il rosario invece che
cantare a squarciagola con Eddie Vedder. (Comunque, signor
Vedder, se cerca una corista a lei devota e fornita di boa di
struzzo, anche se avanti con gli anni e stonata, io ci sono.)
«Tu che mai ti fermi nel riparare la vita» scrive Luce Irigaray,
filosofa della differenza francese, facendo eco, da tutte altre
premesse, a Edith Stein: «La donna è chiamata naturalmente alla
missione di sposa e di madre: essere sposa significa essere la
compagna che presta sostegno all’uomo, alla famiglia, alla
comunità. Essere madre ha questo senso: custodire la vera
umanità, difenderla e portarla al suo pieno sviluppo. La duplice
funzione di compagna delle anime e di madre delle anime non è
limitata agli stretti confini dei rapporti matrimoniali e materni, ma
si estende a tutti gli esseri umani che entrano nel suo orizzonte.»
È per questo che siamo così, e come scrive Luisa Muraro, non è
mica merito nostro. Non è che “siamo brave”, anzi, possiamo a
volte non esserlo affatto: «Essere donna è un privilegio, come
nascere nobile nelle antiche civiltà aristocratiche: puoi non
esserne all’altezza ma, come non l’hai meritato, così non lo perdi.»
È una filosofa femminista a parlare, quindi spero che nessuna
donna si offenda a sentirsi dire, leggendo nel suo Non è da tutti.
L’indicibile fortuna di nascere donna, che «diversamente da quelli
del sangue, il privilegio di cui parliamo si gode specialmente
nell’intimo di sé... non si specchia invece nelle graduatorie della
società e in società diventa visibile solo a sprazzi. In una donna la
grandezza c’era da prima, era sua da prima, non appariscente,
come un’avventura segreta, come un abito di tutti i giorni ma
disegnato da Valentino. Occorre però che lei accetti il suo
privilegio e lo coltivi, come hanno fatto i nobili in certe epoche e
in certi paesi». La donna risponde al bisogno di riconoscimento
che abita in ogni persona. Per la mamma, anche la più critica, è
comunque un bene che tu ci sia (se ha detto il contrario quando in
seconda liceo le avete messo in casa nove diciassettenni a cena
senza preavviso non vale, e comunque è caduto in prescrizione),
la tua esistenza ha valore per se stessa, ed è la mamma la prima a
dovertelo confermare. «Se una donna è presente» scrive la
filosofa femminista, «qualcosa di quell’antica relazione rivive e il
bene senza nome si riproduce» grazie a quello che lei è capace di
mettere in ogni rapporto, «una presenza intelligente, una
presenza comprensiva, una presenza generosa, una presenza
anche compassionevole. Avere uno sguardo compassionevole per
chi ha sbagliato e per chi è vittima di chi ha sbagliato.»
È nel fare questo, nell’imparare questo sguardo che la donna
scopre di essere se stessa solo in relazione, quindi grazie alla
persona che è nel bisogno, e di cui anche lei ha bisogno: «La
donna che diventa madre lo diventa in rispondenza a qualcosa che
fa la creatura già nel ventre materno. Già nel ventre materno
questa creatura sta facendo questo lavoro simbolico, con la sua
semplice presenza.» (Tutto questo era per ammantare di nobili
motivi il fatto che ieri ho quasi imboccato la Flaminia contromano:
stavo creando condivisione con una cara amica, per quanto non
sia del tutto escluso che stessimo parlando di diete proteiche.
Sempre condivisione è, e ci sono anche svariate encicliche che
spiegano quanto sia nobile. Se faccio un frontale parlando al
cellulare senza auricolare mettete in mano a mio marito una copia
della Mulieris Dignitatem, per favore.)
Ma perché le donne hanno tutto questo bisogno di
condivisione? Innanzitutto perché soffrono, in quantità industriale
– ce n’è anche da esportare –, e certi pesi non si portano da soli. E
cercare di capire perché soffriamo e come rendere feconda la
nostra condizione è il senso di questo libro (e amen, lo so. Così ci
siamo direttamente giocati i lettori maschi e tutte le donne che
hanno appena trovato un fidanzato o perso dodici chili, e sono in
un periodo troppo allegro per farsi certe domande). Guardo le mie
bambine, oggi che sono andata a prenderle dopo una giornata al
campo estivo, e una stava aiutando un’amica più piccola a cercare
i pinoli, dolce e rompiscatole come una mamma, mentre l’altra
stava vigilando sui suoi giochi che aveva prestato; era sulle spine,
anche lei come tutte noi, divisa tra il bisogno di pensare a sé e la
voglia di far stare bene quelli intorno. Riconosco già in loro i segni
di un cammino che dovranno fare, diverso per tutte ma comune a
tutte, e vorrei aiutarle, vorrei evitare loro ogni fatica, ogni
combattimento, ben sapendo, tuttavia, che oltre a non essere
possibile non è neanche giusto. Perché è il combattimento che ci
rende uomini e donne vere, esattamente come non si possono fare
i compiti al posto dei nostri figli, neanche quando questo ci
consentirebbe di piantarla lì e uscire a comprare
quell’urgentissimo golfino leopardato (tutto ciò che è leopardato è
per ciò stesso molto urgente).
Vedo le mie bambine e penso – e mi si stringe il cuore – alla
speciale dimestichezza che abbiamo con la sofferenza, una
frequentazione che ce la rende presto familiare, quasi amica,
perché noi sappiamo che serve a qualcosa, come quando andiamo
a farci bucare le orecchie, o tocchiamo il ferro da stiro con la
mano per sentire se è caldo, o smettiamo di respirare perché
cerchiamo di entrare nel vestito da sera con le stecche vintage
(cioè più precisamente ereditato dalla zia, ma come cavolo faceva
quella balena a entrare qui dentro solo qualche decennio fa?).
Forse sono solo piccoli preparativi per il parto, la sofferenza che
più di tutte serve a qualcosa, serve così tanto che dopo ci sembra
pure poca (dicendo questo ho rischiato svariate amicizie:
qualcuna, dopo, ha protestato per il mio incoraggiamento troppo
ottimistico. Non avevo precisato che te la dimentichi solo dopo un
po’, mica subito, di solito quando il “piccino” fa l’esame per
entrare alla Normale).
Comunque, anche se non puoi soffrire al posto dei tuoi figli, ma
solo guardarli dalla panchina mentre scendono in campo, puoi
fornire loro qualche dritta, ben sapendo che mostreranno di non
ascoltarti, invitandoti a sciallare (o a non agitarti troppo in altri
idiomi, a seconda dell’area geografica), eppure qualcuna delle tue
parole alla fine arriverà a destinazione. Scrivere loro delle lettere,
poi, non è che un disperato tentativo di patteggiare una pena
ridotta: a mio carico nei confronti delle bambine c’è una lunga
lista di pendenze, alcune delle quali forse di rilevanza penale (tipo
dimenticare di dar loro la merenda da portare in gita, permettere
loro di andare sotto il temporale in costume), ma almeno se c’è
una cosa che so fare – scrivere lettere infarcite di consigli non
richiesti – ecco, la voglio fare anche per loro. Non credo che
questo sarà sufficiente a farmi perdonare il fatto che mi dimentico
sempre i nomi dei loro cantanti preferiti, che ballo in modo
scomposto e rido piùsguaiatamente delle mamme normali.
Inoltre, visto che siamo in vena di confessioni, ammettiamo anche
che mi confondo i loro gusti – chi vuole la pasta senza parmigiano
e a chi non piace il salame? –, nascondo i telefoni dei ragazzi e poi
per ore, giorni a volte, non so più dove li ho messi (probabilmente
perché, mentre li sottraevo ai giovani cervelli per preservarli dalla
dipendenza dalla tecnologia, stavo mandando un messaggio. Va
bene, lo ammetto, forse non uno solo. Una tredicina-quattordicina
di messaggi). E se proprio devo dirla tutta, riconosciamo pure che
a volte sgrido la prole in modalità random, più in base all’altezza
del mucchio di panni da stirare, o al tempo trascorso dall’ultimo
pasto, che per la gravità dell’azione commessa. La linea
pedagogica risulta piuttosto influenzata anche dal numero di ore
dormite: la domenica mattina nulla può scalfire la pacata
autorevole serenità della figura di riferimento materna, mentre la
ricerca di un elastico alle 7.50 di un giorno feriale può ingenerare
una crisi isterica (qualcuno sa in quale punto del globo finiscano
tutti gli elastici persi da tutte le madri della terra?). Ecco, detto
questo, aggiunto quello che mi vergogno di dire e quello di cui
neppure mi rendo conto, non basterà un libro a farmi perdonare le
mie carenze – e gli eccessi – di madre, né basterà a proteggere le
mie bambine dal dolore. Però potrò dire qual è stata per me la
risposta, ciò che sta trasformando la mia ferita in feritoia da cui
far passare la luce. Perché quando trovi qualcosa che funziona ti
viene voglia di gridarlo a tutti (a meno che non sia quel posto in
divieto di sosta in cui fanno raramente la multa, un segreto che
tramanderò ai miei eredi solo sul letto di morte).
Oppure, sto cercando da tempo di capirlo e vorrei ragionarne
qui, può essere che non sia solo una questione personale, può
essere che il modello di donna che ci viene proposto oggi, quello
che va per la maggiore, non funzioni. Mi chiedo insomma se una
parte di questo dolore, o anche semplicemente fatica, possa
venire anche dalla monumentale difficoltà che fanno oggi le donne
nel rispondere alle domande sul loro ruolo, o più precisamente
dalla difficoltà di tenerli, i ruoli, tutti insieme.
Perché adesso che abbiamo conquistato, almeno da questa
parte del mondo, il diritto di avere tutto, siamo infelici lo stesso?
O addirittura più di prima? C’è qualcosa che le nostre madri non
ci hanno detto? Mentre combattevano per conquistarci dei diritti
preziosissimi, di cui non le ringrazieremo mai abbastanza e di cui
noi tutte beneficiamo, si sono perse qualcosa per strada?
Insomma, il femminismo ci ha fregate? Ed è solo quello il
problema? O c’è qualcosa di più profondo? Qualcosa che riguarda
ogni donna in ogni tempo, e che ha a che fare con le risposte alla
sua vocazione? Ma soprattutto, questa sofferenza nasconde o no
un mistero prezioso, una capacità di fare spazio, una fecondità
che può dunque trasformare il dolore in benedizione (perché alla
fine essere felici è quello che ci interessa)?
1
Il mistero della donna
ovvero
Spose dello Sposo
Mie inarrestabili figlie,
è colpa della vostra esagerata energia se la ginecologa, quando
mise le mani sulla mia pancia, con voi due dentro, esclamò:
«Senti! Non lo senti quanta vita c’è qui dentro? Due donne!» (No,
sento solo dolore alle gambe e incapacità di digerire anche una
camomilla.) Però è vero, c’era tanta vita. E più crescete più ce n’è
(fuori dalla pancia, fortunatamente). Io vi guardo, vi ascolto, vi
spio continuamente mentre non vi limitate a vivere con un po’
troppo entusiasmo ogni cosa – l’uscita di un film e la caduta
spettacolare di un fratello, una torta che per caso non mi si brucia
e un’amica che viene a casa, la merenda e la scelta di una
maglietta, la preghiera e il duello a spade laser – e lo fate dal
primo istante in cui aprite gli occhi – sempre troppo presto – fino
alla sera quando, ubriache di parole biascicate, chiacchierate fino
a svenire nel sonno. Voi, come ogni femmina che conosco, non vi
limitate a vivere, fate anche la telecronaca della vita.
Guardo con tenerezza a questo vostro bisogno di dare i nomi
alle cose, di ordinarle, ma soprattutto alla generosità con cui
vivete ogni secondo, alla voglia che avete, inconsapevole ancora,
di “riparare la vita”. Guardo a questa capacità di vita che avete.
Capacità nel senso, etimologico, di spazio per contenere.
Chiamiamolo grembo, utero, cuore, comunque sia è lo spazio
interiore che ha ogni donna di accogliere e “risistemare” ogni
cosa che la circonda. L’utero non serve a noi donne per vivere, è
inutile ai fini del nostro organismo, ma è indispensabile alla
nascita di una nuova vita. Chissà, forse anche voi un giorno sarete
chiamate a questo, a far nascere un bambino, e prometto che, per
quando sarò nonna, diventerò una persona normale. Oppure no,
chissà, questo regalo di diventare madri vi verrà negato, succede,
e sarete feconde in modo diverso. D’altra parte non si può certo
dire che le tante amiche nostre che sono sposate con Gesù, come
chiamate voi le suore, e quelle a cui figli naturali non sono venuti
non siano fecondissime: con un lavoro di scavo in profondità, e poi
di cesello, di pazienza, imparano a fare i conti con il vuoto del loro
grembo e lo vivono non come frustrazione o carenza affettiva, non
con senso di inferiorità, né tanto meno come qualcosa di inutile, o
al contrario come una perdita che le costringa a essere
supermaterne, accudenti al massimo nella speranza di essere utili:
guardo alle mie amiche suore e mi è chiaro che le loro viscere
materne, se sono donne consegnate a Cristo, le rendono grembo
per gli altri, fonti fresche di vita nella loro capacità di adattarsi
alle situazioni, accogliere, trovare soluzioni, mediare.
Penso a Luisa, che è così bella che neanche il suo abito riesce a
nasconderlo. D’altra parte, anni e anni di basket ad altissimi livelli
lasciano tracce indelebili, ed è così esageratamente brava in tutto
quello che fa, l’ingegnere e la suora (voi la vedete solo a messa,
ma lei col velo va anche in cantiere), che la gente è attratta da lei
come dal miele, e lei usa la sua bellezza per portare i cuori al
Signore, e generare alla fede non è certo meno che partorire. Ha
imparato a smettere di essere seduttiva, la nostra grande
tentazione, ed è libera nella sua bellezza pacificata, come belle
sono le sue consorelle Laura, che lavora nella comunicazione, e
Manuela, medico, e l’altra Manuela, che parla mille lingue: il loro
cuore è così fiammeggiante che se ti avvicini ti riscaldi, e voi lo
sapete bene, perché chiedete sempre di vederle, voi che avete un
radar sofisticatissimo per la falsità delle persone (come tutti i
bambini, e per di più bambini di razza femmina, i più implacabili
scovatori di finzione su piazza), e volete stare il più possibile
vicino a persone così belle.
Penso ad Antonella, che non è suora ma quasi, perché fa il
medico con dedizione monastica, e anche se non è mamma ha uno
sguardo così umano sui pazienti, che quando smonta dal turno di
notte spesso me ne scrive: sono sicura che li porta tutti con sé alla
messa della mattina, e alcuni riesce anche a seguirli nel tempo,
dopo che li ha dimessi (lo voglio anch’io il dottore che viene a casa
a chiedere come sto e mi porta la torta!). Antonella è innamorata,
per esempio, dei due vecchietti sposati da sessantadue anni, con
lui che le carezza i capelli e le chiude il golfino, e lei novantenne
che non esce mai di casa struccata (quanto alla moda, è come un
orologio fermo, se rimani lì dopo un po’ fa il giro e tu ritorni
attuale, quindi la vecchietta, come mi ha raccontato Antonella,
aveva un cappottino matelassé perfetto, probabilmente fatto fare
per festeggiare la vittoria di Bobby Solo a Sanremo). Non è certo
meno mamma di me, se trova sempre il modo di fare spazio a
qualcuno nella sua vita già completamente sold-out (ma si sa che
chi ha più impegni è sempre quelloche trova il modo di fare
qualcosa in più, ed è il motivo per cui se devo chiedere una mano
per prendere i figli a scuola la chiedo a Lucia, che avendone
quattro non farà tanto caso se nel mucchio ce n’è qualcuno in
più).
Guardo anche in voi, mie piccole quasi donne, questo spazio
interiore, questo vuoto. Lo guardo e lo riconosco, e tremo al
pensiero di ciò che potrà significare nella vostra vita. Perché
questo spazio e questa capacità, in definitiva questo profondo
potere, potrà essere usato bene oppure male: anzi, sicuramente,
mai solo bene e mai del tutto male. E per fortuna ci sarà poi chi
potrà scrivere dritto anche sulle vostre righe storte.
Persino tra le donne della Bibbia ce ne sono state di poco
rispettabili secondo i canoni comuni (diciamo che in parrocchia
non le avrebbero manco fatte leggere dall’altare, per capirci):
molte di loro, a parte la Madonna, non sono mica come le
immagina chi non le conosce, per non parlare di come vengono di
solito raccontate le sante, sempre ritratte tutte aureole e occhietti
acquosi al cielo, quando invece sono le donne forti per eccellenza
(Teresa d’Avila diceva alle sue suore «siate uomini») e hanno
lottato come leonesse combattendo la buona battaglia.
Quanto alle antenate dirette di Gesù, quelle proprio nella sua
genealogia, erano tipe niente male. Tamar voleva così tanto un
figlio che si fece mettere incinta dal suocero travestendosi da
prostituta (ed ebbe due gemelli!). Rahab era invece prostituta
proprio di mestiere – che, a questo punto forse ve lo devo
confessare, non significa proprio esattamente “baciare gli uomini
solo per soldi” come vi spieghiamo ogni volta che passiamo sulla
Salaria e ci chiedete come mai quelle signorine si facciano vedere
praticamente in mutande da tutti – ma tradì il suo popolo per
unirsi a Israele. Di Ruth vi ho raccontato tante volte: anche se il
marito era morto, rimase con la suocera volendole tanto bene e
aiutandola (e le suocere medie non sono simpatiche e discrete
come la nonna Mari), ma poi volle scegliersi a tutti i costi il
secondo marito, un ricco vedovo da cui riuscì a farsi sposare. E tra
le antenate di Gesù c’è anche la traditrice Betsabea: andò con il re
Davide che le aveva praticamente fatto ammazzare il marito,
soldato, mandandolo a combattere in prima fila. Donne non
proprio a modo, appassionate e fuori dagli schemi, ma che hanno
voluto a tutti i costi la benedizione di Dio sulla loro vita. Insomma,
non solo Dio non si spaventa delle nostre storie, non solo sa che
dentro ognuna di noi abita la pazza di casa che ogni tanto prende
il controllo, ma ha pazienza e inventiva, e sa sempre piegare al
bene il nostro male, se noi abbiamo il coraggio di farci
sorprendere: l’unica condizione è che gli chiediamo liberamente,
ma molto seriamente, di entrare nella nostra vita e di prenderne
lui il controllo. Dio sa che siamo capaci di cose grandi, lo sa
perché ci ha fatte lui, e nel progredire della creazione, che passa
dal caos alla bellezza del giardino (sempre separando: buio e luce,
acqua e terra, e infine maschio e femmina), la donna è l’ultima
creatura, quella in cui il progetto divino si fa più evidente. Lei è la
parola definitiva. E Dio (che evidentemente è maschio, sennò non
avrebbe messo la ritenzione idrica sulle cosce femminili) l’ha
posta davanti a sé e all’uomo perché fosse per lui come un
chiarimento (e non è vero, come sostiene il vostro babbo, che l’ha
fatta per ultima solo perché non voleva consigli da lei su come
fare l’uomo). Adamo si scopre davanti a un mistero quando si
sveglia (dai, vabbè, non rispondo alle provocazioni e non faccio
battutine sul fatto che l’uomo dormisse in quel momento come in
molti altri, tipo quando la moglie vorrebbe esporre più
diffusamente cosa intendesse prima esattamente con
l’affermazione «sono stanca», preludio a una lunga lamentazione,
e non, come pensava lui ingenuamente, a una dormita). Adamo
scopre che ha di fronte a sé una creatura stavolta non da
dominare come il resto del creato, ma un aiuto simile a lui, e
insieme non comprensibile fino in fondo. Lui si riconosce in lei, e
di fronte a lei lui capisce chi è. Ma in questo mistero, in questo
starsi di fronte, c’è anche una grande possibilità di male: la donna
può decidere di essere alleata dell’uomo – e questo permetterà ai
due di essere insieme fonte di vita – ma anche di distruggerlo; e
una donna che vuole distruggere un uomo saprà certo come farlo
(se non si è capito, sono contro la retorica del vittimismo
femminile divenuto di maniera). Se la donna capisce davvero
quale possibilità di grandezza c’è in lei, quando la mette al
servizio dell’altro, se la donna non usa i suoi radar potentissimi
per puntare l’uomo e sparare, se i due si uniscono davvero,
diventano alleati di Dio nel dare la vita, simili a lui addirittura! In
ebraico, mi hanno spiegato, uomo si dice ish: cioè aleph-yod-shin,
e donna issah, aleph-shin-he. Aleph e shin ci sono in entrambe le
parole, mentre quando si uniscono mettono insieme le lettere a
ciascuno mancanti: yod (dell’uomo, la terra da cui è stato fatto e
la sua capacità di dominarla) e he (della donna, il soffio dello
spirito, la sua maggiore apertura alla vita spirituale). Yod e he
sono precisamente le due lettere che compongono il nome di Dio!
Yahweh! Scusate l’esagerazione di punti esclamativi, ma questa
cosa che nell’unione fra uomo e donna c’è scritto il nome di Dio mi
sembra qualcosa di spettacolare, e più ci penso più scopro nuove
implicazioni in questa rivelazione. D’altra parte, che siamo a
immagine e somiglianza di Dio la Bibbia non lo dice quando parla
dell’intelligenza degli uomini, o della loro volontà, o del fatto che
abbiano l’anima. Dice che l’uomo è immagine e somiglianza solo
nel suo essere maschio e femmina. Deve esserci proprio un
intervento diretto soprannaturale se a volte riescono a mischiarsi
e incastrarsi così bene dei tipi così diversi. Lo avete visto anche
voi poco fa, no? Dopo due ore di Conte di Montecristo, che ho
sopportate cogli occhi chiusi per metà del tempo per non vedere
le botte e il sangue, Edmond e l’amata Mercedes si rivedono dopo
sedici anni e finalmente parlano, e io mi bevo ogni loro sillaba col
fiato sospeso e lui, il babbo, che fa? Si mette a parlare degli altri
film con James Caviezel. Stava zitto da due ore due. Mi chiedo
ogni tanto come facciamo ad abitare sotto lo stesso tetto. E
comunque io sono certa che vostro padre mi ami davvero (sotto la
seconda di reggiseno è vero amore).
Solo nell’unione tra maschile e femminile, alla fine, si
ripropone la dinamica trinitaria. Quel Dio, di cui uomo e donna
sono immagine, è uno e trino: «Come dal Padre procede il Figlio, e
dal Figlio e dal Padre lo spirito, così la donna è uscita dall’uomo, e
da ambedue discendono i posteri», come dice Edith Stein.
Non si può negare che in questo momento storico l’alleanza
uomo-donna in molti casi si sia rotta: non che ci sia stata in
passato chissà quale armonia, ma certamente possiamo dire che i
ruoli fossero più codificati, e non è detto che fosse sempre un
bene. Ben venga dunque la crisi – in senso etimologico “messa in
discussione” –, ben venga il tentativo di sfuggire a una dinamica
di dominio maschile e a tanti errori del passato. Ma certo non si
può negare che, a questo punto, ora che si sono per così dire
liberate (su questo torneremo), le donne debbano riscoprire la
loro vera bellezza, come è stata pensata da Dio: ottenuta una
libertà ora praticamente assoluta (almeno da questa parte del
mondo), adesso devono liberarsi da se stesse, dalle immagini e
dalle aspettative che da sole si fabbricano e si impongono. Siamo
noi le peggiori nemiche di noi stesse. Che voi, bambine, scopriate
la vostra vera, profonda bellezza è fondamentale, perché se c’è
una donna che funziona, tutto intorno a lei fiorisce. Al contrario,
una donna che non trova pace per le sue contraddizioni può
seminare il caos, la pazzia intorno a sé.
Adesso ascoltatemibene, mollate i colori e gli smalti e i
peluche di Dory e Mike Wazowski e cercate di seguirmi, perché
questa è una cosa importante, e mi piacerebbe riuscire a
spiegarvela. Dunque, dentro ognuna di noi coabita, insieme alla
donna generosa e accogliente che vorremmo essere, una signora
non esattamente equilibrata, che come sapete io chiamo la pazza
di casa (copyright santa Teresa D’Avila). La pazza di casa a volte
prende il comando delle operazioni. Per esempio è gelosa fino
all’ossessione (è lei che induce una donna sana di mente a
controllare tremando i messaggi del marito alla compagna di
classe racchia e noiosa, trasformata per un attimo in un incrocio
tra Claire Forlani e Christy Turlington – le mie rivali immaginarie
risalgono ormai a una quindicina di anni e quattro figli fa), o è
puntigliosa e rompiscatole in modo maniacale (solo voi che vivete
con me potete sapere che tragedia scatena l’errato
riposizionamento di uno strofinaccio nel cassetto non
corrispondente al protocollo casalinga calvinista, quella che mi
possiede di solito la domenica pomeriggio), si offende per un tono
sbagliato, ha degli attacchi di ansia insensata (pensavo di essere
un esemplare da competizione fino a che non sono salita in
macchina con Cristiana e il marito: lei gli ha cominciato a dire
«frena» automaticamente appena lui tentava di superare i 35
all’ora). La pazza di casa, che occupando più o meno spazio in
ognuna di noi, reagisce con fastidio alla scoperta che, nel suo
raggio d’azione, ci sia una donna più bella, più intelligente, più
brava o più qualcosa di lei, vuole sentirsi, se non l’unica al mondo,
almeno la migliore in assoluto, quantomeno nel suo ambito (una
quarantenne può anche accettare, in un attacco di onestà, di
avere la pelle meno turgida di una diciannovenne, ma se è
un’altra quarantenne a essere meno rugosa di lei la cosa la secca
un po’. Giusto un lieve fastidio, che passa, comunque, a patto che
l’altra se ne stia tranquilla nel suo campo d’influenza). La pazza in
generale può fare cose inconfessabili, e un minuto dopo cercare di
far credere a se stessa di essere normale. L’importante è saperlo.
Nessuno di noi, visto da vicino, è normale, soprattutto le donne,
mi duole ammetterlo. Che poi forse possiamo dirci che è l’altro
lato della nostra ricchezza, ma ci rende pesanti come i copertoni
pieni di sabbia con cui mi allenavo da ragazzina, e a cui devo le
mie cosce da terzino tedesco.
Siamo un mistero anche a noi stesse, e possiamo essere doppie
– e già ci è andata bene – ma anche triple o quintuple. Ricomporre
le nostre contraddizioni è un lavoro grande e faticoso, e, nel
tempo, mai completamente archiviabile. È un lavoro quotidiano,
costante, a volte doloroso. Non è una di quelle cose tipo il cambio
di stagione, che a un certo punto puoi dire «ho finito», chiudere le
scatole e non pensarci più. (Cioè, più precisamente, chiudere,
accorgerti che hai lasciato fuori due maglioni e tre sciarpe, darti
della cretina, decidere di regalarli a un’incolpevole amica pur di
non salire di nuovo sul soppalco, e finalmente non pensarci più
davvero.) Invece il lavoro di vigilanza su di noi, sulla nostra
emotività, durerà tanto tempo, a occhio e croce tutta la vita (non
abbassate la guardia, bimbe, perché ci sono persone che passano
la seconda parte della loro esistenza a rovinare ciò che hanno
fatto di buono nella prima). Ma come si fa questo lavoro?
Non so come facciano le altre. Io personalmente credo sia un
lavoro di ginocchio. Solo pregando si può riuscire, non facendo
sforzi di volontà, non mostrando i muscoli, che peraltro non
abbiamo mai abbastanza (la pazza di casa può essere piuttosto
energica all’occorrenza). È Maria la donna della contraddizione
ricompattata, e solo mettendo in moto una vita spirituale si può
tentare di somigliarle. Solo pregando si riesce a non ascoltare
troppo i sentimenti quando vagano come schegge impazzite, le
emozioni che sembrano avere la meglio sulla nostra libertà e sul
giudizio che siamo chiamati a dare sulla realtà. Solo chiedendo a
Dio quello sguardo che elemosiniamo agli altri, solo chiedendo al
Signore che colmi tutte le nostre attese, anche le pretese a volte,
più spesso i bisogni.
Belle parole, lo so. Ma in concreto che vuol dire? Vuol dire, per
esempio, che una donna che prega non si offende per una risposta
ruvida, per una richiesta non accolta, per uno stato d’animo non
capito. Cioè, si offende, si offende tantissimo. Tu lo sai perché sei
sua amica, e lei ha appena risposto «dai, sì, sto bene» al tuo
«come stai?», e quindi hai mollato tutto e ti sei chiusa in macchina
per parlarle: è quel “dai” che preannuncia uno sfogo
enciclopedico su tutto il possibile lamento umano, e una le amiche
che ce le ha a fare se non capiscono manco un segnale così
chiaro? (Mio marito invece sostiene che, se non lo guardo negli
occhi quando gli rispondo che non ho niente, lui lo sa benissimo
che ho qualcosa, qualcosa di misurabile scientificamente nella sua
gravità dal numero di volte consecutive in cui apro il frigo senza
prendere niente.)
Penso, per esempio, a quello che mi ha raccontato stamattina
Cristiana. È vero, lei è pesante come una trapunta di mia nonna
(quelle con dentro le pecore intere), e immagino che avrà rotto
come al solito le scatole con virtuosismo da violinista russa perché
suo marito sta sempre attaccato all’iPad. Ma a un certo punto lui
ha rotto gli argini, e non oso immaginare cosa possa averle detto.
Diciamo che è un tipo non esattamente morbido, e quando dice ai
suoi dipendenti che vuol suonare il flauto con la loro colonna
vertebrale vengono sempre per un istante sfiorati dal dubbio che
non stia scherzando. Ovviamente, se sei sua moglie e ti becchi la
sfuriata, ci rimani male, eccome. Ma Cristiana tiene dentro
l’offesa e non la accarezza, la porta davanti al Signore, la mette
nelle sue mani. Lui la trasforma in qualcos’altro, non posso dire in
cosa perché Dio è un tipo molto creativo – ha creato i liocorni e le
lentiggini e la cannella, per dire – ma sempre ne fa qualcosa di
nuovo e di inatteso. Cura le ferite, ignora il nostro
sentimentalismo e gli umori (sa anche che soffriamo di sindrome
premestruale a volte, ma non le dà troppo peso), ci impedisce di
assolutizzare i nostri stati d’animo (diciamo che vede le cose da
una certa distanza, come minimo), ci impedisce di drammatizzare
piccole parti della nostra vita, di innamorarci del nostro stare
male (quanto ci piace, a volte, ma è un trucco del Nemico). Ci
permette di ricordare, come dice Chesterton, che la misura di
ogni felicità è la riconoscenza, cioè ricordare quello che già
abbiamo (me lo ricordo perché è scritto a caratteri giganti sulla
borsa di stoffa che ci ha regalato padre Maurizio). La preghiera
pulisce gli occhi e ci fa vedere nella trama delle nostre giornate
cosa ci fa vivere, e cosa invece solo asseconda il nostro cuore. La
preghiera è una gran fatica perché ti impone di entrare in una
relazione con qualcun altro che non sempre ti dà ragione su tutta
la linea come fai tu, di fermare il criceto in corsa sulla ruota dei
tuoi pensieri che si autoalimentano, ti fa parlare con qualcun
altro, una persona viva che sola ti può dire la verità su te stessa, e
che ti ama pazzamente, tanto da farti riconoscere nel marito
burbero qualcuno da perdonare, perché perdono è il vero nome
dell’amore, anche e soprattutto dell’amore di coppia. Infinite volte
al giorno ci dovremmo perdonare a vicenda per come siamo, cioè
povere persone. La preghiera è una fatica perché è obbedire a
qualcun altro che non siamo noi, è obbedire per fiducia verso
qualcuno che, ci hanno detto, ci ama alla follia, ma noi non
sappiamo se fidarci.
Non so perché, ma la donna è chiamata prima dell’uomo a fare
su di sé questo lavoro di consegna di se stessa a qualcun altro che
le impedisca di seguire sempre e solo i suoi umori. Se riesce a
farlo, se mette in moto una vita spirituale che comprenda e superi
quellasolo naturale, lo fa per sé e poi, solo poi, può insegnarlo a
coloro che le sono affidati. In certe fasi della vita, questo, di una
donna che vuole consegnarsi a un amore più grande, è un lavoro
di trincea, e si tratta di tenere la propria postazione minuto per
minuto, quando la delusione per le attese non colmate fa
particolarmente soffrire, per esempio quando un marito, su cui si
sarebbe messa la mano sul fuoco, si innamora di un’altra, se ne va
magari; oppure al contrario, quando apparentemente niente
andava storto, ed è lei a innamorarsi, profondamente, anche
castamente, di una persona che non può avere; o ancora la
malattia di un figlio che la costringe a un cambio di passo, a
vivere trattenendo il fiato, a rinunciare al lavoro; o ancora quando
la mancanza di soldi impone di cambiare completamente tenore di
vita, cercare una casa, vivere di provvidenza, rinunciare a un
aiuto e a tutte le piccole gratificazioni a cui ci si era abituate.
Eppure, è sempre possibile essere una donna senza
recriminazioni, risentimenti, rivendicazioni, se a realizzarci non
sono le vicende umane, se a dirci chi siamo non sono prima di
tutto quelli che abbiamo accanto: io sono Tu che mi fai, mi ripeto
sempre le parole di don Giussani... è molto più complicato del
cambio di stagione, quindi ve ne parlerò ancora (non vi
preoccupate, dovete solo simulare entusiasmo nel ricevere queste
mie lettere, non pretendo certo che mi ascoltiate, non adesso,
prima dell’adolescenza, né tanto meno durante).
Quello che mi preme che vi arrivi, però, è la grandezza,
l’altezza sublime a cui siamo chiamate. La donna rivela
all’umanità tutta la sua vera identità: lei è per ricordare a tutti
che noi siamo fatti per non preoccuparci solo di noi stessi (non per
niente voi due, bimbe, siete campionesse europee di farsi-i-fatti-
degli-altri acrobatico), per prenderci cura degli altri, e per aprirci
al definitivamente Altro, perché Dio vuole sposarci (vi consiglio di
dirgli di sì, è un buon partito, anche se bisogna ammettere che
non ha grandi sviluppi di carriera davanti a sé). E la donna di
questa apertura all’unione con lui – dovrei dire sponsalità, ma è
una parola che mi fa troppo lessico parrocchiale – è segno in
modo particolare. La donna ha questa apertura all’altro in modo
speciale, non certo perché sia incompleta, ma al contrario perché
quando è profondamente se stessa sa aprirsi, prendersi cura
dell’altro, mettere lo sguardo nell’altro. E nel prendersi cura,
nell’aprirsi – ho letto nel libro che ho praticamente imparato a
memoria, Il mistero della donna di Jo Croissant, che femmina in
ebraico si dice neqeba, cioè cavità, ricettacolo, spazio interiore –
trova finalmente la pace e la sua vera identità, ricuce i suoi
strappi, medica le sue stesse ferite prima di quelle degli altri.
Tutto in lei lo dice, la sua conformazione biologica, la sua
struttura spirituale, la sua capacità di dimenticare sé e i propri
desideri, se è per accudire un altro, l’accurata dedizione anche nel
rapporto con Dio, almeno per quelle che coltivano con cura la loro
vita spirituale.
Nella donna si fa particolarmente evidente il disegno divino
sull’umanità, ciò a cui l’uomo tende, e infatti l’unica creatura
perfetta – e Immacolata – è donna, e la distanza irriducibile ma
feconda tra uomo e donna è un’indicazione sul destino dell’umano.
Perciò, mi ha spiegato un amico sacerdote, «l’ultima creatura che
Genesi fa entrare in scena è una donna, e perciò l’ultima voce che
risuona nella Sacra Scrittura, nell’Apocalisse, è di donna, è la
voce della Chiesa, sposa di Dio, che invoca il suo divino
Consorte». Dio vuole anche con ognuno di noi, maschio o
femmina, avere una relazione da sposo, perciò ognuno di noi è
affetto da questa grave malattia, cioè o è maschio o è femmina, e
questa polarità, questa incompiutezza, ci costringe quasi a
cercare anche nella vita dello Spirito uno sposo.
Le mie sante di riferimento viventi, per esempio, voi le
conoscete bene: sono le mie amiche più forti, quelle che portano il
peso dei tanti figli e anche del lavoro, o della sterilità, o della
madre anziana, o della malattia dei figli, o di un marito che è
andato via. Non ce n’è una che non faccia la sua parte di fatica,
che non porti la sua vita in offerta, ogni giorno, in quel luogo
misterioso nel quale ciascuna impara uno sguardo spirituale sulla
realtà. Eppure, voi le vedete perché le conoscete tutte, sono
donne felici, perché c’è Qualcuno che ogni giorno dice loro «ti
amo» (anche se un «sei dimagrita» e «questo capo sta al 50% di
sconto» aiutano parecchio anch’esse, come frasi). Io, per quello
che può valere, intanto che aspettate il vostro «ti amo», vi voglio
tanto bene, tanto, e faccio il tifo per voi.
La mamma
P.S. Il luogo misterioso è dove si celebra la messa, ma questo è
un segreto che vi dirò quando sarete più grandi, pronte per
scoprire il privilegio di poterci andare ogni volta che sia possibile,
non adesso che state sulla panca agitandovi come anguille,
guardando l’orologio – mio – ogni tre minuti, tentando modi
sempre più acrobatici per cadere dall’inginocchiatoio, inseguendo
monetine che rotolano, facendo domande di teologia estrema
(«Ma che vuol dire “il centuplo quaggiù”? Se io regalo a Beatrice
il gattino, poi avrò cento regali? E la vita eterna è in omaggio?
Padre Maurizio ha detto di pregare sempre, senza interruzione,
ma scusa, non posso, mi dispiace ho troppo da fare. Diglielo, a
Gesù. Se mi deve parlare può lasciare detto a te»).
2
Essere figlie
ovvero
Lo sguardo del Padre
Care figlie mie, anzi, care figlie nostre,
quando vi guardo rannicchiate sotto le ascelle del babbo, che
sono due appunto perché è un padre di gemelle, tutti e tre sul
divano davanti alla tv (a volte quattro o cinque, se anche i fratelli,
privati di wi-fi, decidono di rassegnarsi a un mezzo così obsoleto,
che è comunque sempre meglio che incrociarmi in corridoio e
trovarsi costretti a sport anaerobici quali il sollevamento lattine
vuote da terra), quando vi vedo, dicevo, il cuore mi si allarga di
gioia. Non solo perché sono certa che per tutta la durata del film
nessuna mi farà domande difficili («Mamma, ma dove vanno gli
atei a messa?») né eserciterà il suo senso critico sull’anziana
madre (secondo me è presto per la preadolescenza, a otto anni, e
potreste anche fare finta di trovarmi intonata, ogni tanto), ma
soprattutto perché vedo con quanto amore vi guarda il babbo, e
con quanta ammirazione gli ricambiate lo sguardo. Penso che
questo sia il miglior viatico per la vostra vita futura (molto futura,
si illude lui). Come canta John Mayer, lo so bene perché il babbo lo
tiene a volume trentadue fisso in macchina, «padri, amate le
vostre figlie: loro ameranno come voi le amate» (e prosegue con
«le bambine diventano donne che amano e poi madri, quindi
anche voi, madri, siate brave con le vostre figlie»). Certo, un
chitarrista americano non sarà proprio autorevolissimo come faro
– ormai ho perso la speranza di ampliare i miei orizzonti culturali,
e tento piuttosto di contenere le perdite in vista della pensione –
ma io sono certa che per la vostra serenità lo sguardo del padre
sarà, è, fondamentale. Guardo voi, e l’amore che il babbo sa darvi.
Poche, pochissime parole, un congruo numero di baci ma senza
troppe melensaggini, come è nel suo stile: una presenza vera,
costante, vicina a voi e ai fratelli. Una presenza operativa, fatta di
accompagnamenti a scuola, di spesa, di merende, e poi di viaggi,
di progetti, di film, di canzoni, di libri: lui è il responsabile di quasi
tutto il vostro bagaglio di ricordi significativi. Io, per esempio, lo
so che nelle vostre memorie dell’infanzia sarò sempre sullo
sfondo, un po’ sbiadita che vi correggo i compiti, vi controllo i
pidocchi o vi porto dal dentista, probabilmente mentre telefono, o
mi trucco; lui invece sarà in primo piano a guidare eroicamente
motorini e canoe, a srotolare mappe di città straniere e a
orientarsi in unsecondo in terre sconosciute (un romanista trova
l’unico pub con la partita in italiano di tutta l’Ungheria, la
Colombia o il Nicaragua in pochi secondi, li fanno così, col
navigatore nella dotazione base). Lo ricorderete mentre vi fa
entrare in castelli e cinema, vi racconta storie – perché se ha
qualcosa da dire il babbo parla, anche se certi giorni sembra
difficile crederlo.
Certo, il suo forte non è la vita di relazione (per quella basto e
avanzo io), anche se una volta è riuscito a ricordarsi il nome di
una vostra compagna. Era dell’asilo, e voi ormai stavate in
seconda elementare, ma non ci formalizziamo. Si può chiudere un
occhio anche sul fatto che se dormo fuori vi ritrovo sempre vestite
come delle sfollate, ma vive, e ben riposate. Perché quando manco
io il lungo rituale dell’addormentamento assume ritmi militari, che
non prevedono di analizzare a fondo se il golfino col cerbiatto stia
bene con la maglietta a rane, né l’anamnesi della drammatica
rottura dell’amicizia tra Simone e Andrea (deve avere giocato un
ruolo il fatto che uno abbia saltato a piedi uniti sull’ulna
dell’altro), né prevedono i quattordici ultimi baci serali implorati
come se non ci fosse un domani. A lui obbedite senza fiatare,
nonostante sia io quella che fa i proclami più convinti sulla
disciplina: impiego ore a illustrarvi la bellezza di una camera
ordinata, o a dire ai fratelli che forse sarebbe bene svuotare ogni
tanto le borse di boxe e di hockey visto che anche il topo che ci
siamo ritrovati in casa l’anno scorso si è rifiutato di entrare nella
loro stanza. In un tempo infinitamente minore il babbo fa un urlo e
magicamente faldoni pieni di ritagli di cantanti ex preferiti
vengono buttati nella spazzatura, magliette sudate dal Pleistocene
riemergono da sotto l’armadio e vanno nel cesto della biancheria,
controller della Play nei cassetti, qualcuno finge persino di
leggere, nel senso antico di tenere in mano quei bizzarri fogli con
le lettere sopra, proprio stampate, e che non si spostano col
touch, anche se ogni tanto vi vedo che cercate di allargare le
figure con l’indice e il pollice (sulla carta non funziona).
Se guardo le storie di tante donne che conosco, non tutte
hanno avuto la vostra fortuna: lo sguardo esclusivo del babbo su
di voi (perché vostro padre ha la vita sociale di una pianta grassa,
ma di voi si ricorda minuziosamente gusti preferenze e desideri –
ne avete tanti, e lui se n’è lasciato invadere, tanto che avete
occupato tutta la memoria libera del cervello. Sarà per questo che
si aggira per casa con l’aria di un estraneo a cercare telefoni che
ha in tasca e sciarpe che ha al collo), l’attenzione ai dettagli, una
custodia concreta e stabile e certa. Se io sono la finestra della
nostra casa, io che inviterei a cena anche i passanti e ho sempre
una Paola da sentire con urgenza, una Elisabetta da abbracciare
al volo, una Marisa a cui dire una cosa fondamentalisssssima, il
babbo invece della casa è il muro, e senza muri non ci sono case.
Guardo voi e lui e penso che, avendo ricevuto e goduto di tanta
paternità, sarete capaci di evitare il rischio della dipendenza, di
atteggiarvi a bambine anche quando sarete grandi, che è poi il
modo più rapido per ottenere attenzione da un uomo. Lo sapeva
bene Marilyn Monroe, la gattina per antonomasia: basta ostentare
bisogno, fragilità, anche un accenno di stupidità abbinata a una
certa biondezza, assieme a una figura a clessidra e a un tacco
rotto per camminare ondeggiando. Così l’uomo si rilassa, si
convince che non avrà bisogno di sforzarsi troppo per avere a che
fare con la donna (diciamo che nel caso di Marilyn c’erano anche
altri due o tre elementi favorevoli, sottolineati dal fatto che gli
abiti di scena le venivano cuciti addosso perché troppo stretti, e
che sapeva far cadere la spallina come nessun’altra al mondo –
questi incidenti di percorso, tipo la gonna che sale col vento, o
delle mutandine ritrovate casualmente in borsa mentre frugate
davanti a lui, aiutano molto, ma siete troppo piccole per parlare di
questo).
La gattina è una scorciatoia, un modo per stare davanti a un
uomo senza fare la fatica di stabilire un rapporto vero, sincero e
non malizioso con lui. Per esempio, un uomo preferirebbe perdersi
o fare sei volte il giro dell’isolato piuttosto che chiedere la strada,
la gattina invece chiede continuamente indicazioni al suo uomo.
Questo funziona, sia chiaro, se alla dipendenza si unisce la
seduzione: la gattina non possiede vestiti da casa, ha
costantemente qualche centimetro di pelle esposta, mette il
profumo anche per andare a letto, e non comincia mai un discorso
con «ho letto uno studio interessante su». La gattina fa scattare
l’istinto di protezione, che mescolato all’attrazione erotica
produce un mix esplosivo.
Non sto dicendo che al primo appuntamento dobbiate
coinvolgere un ragazzo in una disputa teologica (sempre meglio
che fare cose proibite, anche perché Dio vede dappertutto, ma la
mamma anche) o raccontargli la triste storia della vostra vita, le
angherie subite nell’infanzia (io comunque il minestrone non ve lo
faccio così spesso, anche se tu Lavi l’altro giorno hai chiarito,
come se ce ne fosse bisogno, «io non sono vegetariana, sono
dessertiana»), solo che un rapporto d’amore è molto di più di un
giochetto di seduzione. Sono un uomo e una donna, due adulti,
uno di fronte all’altra, nella lealtà e nella parità. È vero, sulla mia
scrivania come mio personale memento ho i pupazzetti degli
opossum dell’Era glaciale – quelli di «ti dico un segreto: noi siamo
molto, ma molto, ma molto stupidi» –, li guardo quando sto per
mettermi a scrivere affinché mi ricordino che sono sopravvalutata
da un sacco di gente, e anche se ce n’è dell’altra che mi considera
una minus habens (per fare media), il monito degli opossum mi fa
sempre bene. Insomma, è una cosa tutta mia che serve a me,
mentre nel rapporto col babbo credo di essere ormai capace di
avere uno sguardo maturo su di me.
Credo che bambineggiare di fronte a un uomo sia un modo per
non diventare grandi noi, adulte, e anche per non far diventare
grande lui: l’uomo dalla donna aspetta un chiarimento su di sé.
L’uomo guarda negli occhi di una donna come in uno specchio, e
da lei è chiamato alla grandezza. La gattina, contrariamente alle
apparenze, non dà davvero all’uomo la grande dignità a cui ha
diritto. Una donna bambina non stima il suo uomo, non lo ritiene
all’altezza di avere un rapporto paritario. Che è poi l’altra faccia
delle donne che schiacciano gli uomini, ne ridicolizzano la virilità.
È questo l’atteggiamento prevalente oggi: disprezzare gli attributi
maschili, tutto quello che sa di virile – subito etichettabile come
violento – oppure ridicolizzare le debolezze, gli errori, non
riconoscendone la grandezza (va bene, è vero, io il babbo lo
prendo in giro, come lui fa con me, ma non potrei vivere senza di
lui, almeno non prima che mi abbia insegnato come si mette
Mediaset Premium). Io lo vedo tutto quello che fa per noi, per voi,
e so che è di segno diverso dal mio, proprio perché è un maschio,
ed è di lui che abbiamo bisogno, di un maschio, non di un’altra
femmina, ché io sono già troppa. È vero, non farei mai come fa lui,
praticamente nessuna cosa, manco girare il cucchiaino nella
tazzina, ma è previsto nel matrimonio, non è un segno del fatto
che ci siamo sbagliati. Si dice che un uomo e una donna stanno
insieme per risolvere problemi che non avrebbero se non stessero
insieme, e la verità è che questi problemi ci fanno bene, servono
alla nostra conversione.
Il babbo per esempio vi protegge quando a me parte l’embolo e
decido che con voi abbiamo sbagliato tutto, e dobbiamo rifondare
le regole familiari e rivedere i parametri, e mi sento leggermente
Dio, o almeno Mosè, e stilo i miei tredici comandamenti (noi
donne siamo meno sintetiche). Lui vi protegge dai miei cambi di
umore e dalle esagerazioni – tipo che un giorno mi travesto da
dietista tedesca,come quella che mi ha detto di toglierfi il
parmiciano dalla pasta perché trrroppo crasso, il giorno dopo ho
altro da fare e certifico come porzione di verdure quotidiana il
cetriolo dell’hamburger di Mac, e già che ci sono pure il ketchup,
con le sue tracce di pomodoro. Il babbo valuta le mie richieste – io
sono per voi con lui la mediatrice delle grazie, dai, questo me lo
riconoscerete – con un certo equilibrio, al quale io cerco sempre
di dare un colpetto in avanti, e se non sono d’accordo con lui voi
non lo saprete mai, perché discutiamo in separata sede. Qui a
casa si cerca di ricordare che l’autorità è una cosa buona, e che
anche quella fallace del babbo si prova a rispettarla perché segno
di un altro Padre (sarebbe poi pure un comandamento, per dire).
Esattamente lo stesso motivo per cui invece da tante parti si
rifiuta l’idea di autorità, in blocco, percepita sempre come
autoritarismo, dove si considerano diritti i desideri. Essere di
fronte a un’autorità in modo adulto è una cosa che si impara,
lungamente, ed è il cammino dell’adolescenza: rispetto, ascolto, e
poi libertà nella decisione finale.
Certe donne questo cammino non lo fanno quando sarebbe
giusto farlo, cioè negli anni in cui diventano adulte. Rimangono
bambine, o fanno le virago. Sia i rapporti di dipendenza infantile
dall’uomo sia quelli di rifiuto di ogni dipendenza (perché, poi? È
così bello avere bisogno l’uno dell’altra, per poter portare i pesi
insieme, per incrociare i diversi sguardi sulle cose, per aiutarsi
nella fatica di vivere) sono spesso il frutto di un rapporto ferito
con il padre. Né la dipendenza né l’indipendenza sono segno di
vera libertà.
Ma questo non è irreparabile. Pensate a Ester. No, non quella
della Bibbia che va dal re Assuero e lo acceca con la sua bellezza,
la storia che vi ho raccontato qualche volta, che poi è la mia
preferita dell’Antico Testamento. Dicevo Ester la mia amica, la
mamma di Cecilia, Filippo e Bea. Lei viene da una famiglia
davvero squinternata: il suo babbo era un professore universitario
stimatissimo fuori di casa, importante e considerato da tutti
gentilissimo e disponibile. Peccato che in casa si trasformava: non
c’era mai, e se c’era urlava. Si innervosiva molto ogni volta che
qualcosa gli ricordava che esistevano Ester e la sorellina: una
scarpa in giro, una tazza rotta, un ombrello dimenticato,
amichette rumorose in casa; anch’io ho assistito a delle sue
scenate davvero spaventose. Almeno, così mi sembravano quando
avevo la vostra età, e andavo a fare i compiti, ma soprattutto
merenda, da lei (in quei meravigliosi anni in cui il mio organismo
aveva il fabbisogno calorico dell’equipaggio di una portaerei),
anche se più spesso era lei a venire da noi, se non altro perché la
casa grande dei nonni ci permetteva di rifugiarci, tutte e due, in
angoli segreti in cui potevamo bisbigliare le nostre cose o sentirci
lontane da ogni controllo. Il babbo di Ester si arrabbiava per
motivi assurdi, incomprensibili e anche imprevedibili, e io che mi
spaventavo a morte pensavo, per farmi coraggio, che per me era
solo questione di tempo, presto me ne sarei tornata a casa mia. La
mia amichetta, invece, era già a casa, eppure sola, senza un posto
in cui scappare. Per il resto del tempo lui era assente, e c’erano
davvero rari momenti in cui Ester poteva intuire tutta la bellezza e
la simpatia di cui lui era capace quando voleva. Era davvero un
gran bel tipo di uomo (e infatti la figlia aveva una passione per
lui), solo che queste qualità non le riservava mai alla sua famiglia.
La mamma aveva da tempo smesso di combattere contro gli
eccessi del marito, non ce la faceva proprio: anche lei aveva avuto
le sue ferite da piccola, e aveva deciso di arrendersi, si era ritirata
in un silenzio in cui tutte le sue energie erano destinate alla
personale sopravvivenza, non aveva niente che le avanzasse per
riscaldare Ester e Noemi (che strano, mi son sempre chiesta
perché due nomi biblici, in una famiglia in cui Dio sembrava
assente: qualche messa a volte, ma neanche sempre la domenica,
soprattutto non un rapporto vivo col Signore).
Adesso non vorrei improvvisarmi una psicoqualcosa da quattro
soldi, ma la mia amica la conosco bene, la conoscevo almeno, e
posso dire che, secondo me, il suo vagare da un ragazzo all’altro,
il suo continuo bisogno di conquista, il suo essere sempre un po’
allumeuse, promettendo passioni e intrighi che poi non
concedeva, anche in un modo ingenuo e infantile a volte, è
spiegabile con la sua storia, con gli sguardi e le attenzioni che non
ha avuto, con la ricerca di una figura materna che non l’ha
accudita e di una paterna che è mancata, non come manca
qualcuno che è assente, ma di più, come manca qualcuno che è
presente ma in modo cattivo. Credo che un sacco delle
stupidaggini che ha fatto Ester se le sarebbe potute risparmiare,
se non avesse cercato negli uomini quello che non aveva avuto nel
momento giusto.
È chiaro, a parte Gesù, chi di noi può dire di avere avuto
genitori perfetti? Tutte le maternità e le paternità umane
feriscono, perché il nostro cuore è pieno di una mancanza,
sempre. Detto questo, c’è chi ha avuto di più, chi ha avuto di
meno. Ester ha avuto proprio poco a casa sua, pochi baci
complimenti aiuto sostegno (effettivamente, adesso che ci penso,
lei era l’unica alle gare di nuoto a non avere mai nessuno dei suoi
nei pressi, ma non solo: i suoi si può dire che neanche sapessero
che aveva le gare), e la sua storia successiva ne è stata
inevitabilmente segnata per sempre. Ogni sua scelta è stata,
almeno all’inizio, una richiesta di attenzione: andare bene a
scuola, nuotare più forte delle altre, essere più magra, essere più
simpatica, non dispiacere a nessuno, e soprattutto non dispiacere
ai suoi ragazzi. E siccome si adattava a loro, ai loro desideri e alle
attese, se ne stancava sempre molto presto: essere qualcun altro
così diverso da se stessi è troppo faticoso.
Quando non si sa chi si è, e ci si lascia continuamente definire
dallo sguardo, dalle parole, dal giudizio degli altri, tenere in piedi
una relazione è difficilissimo – per essere in relazione con un altro
bisogna prima essere qualcuno – ed è un paradosso, perché della
relazione si ha un bisogno vitale, come se da soli non si riuscisse a
vivere. Probabilmente è per questo che di ragazzi lei ne ha avuti
una ventina, ma tutte storie di giorni o massimo di mesi: molti di
più se contiamo quelli per cui ha solo avuto delle cotte. Appena li
conquistava, si stancava di loro, di fare la gattina per piacere, di
continuare a essere quello che si era sforzata di essere per
conquistarli.
Poi per un periodo – lei lo racconta come un tempo eterno, ma
probabilmente non è stato così lungo, io direi a occhio e croce due
anni – ha avuto il coraggio di rimanere sola, e di cercare lo
sguardo che davvero la potesse sanare, quello di Dio. Ha deciso di
lasciarsi definire dal suo sguardo, di non fare più niente solo per
piacere alle persone. È stato un tempo di silenzio, ma fecondo: lo
immagino come il tempo in cui il suo chicco è stato sotto terra a
marcire. In quel tempo Ester ha capito chi era. Preghiera, silenzio
(nel senso di silenzio del cuore, cioè di non cercare qua e là facili
consolazioni affettive), e l’aiuto di una guida spirituale... Piano
piano ha perdonato i suoi genitori, ha deciso di esserne a sua volta
madre, di guardare con sguardo misericordioso le loro mancanze,
le carenze di cui loro erano i primi a soffrire. Per questo ci sono
voluti anni, e penso che le ferite di quella mancanza ci saranno
sempre. Però Ester ha imparato a farci i conti, non perché sia
diventata forte, o grande, ma perché la paternità di Dio l’ha
sanata.
Ha smesso di fare la bambina, ha deciso di seguire Dio con
serietà, pagando un prezzo vero, sanguinante, di tasca sua,
innanzitutto accettando la solitudine, poi prendendosi le proprie
responsabilità nello studio, nei primi anni del lavoro, nella
gestionedella vita da sola. Ha smesso la vita svaccata e
disordinata, ha imparato una disciplina, ha accettato il fatto di
non avere avuto qualcuno che la accudisse come un dato di fatto,
e ha smesso di lamentarsene, di fare la vittima, perché certe cose
se non le si è avute non le si ottengono più, non è che si possa
stare ad aspettare un risarcimento per tutta la vita, o farla pagare
a quelli che ti stanno intorno. La storia della salvezza, come dice
sempre il mio padre spirituale, si chiama storia, appunto, e non
fotografia, perché non succedono miracoli veloci, si passa
attraverso il deserto e ci si può stare anche quarant’anni come il
popolo di Israele. Ma la buona notizia è che da un’infanzia ferita
(tutte più o meno lo sono) si guarisce se si impara a stare sotto lo
sguardo del Padre.
A pensarci adesso, mi sembra che il nome di Ester sia stato
profetico per lei. Anche la mia amica ha usato la sua bellezza per
sopravvivere, per cercare sguardi che le dessero ciò di cui aveva
bisogno. E anche la mia amica, come Ester, è riuscita a
neutralizzare il nemico, che per lei non si chiamava Aman ma
dipendenza, si chiamava vanità, si chiamava finzione. Una donna
così smette di fare scelte tutte in funzione dello sguardo degli
altri, e diventa feconda e fonte di vita.
Ed essere feconde e fonti di vita è quello per cui siamo state
progettate, è quello a cui tende ogni nostra cellula e, in ultimo, è
quello che ci rende felici. Per questo è così importante pacificarci
col nostro essere figlie: per poter essere madri. Pacificarci, cioè
uscire dalla dipendenza, senza per questo scegliere
un’indipendenza forzata e innaturale, come quella della mia amica
che vi piace tanto, Giorgia. Io lo so che vi piace e un po’ vi
incuriosisce, anche perché è così diversa da me: vi sembra strano
vedere una mamma che ha senso dell’orientamento, che propone
gite e dice parolacce, che fuma e beve e cambia le ruote e monta
le mensole (nota per il lettore gender fluid: in casa nostra siamo
altamente favorevoli al mantenimento di alcuni stereotipi, perché
crediamo che le differenze siano una ricchezza, e che esprimerle,
anche attraverso degli stereotipi, sia pratico, serva persino a
orientarsi nella realtà a volte, anche se sappiamo che la realtà è
sempre molto più complessa. E infine è anche comodo; io non
voglio avere a che fare con mensole o ruote, e sono ben contenta
di lasciare queste rotture di scatole a mio marito. L’unica cosa che
mi interessa delle mensole è quante scarpe ci posso mettere
sopra). In realtà, secondo me alcune di queste cose lei le fa
perché è costretta, non perché le piacciano. È costretta dal fatto
che è sola, benché io non sappia esattamente dire se faccia queste
cose perché è sola, oppure se sia sola perché fa queste cose.
Non che una donna che ama il bricolage non possa avere un
uomo, per carità, non è obbligatorio considerare le dita solo come
un sostegno per lo smalto per essere femmine (le vostre due zie
Chiare sono una ingegnere, l’altra mostruosamente brava con le
mani, ed entrambe hanno un uomo). Insomma, il dibattito su chi,
tra maschi e femmine, dovrebbe fare delle cose è noioso e molto
condizionato da tanti fattori: il punto è accogliere o meno l’idea di
dipendere da qualcuno nel senso di essere complementari, sì, ma
anche bisognosi e monchi, se non sposi (i consacrati sono sposi
anche loro).
Giorgia ha avuto un’infanzia faticosa quanto quella di Ester,
sebbene in modo diverso (si può essere infelici in modi molto
fantasiosi). Suo padre non era irascibile o assente, ma anzi, il
padre perfetto, da manuale. Impegnato nella fede, un po’
compagno, un po’ cattolico, tutto preso dalle battaglie per gli
indios dell’Amazzonia, dalle lotte sindacali, dalla giustizia (era
magistrato). Tutti sembravano meritevoli della sua attenzione,
anche ai suoi numerosi figli (non mi ricordo mai se ne avesse otto
o nove) dedicava riflessione seria e impegno, era uno di quei
babbi che fanno delle questioni sulle letture dei figli, sulle
amicizie, sulle loro scelte. La mamma lo seguiva nelle sue
battaglie civili e di fede, solo che forse erano un po’ troppe,
queste battaglie, per una mamma di una squadra di calcio.
Insomma, banalmente, a Giorgia è mancato affetto, tempo,
attenzione. Ha imparato molto presto che era meglio cavarsela da
sola, non stare troppo ad aspettare aiuti o attenzioni, non
chiedere, non disturbare. I fratelli l’hanno portata da piccola ai
collettivi di autocoscienza, l’hanno cresciuta a pane e diritto
all’emancipazione, e la scoperta di essere una femmina ha
coinciso per lei con l’ascoltare e ripetere «l’utero è mio e lo
gestisco io» (l’utero è quel sacchettino che vi servirà a tenere i
bambini dentro la pancia, sì, ce lo avete anche voi, ora è piccolo
piccolo, ma potrà diventare grande, enorme se avrete anche voi
dei gemelli – nel caso mi trasferirò nei pressi di casa vostra per
aiutarvi ad allacciare le scarpe).
Insomma, la sua crescita è stata un lungo allenamento all’idea
di non avere bisogno di nessuno, né degli uomini “lontani,
distratti, freddi” né di quel Dio militante che si prendeva tutte le
energie dei suoi genitori (a questo Dio noi a volte facciamo fare un
po’ quello che ci va; ricordatemi sempre, quando me ne dimentico,
che l’angelo custode di santa Francesca Romana, col quale lei
conversava abitualmente, spariva dalla sua vista quando lei
trascurava i figli per stare troppo a lungo in chiesa). Lo so, la
faccio troppo semplice la storia di Giorgia, e lo so che ogni vita è
un mistero, noi siamo un mistero a noi stessi, figuriamoci se posso
entrare nel segreto groviglio della vita della mia amica, che
peraltro ho conosciuto quando era già adulta, ma insomma quello
che volevo dirvi è che è difficile per tutti fare i conti con i propri
genitori, anche con quelli esemplari, o apparentemente tali. Credo
che ci sia in giro persino della gente che mi attribuisce capacità
educative: spero che non assistano mai alle mie conversazioni coi
fratelli, tipo «e dai Berni, che ti costa raccogliere i fazzolettini da
terra e metterli nel cestino?», «non so a me, ma a te costerà tre
euro convincermi a farlo». Voi invece lo sapete che razza di
educatrice sono: ho un bel kit di principi variabili a seconda di
quanto sono stanca o di cattivo umore. È evidente che la
raccomandazione di finire tutto il minestrone prima di alzarsi da
tavola può subire qualche lieve limatura se sono io a dovermi
alzare per vedere una puntata di Big Bang Theory, mentre
l’attenzione a non prendere pioggia è più o meno stringente se
bisogna correre in centro per quegli stivali in saldo («L’acqua fa
bene») oppure se la meta sono le poste per ritirare la
raccomandata («Il cielo è grigio, potrebbe piovere, meglio stare a
casa con un filmetto»), anche perché raramente le raccomandate
portano buone notizie (ma forse non guidavo io, forse l’autovelox
mi ha scambiata per un’altra, la bionda con la Bmw, portate a lei
la raccomandata, io sono bionda finta, si saranno confusi).
Diventare adulti, anche per voi, a un certo punto vorrà dire
mettervi in spalla lo zainetto con tutto quello che vi abbiamo dato,
compreso tutto il male, e partire. Ecco, ci sono persone che hanno
uno zaino particolarmente pesante da trascinarsi dietro; Giorgia
ha deciso che doveva farcela da sola, e quello che le è successo
nella vita è stato proprio questo, che ha fatto tutto da sola. La
figlia, la casa, le difficoltà nel lavoro: tutto da sola. È davvero forte
la mia amica, ma lo è così tanto che gli uomini neanche le si
avvicinano più. È un peccato perché è di una bontà e di una
intelligenza straordinarie, però il babbo dice che è esattamente il
tipo di donna che qualsiasi uomo fugge come la peste:
problematica, pesante, complicata. Ha praticamente un cartello
appeso al collo: ho un sacco di problemi ma me li risolvo da sola.
Non c’è dichiarazione che possa tenere alla larga un potenziale
compagno più di questa: è come dirgli «starai scomodissimo(e la
ricerca della comodità è uno degli alti e nobili e segreti fari che
orientano di solito gli uomini nelle loro scelte) ma non potrai far
nulla per risolvere il problema, perché io non ho bisogno di te» (e
la possibilità di risolvere i problemi è ciò che fa sentire un uomo
tale). Praticamente il peggio che uno si possa augurare.
Diventare grandi significa uscire dalla fase delle scelte tutte
fatte in funzione degli altri, per piacere o per non dispiacere,
ferire, urtare, schiacciate da una sorella o una mamma, alla
ricerca di un padre, sempre dipendenti dallo sguardo altrui. Lo so
che diventare grandi è l’ultima delle vostre preoccupazioni, a
parte il fatto che volete andare a comprarvi le goleador da sole al
bar, ma vi assicuro che presto non sarà più così. Essere libere nel
giudizio nostro e dagli sguardi altrui è la specifica libertà
femminile, di noi esseri ipercritici verso noi stesse, perfezioniste
insicure. Le strade sono due: la psicanalisi o la contemplazione. Io
voto la seconda, perché l’analisi ti rattoppa, ma solo Dio salva e
guarisce e fa nuove tutte le cose, ci fa scoprire non di essere
perfette, ma imperfette e amabilissime insieme. E inoltre ha il
potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare,
e aprire vie nuovissime nella nostra vita, anche quando ci sembra
di essere finite contro un muro. Lui ha una grande fantasia sulla
nostra vocazione, e per fortuna le sue fantasie non coincidono
quasi mai con le nostre. Dio, grazie per le mie preghiere non
esaudite, per non aver permesso che sposassi quel ragazzo
assurdo, che vincessi la finale olimpica degli 800, che facessi la
suora di clausura, che fossi ricca, che fossi completamente sana di
mente. Grazie per i miei bisogni, per le voragini, le ferite, le
cicatrici, le pazzie. Grazie per le mie pretese assurde
continuamente frustrate, che mi costringono ad alzare gli occhi a
te. Grazie perché non mi reggo in piedi da sola e non puoi essere
per me come una ciliegina sulla torta. Grazie perché devi essere
la mia torta, sennò muoio di fame. Grazie perché mi rendi ogni
giorno una donna salvata e mi fai sperimentare che tutto è
possibile per chi crede, ma veramente tutto. Grazie per le grandi
cose che hai fatto nella mia vita, anche se la materia prima – un
soggetto davvero squinternato – avrebbe fatto vacillare chiunque,
ma non per niente tu non sei chiunque, tu sei Dio. Grazie perché
quando tutti mi dicevano che non potevo neanche sognare di
scrivere un articolo mi hai aperto la strada per scrivere quattro
libri, che non sono niente in confronto ai quattro figli, ma sono
comunque molto più di quanto sperassi di poter combinare nella
vita, al di là degli affetti. Grazie perché hai fatto tutto diverso da
come lo pensavo io, per fortuna qualche volta mi sono fidata di te,
perché se noi ti chiediamo di fare la tua volontà tu non ci rifiuti
niente, come a santa Teresa d’Avila che era stufa per quanti
miracoli ottenesse, prima ancora di avere il tempo di chiederli.
Grazie perché una donna che prega è la più grande forza del
mondo, grazie perché ci affidi la fede degli altri, perché chiedi agli
uomini di indicare le strade, e a noi donne di riprendere quelli che
sono rimasti indietro, grazie perché prima ci guarisci nel nostro
essere figlie, poi ci regali di diventare madri, dei nostri figli o di
quelli delle altre.
La mamma
3
Essere donne
ovvero
A chi voglio piacere, io?
Care Livia e Lavinia,
scrivo a voi due piccole donne che all’improvviso, in un solo
giorno di otto anni fa, avete cominciato a riempire di gioia e di
mutande con le principesse la nostra casa. E lo faccio
rivolgendomi a tutte e due insieme, anche se voi tenete molto al
fatto di essere ben distinte, lo so, me lo ricordo bene che una sta
nel banco con Simone e una con Matilde, anche se adesso, se mi
interrogate a sorpresa, su due piedi non saprei dire chi sta con
chi. Me lo ricordo benissimo che siete due. E comunque mi è
successo pochissime volte di dimenticarmi Lavinia nella culla e di
fare il bagnetto due volte di seguito a Livia, d’altra parte lei da
piccola piangeva di più, e si faceva notare, che è poi una delle
regole base del marketing e della comunicazione d’impresa
nell’era del web (chi urla più forte viene preso in braccio).
Devo scrivere a entrambe perché vorrei parlarvi del fatto di
essere donne, e questa è una cosa che senza dubbio vi riguarda
tutte e due. Siete talmente femmine che avete cominciato a
balbettare l’una con l’altra infiniti incomprensibili discorsi quando
avevate pochi mesi e zero denti; e adesso, dopo esservi scambiate
molte parole e caramelle ciucciate e cerotti a cuore, ancora
parlate fino allo sfinimento ogni sera, al buio – che avrete di nuovo
da dirvi dopo una giornata passata insieme? – intrecciandovi mani
e cuscini e pidocchi. I vostri fratelli, invece, si mandano virilmente
e silenziosamente foto e insulti su WhatsApp, da un piano all’altro
del letto a castello, per non dover avere troppi contatti reciproci,
e per risparmiare energie; e, se proprio non possono fare a meno
di abbracciarsi, prima almeno si menano un po’, e io non so mai in
che punto interrompere la loro affettuosa lotta (possibilmente un
secondo prima del trauma cranico).
Come vi ho raccontato tante volte, quando mi hanno detto che
eravate due, sono impazzita di gioia. Be’, la parola “quando” deve
essere intesa in modo elastico. Non proprio nell’istante. Prima ho
pensato che passare da due a quattro figli in un giorno solo fosse
un passo azzardato, anche perché in casa non c’era proprio posto,
per non parlare della macchina piccola e del lavoro precario. Ho
detto all’ecografista che era un pensiero carino da parte sua,
generoso, ma io ero lì per farmi dire se mio figlio si era impiantato
bene, ha sentito dottore?, ho detto mio, o mia, è lo stesso, ma uno.
Io ho pagato per una ecografia. Ma lui è stato pochissimo
conciliante. Ne vedeva proprio due. Non uno grosso. Due.
Comunque mi sono serviti, credo, quattro minuti. Il tempo di
scendere dal lettino e ho cominciato a saltare di gioia, ed è stata
una delle ultime volte che l’ho fatto, fino al giorno del parto,
perché la ginecologa poi mi ha detto che se fossi andata a correre
– come ho fatto quando aspettavo i vostri fratelli – durante una
gravidanza gemellare mi avrebbe spezzato una tibia con una
mazza da hockey (e qualcosa nella sua voce mi diceva che lo
avrebbe fatto davvero). Insomma, poi ho saltato di gioia da ferma,
perché Dio aveva ascoltato tutte le mie preghiere, e anche
qualcuna in più: credo che, quando io e la vostra bisnonna Irma
siamo andate a Loreto a chiedere che la Madonna intercedesse
per un altro figlio – c’era bisogno di lei perché il progetto all’inizio
non aveva, per così dire, l’approvazione entusiasta di tutto il
consiglio di amministrazione familiare – forse non ci siamo
accordate bene. Le nostre richieste sono state prese entrambe in
carico dal call-center che smista le preghiere, ma separatamente,
si vede.
Ed ecco, due donne sono entrate nella nostra vita. Due
rumorosissime loquacissime complicatissime creature, che non si
sa mai come parlarvi per non rigarvi. Come l’altro giorno, quando
a te, Lavinia, ho detto che il compito di scienze era disordinato, e
tu sei andata in crisi quando ti ho consigliato di rifarlo e mi hai
detto «ma io non voglio consigli, io voglio un complimento», che
poi è quello che anch’io per quanto mi riguarda ripeto a vostro
padre da quasi vent’anni. Tra parentesi, io vi avviso, questa sarà
una delle cose più difficili da far capire a un uomo. Loro hanno
questa fissa di risolvere i problemi, e a volte lo fanno anche
benissimo, ma non capiscono quasi mai che noi a quel problema
siamo anche un po’ affezionate, e non è necessariamente la
soluzione quello che stavamo cercando (a volte risolve di più un
«sei la donna che tutti desidererebbero» che due ore di bassa
manovalanza offerta in soccorso, perché quella ci toglierebbe il

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