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«Noi donne ci siamo, per così dire, emancipate, abbiamo conquistato la libertà di scegliere, nel lavoro, nell’amore, nella vita. Ma a che prezzo? Siamo davvero più felici? E soprattutto, rendiamo più felici le persone che ci sono affidate? Non è che per caso femminismo, rivoluzione sessuale e battaglie per la parità hanno finito per lasciarci più sole e tristi? Per rispondere a queste domande, dobbiamo liberarci dagli schemi della rivendicazione e capire quale grande privilegio sia l’essere femmine, destinate dalla natura ad accogliere la vita, chinandoci su di lei, in qualsiasi forma si presenti alla nostra porta. E quale grande avventura possa essere per noi diventare spose e madri, accanto all’uomo con cui possiamo arrivare a diventare una carne sola. Non sto mica parlando della casalinga anni Cinquanta: le tante donne che ho avuto la fortuna di incontrare - donne realizzate spesso anche nel lavoro - hanno percorso strade difficili, perfino drammatiche, eppure ne sono emerse straordinariamente capaci di vita, capaci di speranza contro ogni ragione. Mi hanno insegnato che essere felici è possibile, ma richiede un lavoro; che si può pure andare dove ci porta il cuore, ma poi bisogna chiamare il cervello perché ci venga a riprendere, e ci porti in un luogo segreto, dove si mette in moto una vita più feconda e piena. Quello che ho imparato da queste amiche vorrei insegnarlo alle mie figlie, adesso che ancora mi ascoltano: poi - credo sia questione di minuti - saranno adolescenti e sarà troppo tardi.» COSTANZA MIRIANO COSTANZA MIRIANO ha quattro figli, un solo marito ed è giornalista alla Rai. Per Sonzogno ha pubblicato Sposala e muori per lei (2012), Sposati e sii sottomessa (2013) e Obbedire è meglio (2014). Costanza Miriano Quando eravamo femmine Lo straordinario potere delle donne Della stessa autrice nel catalogo Sonzogno Sposala e muori per lei Sposati e sii sottomessa Obbedire è meglio In copertina: illustrazione di Giulia Amadei. Design di copertina: tapiro. Copyright © 2016 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2016 ISBN 978-88-454-9758-2 www.sonzognoeditori.it ebook@marsilioeditori.it Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. 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Essere spose ovvero Portare l’uomo alla grandezza Essere madri ovvero Salvate dai figli Del desiderio ovvero “Catholics do it better” Della bellezza ovvero Sei bella dentro (ma è meglio se ti trucchi un po’) Della conciliazione lavoro-famiglia ovvero All’assalto, con fantasia Del sesso ovvero Adamo ed Eva dopo la pillola Conclusione. Quando eravamo femmine Bibliografia file:///tmp/calibre_4.99.5_tmp_zfgiuotr/kxqx8m8c_pdf_out/OEBPS/Text/Copertina.xhtml Introduzione Nobili come vere donne Non è da farne un dramma, è solo che arrivi a una fase della vita in cui capisci che certi dadi sono tratti, non puoi più cullarti nell’illusione che tutte le strade davanti a te, ammesso che ci fossero davvero, siano ancora aperte, come era scritto sul poster della Nike che ha ispirato la mia adolescenza, appeso in camera da letto insieme a quello della Dorio che vinceva l’oro olimpico – era il tempo in cui credevo a tutto – e agli altri di impresentabili cantanti che non sono disposta a rivelare gratis. Ormai lo so: io l’oro olimpico non lo vincerò (i pantaloncini uguali a lei però ce li avevo), né sarò mai un magistrato, o una in grado di cambiare una ruota, né una persona mattiniera, di quelle che sanno scegliere con sicurezza una carta da parati prima di mezzogiorno (i negozi di arredamento sono aperti il pomeriggio apposta). Altre conquiste penso che le potrei raggiungere ancora, se solo mi impegnassi. Potrei addirittura imparare ad arrivare puntuale ogni tanto, indossare il reggiseno, limitare l’uso delle parole a quanto richiesto dalle circostanze. Come fanno i miei figli, i quali al mio «come va?», generalmente rientrando a casa, rispondono emettendo una vocale a scelta e abbandonando le Adidas in corridoio con un tonfo secco («Se ero morto non tornavo» chiosano, quando proprio vogliono sfoggiare le lunghe ore dedicate allo studio della retorica e sentirsi parte di un’élite intellettuale). A me, invece, purtroppo la medesima domanda scatena un insopprimibile impulso alla condivisione, o, più precisamente, il dovere morale di elencare per filo e per segno tutto quello che manca alla mia perfetta felicità. E siccome noi siamo “infiniti quanto al desiderio”, come disse Dio a santa Caterina da Siena, l’elenco di quello che manca a volte può rivelarsi davvero impegnativo. Dipende sempre da quanto tempo hai, incauto interlocutore che mi hai posto la domanda, o quanto credito sul telefono. Ciò che mi impedirà di correggermi, temo, è che ho tante amiche che riescono sempre a trovare un po’ di spazio per me, anche in mezzo a un numero impensabile di figli e lavori. Perché questa è la caratteristica di noi donne: la capacità di fare comunque, in qualche modo, spazio a un altro, ascoltare, accogliere, ricevere, anche quando sembra di non avere più spazio interiore. Mi ascolta anche l’amica che torna dal turno di lavoro, e quando la chiamo la trovo in autostrada che sta appunto piangendo un po’, giusto per mettersi avanti col lavoro, in modo da arrivare a casa già “pianta”, anticipando il ruolino di marcia quotidiano. Mi ascolta quella con la figlia malata e quella senza lavoro, e non mi mandano neanche a lumache, mai, neppure quando io con le mie paturnie le derubo delle forze residue. Conosco donne che hanno sempre un po’ di spazio da farti, le orecchie in ascolto, la capacità quasi soprannaturale di chiamarti quando ne hai bisogno, o di offrirti una mano quando stai sul punto di servire un gin tonic alla prole per creare un clima disteso e favorire una mediazione sulla questione dei posti sul divano che ha provocato due graffi e tre seiunidiota. Ascoltano anche quelle che si proclamano forti e indifferenti alle debolezze da femminuccia, anche quelle che non sono amiche, perché la vita, comunque, è il nostro core business, di tutte, anche quando non lo vogliamo ammettere. Ho incrociato, intercettato, a volte intrecciato le vite e le storie di tante donne. Ci siamo raccontate la vita, magari solo un pezzo, in pochi minuti o in anni di amicizia. Miracolosamente, io che dimentico compleanni e pediatre, vado ai convegni il giorno dopo e detengo il record mondiale assoluto di persona alla quale è stato spiegato più volte, invano, il conflitto israelo-palestinese, io, invece, me li ricordo questi racconti e, non so come, li associo anche ai nomi e ai volti giusti, anche se ormai credo siano diventati migliaia, anche se li ho solo sfiorati per qualche momento. È che le storie delle persone mi interessano tantissimo, per un motivo che non saprei esattamente in quale punto collocare lungo quella sottile linea che congiunge una persona dal cuore spazioso e accogliente a un’altra solo pettegola e curiosa. Qualunque sia il motivo, le persone mi interessano. Il perché non riesca maia ricordare quali vaccini ho fatto ai figli (ma è scritto in un foglietto che sta nella scatola dei biscotti, mi pare) né dove ho messo il telefono (forse non lo vedo perché ci sto parlando dentro), mentre la storia che Francesca mi ha raccontato due anni fa sia impressa a caratteri di fuoco nella mia mente, lo ha spiegato benissimo sant’Agostino, e siccome non era una sua confidenza personale ho dimenticato le parole precise. Il senso era questo: impariamo solo quello che ci piace. Deve essere per questo che ho tanti problemi con il router del wi-fi e i lettori xdcam: a me interessano solo le persone, anzi, proprio non concepisco che possa esistere qualcosa di inanimato, credo profondamente che la stampante a volte mi guardi con disprezzo se perdo tempo su Facebook, che le lampadine non si fulminino per motivi tecnici ma si spengano per solidarietà quando sono triste, e che il lettore mp3 in macchina salti non per le vibrazioni dei sampietrini ma esattamente per ricordarmi che devo dire il rosario invece che cantare a squarciagola con Eddie Vedder. (Comunque, signor Vedder, se cerca una corista a lei devota e fornita di boa di struzzo, anche se avanti con gli anni e stonata, io ci sono.) «Tu che mai ti fermi nel riparare la vita» scrive Luce Irigaray, filosofa della differenza francese, facendo eco, da tutte altre premesse, a Edith Stein: «La donna è chiamata naturalmente alla missione di sposa e di madre: essere sposa significa essere la compagna che presta sostegno all’uomo, alla famiglia, alla comunità. Essere madre ha questo senso: custodire la vera umanità, difenderla e portarla al suo pieno sviluppo. La duplice funzione di compagna delle anime e di madre delle anime non è limitata agli stretti confini dei rapporti matrimoniali e materni, ma si estende a tutti gli esseri umani che entrano nel suo orizzonte.» È per questo che siamo così, e come scrive Luisa Muraro, non è mica merito nostro. Non è che “siamo brave”, anzi, possiamo a volte non esserlo affatto: «Essere donna è un privilegio, come nascere nobile nelle antiche civiltà aristocratiche: puoi non esserne all’altezza ma, come non l’hai meritato, così non lo perdi.» È una filosofa femminista a parlare, quindi spero che nessuna donna si offenda a sentirsi dire, leggendo nel suo Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, che «diversamente da quelli del sangue, il privilegio di cui parliamo si gode specialmente nell’intimo di sé... non si specchia invece nelle graduatorie della società e in società diventa visibile solo a sprazzi. In una donna la grandezza c’era da prima, era sua da prima, non appariscente, come un’avventura segreta, come un abito di tutti i giorni ma disegnato da Valentino. Occorre però che lei accetti il suo privilegio e lo coltivi, come hanno fatto i nobili in certe epoche e in certi paesi». La donna risponde al bisogno di riconoscimento che abita in ogni persona. Per la mamma, anche la più critica, è comunque un bene che tu ci sia (se ha detto il contrario quando in seconda liceo le avete messo in casa nove diciassettenni a cena senza preavviso non vale, e comunque è caduto in prescrizione), la tua esistenza ha valore per se stessa, ed è la mamma la prima a dovertelo confermare. «Se una donna è presente» scrive la filosofa femminista, «qualcosa di quell’antica relazione rivive e il bene senza nome si riproduce» grazie a quello che lei è capace di mettere in ogni rapporto, «una presenza intelligente, una presenza comprensiva, una presenza generosa, una presenza anche compassionevole. Avere uno sguardo compassionevole per chi ha sbagliato e per chi è vittima di chi ha sbagliato.» È nel fare questo, nell’imparare questo sguardo che la donna scopre di essere se stessa solo in relazione, quindi grazie alla persona che è nel bisogno, e di cui anche lei ha bisogno: «La donna che diventa madre lo diventa in rispondenza a qualcosa che fa la creatura già nel ventre materno. Già nel ventre materno questa creatura sta facendo questo lavoro simbolico, con la sua semplice presenza.» (Tutto questo era per ammantare di nobili motivi il fatto che ieri ho quasi imboccato la Flaminia contromano: stavo creando condivisione con una cara amica, per quanto non sia del tutto escluso che stessimo parlando di diete proteiche. Sempre condivisione è, e ci sono anche svariate encicliche che spiegano quanto sia nobile. Se faccio un frontale parlando al cellulare senza auricolare mettete in mano a mio marito una copia della Mulieris Dignitatem, per favore.) Ma perché le donne hanno tutto questo bisogno di condivisione? Innanzitutto perché soffrono, in quantità industriale – ce n’è anche da esportare –, e certi pesi non si portano da soli. E cercare di capire perché soffriamo e come rendere feconda la nostra condizione è il senso di questo libro (e amen, lo so. Così ci siamo direttamente giocati i lettori maschi e tutte le donne che hanno appena trovato un fidanzato o perso dodici chili, e sono in un periodo troppo allegro per farsi certe domande). Guardo le mie bambine, oggi che sono andata a prenderle dopo una giornata al campo estivo, e una stava aiutando un’amica più piccola a cercare i pinoli, dolce e rompiscatole come una mamma, mentre l’altra stava vigilando sui suoi giochi che aveva prestato; era sulle spine, anche lei come tutte noi, divisa tra il bisogno di pensare a sé e la voglia di far stare bene quelli intorno. Riconosco già in loro i segni di un cammino che dovranno fare, diverso per tutte ma comune a tutte, e vorrei aiutarle, vorrei evitare loro ogni fatica, ogni combattimento, ben sapendo, tuttavia, che oltre a non essere possibile non è neanche giusto. Perché è il combattimento che ci rende uomini e donne vere, esattamente come non si possono fare i compiti al posto dei nostri figli, neanche quando questo ci consentirebbe di piantarla lì e uscire a comprare quell’urgentissimo golfino leopardato (tutto ciò che è leopardato è per ciò stesso molto urgente). Vedo le mie bambine e penso – e mi si stringe il cuore – alla speciale dimestichezza che abbiamo con la sofferenza, una frequentazione che ce la rende presto familiare, quasi amica, perché noi sappiamo che serve a qualcosa, come quando andiamo a farci bucare le orecchie, o tocchiamo il ferro da stiro con la mano per sentire se è caldo, o smettiamo di respirare perché cerchiamo di entrare nel vestito da sera con le stecche vintage (cioè più precisamente ereditato dalla zia, ma come cavolo faceva quella balena a entrare qui dentro solo qualche decennio fa?). Forse sono solo piccoli preparativi per il parto, la sofferenza che più di tutte serve a qualcosa, serve così tanto che dopo ci sembra pure poca (dicendo questo ho rischiato svariate amicizie: qualcuna, dopo, ha protestato per il mio incoraggiamento troppo ottimistico. Non avevo precisato che te la dimentichi solo dopo un po’, mica subito, di solito quando il “piccino” fa l’esame per entrare alla Normale). Comunque, anche se non puoi soffrire al posto dei tuoi figli, ma solo guardarli dalla panchina mentre scendono in campo, puoi fornire loro qualche dritta, ben sapendo che mostreranno di non ascoltarti, invitandoti a sciallare (o a non agitarti troppo in altri idiomi, a seconda dell’area geografica), eppure qualcuna delle tue parole alla fine arriverà a destinazione. Scrivere loro delle lettere, poi, non è che un disperato tentativo di patteggiare una pena ridotta: a mio carico nei confronti delle bambine c’è una lunga lista di pendenze, alcune delle quali forse di rilevanza penale (tipo dimenticare di dar loro la merenda da portare in gita, permettere loro di andare sotto il temporale in costume), ma almeno se c’è una cosa che so fare – scrivere lettere infarcite di consigli non richiesti – ecco, la voglio fare anche per loro. Non credo che questo sarà sufficiente a farmi perdonare il fatto che mi dimentico sempre i nomi dei loro cantanti preferiti, che ballo in modo scomposto e rido piùsguaiatamente delle mamme normali. Inoltre, visto che siamo in vena di confessioni, ammettiamo anche che mi confondo i loro gusti – chi vuole la pasta senza parmigiano e a chi non piace il salame? –, nascondo i telefoni dei ragazzi e poi per ore, giorni a volte, non so più dove li ho messi (probabilmente perché, mentre li sottraevo ai giovani cervelli per preservarli dalla dipendenza dalla tecnologia, stavo mandando un messaggio. Va bene, lo ammetto, forse non uno solo. Una tredicina-quattordicina di messaggi). E se proprio devo dirla tutta, riconosciamo pure che a volte sgrido la prole in modalità random, più in base all’altezza del mucchio di panni da stirare, o al tempo trascorso dall’ultimo pasto, che per la gravità dell’azione commessa. La linea pedagogica risulta piuttosto influenzata anche dal numero di ore dormite: la domenica mattina nulla può scalfire la pacata autorevole serenità della figura di riferimento materna, mentre la ricerca di un elastico alle 7.50 di un giorno feriale può ingenerare una crisi isterica (qualcuno sa in quale punto del globo finiscano tutti gli elastici persi da tutte le madri della terra?). Ecco, detto questo, aggiunto quello che mi vergogno di dire e quello di cui neppure mi rendo conto, non basterà un libro a farmi perdonare le mie carenze – e gli eccessi – di madre, né basterà a proteggere le mie bambine dal dolore. Però potrò dire qual è stata per me la risposta, ciò che sta trasformando la mia ferita in feritoia da cui far passare la luce. Perché quando trovi qualcosa che funziona ti viene voglia di gridarlo a tutti (a meno che non sia quel posto in divieto di sosta in cui fanno raramente la multa, un segreto che tramanderò ai miei eredi solo sul letto di morte). Oppure, sto cercando da tempo di capirlo e vorrei ragionarne qui, può essere che non sia solo una questione personale, può essere che il modello di donna che ci viene proposto oggi, quello che va per la maggiore, non funzioni. Mi chiedo insomma se una parte di questo dolore, o anche semplicemente fatica, possa venire anche dalla monumentale difficoltà che fanno oggi le donne nel rispondere alle domande sul loro ruolo, o più precisamente dalla difficoltà di tenerli, i ruoli, tutti insieme. Perché adesso che abbiamo conquistato, almeno da questa parte del mondo, il diritto di avere tutto, siamo infelici lo stesso? O addirittura più di prima? C’è qualcosa che le nostre madri non ci hanno detto? Mentre combattevano per conquistarci dei diritti preziosissimi, di cui non le ringrazieremo mai abbastanza e di cui noi tutte beneficiamo, si sono perse qualcosa per strada? Insomma, il femminismo ci ha fregate? Ed è solo quello il problema? O c’è qualcosa di più profondo? Qualcosa che riguarda ogni donna in ogni tempo, e che ha a che fare con le risposte alla sua vocazione? Ma soprattutto, questa sofferenza nasconde o no un mistero prezioso, una capacità di fare spazio, una fecondità che può dunque trasformare il dolore in benedizione (perché alla fine essere felici è quello che ci interessa)? 1 Il mistero della donna ovvero Spose dello Sposo Mie inarrestabili figlie, è colpa della vostra esagerata energia se la ginecologa, quando mise le mani sulla mia pancia, con voi due dentro, esclamò: «Senti! Non lo senti quanta vita c’è qui dentro? Due donne!» (No, sento solo dolore alle gambe e incapacità di digerire anche una camomilla.) Però è vero, c’era tanta vita. E più crescete più ce n’è (fuori dalla pancia, fortunatamente). Io vi guardo, vi ascolto, vi spio continuamente mentre non vi limitate a vivere con un po’ troppo entusiasmo ogni cosa – l’uscita di un film e la caduta spettacolare di un fratello, una torta che per caso non mi si brucia e un’amica che viene a casa, la merenda e la scelta di una maglietta, la preghiera e il duello a spade laser – e lo fate dal primo istante in cui aprite gli occhi – sempre troppo presto – fino alla sera quando, ubriache di parole biascicate, chiacchierate fino a svenire nel sonno. Voi, come ogni femmina che conosco, non vi limitate a vivere, fate anche la telecronaca della vita. Guardo con tenerezza a questo vostro bisogno di dare i nomi alle cose, di ordinarle, ma soprattutto alla generosità con cui vivete ogni secondo, alla voglia che avete, inconsapevole ancora, di “riparare la vita”. Guardo a questa capacità di vita che avete. Capacità nel senso, etimologico, di spazio per contenere. Chiamiamolo grembo, utero, cuore, comunque sia è lo spazio interiore che ha ogni donna di accogliere e “risistemare” ogni cosa che la circonda. L’utero non serve a noi donne per vivere, è inutile ai fini del nostro organismo, ma è indispensabile alla nascita di una nuova vita. Chissà, forse anche voi un giorno sarete chiamate a questo, a far nascere un bambino, e prometto che, per quando sarò nonna, diventerò una persona normale. Oppure no, chissà, questo regalo di diventare madri vi verrà negato, succede, e sarete feconde in modo diverso. D’altra parte non si può certo dire che le tante amiche nostre che sono sposate con Gesù, come chiamate voi le suore, e quelle a cui figli naturali non sono venuti non siano fecondissime: con un lavoro di scavo in profondità, e poi di cesello, di pazienza, imparano a fare i conti con il vuoto del loro grembo e lo vivono non come frustrazione o carenza affettiva, non con senso di inferiorità, né tanto meno come qualcosa di inutile, o al contrario come una perdita che le costringa a essere supermaterne, accudenti al massimo nella speranza di essere utili: guardo alle mie amiche suore e mi è chiaro che le loro viscere materne, se sono donne consegnate a Cristo, le rendono grembo per gli altri, fonti fresche di vita nella loro capacità di adattarsi alle situazioni, accogliere, trovare soluzioni, mediare. Penso a Luisa, che è così bella che neanche il suo abito riesce a nasconderlo. D’altra parte, anni e anni di basket ad altissimi livelli lasciano tracce indelebili, ed è così esageratamente brava in tutto quello che fa, l’ingegnere e la suora (voi la vedete solo a messa, ma lei col velo va anche in cantiere), che la gente è attratta da lei come dal miele, e lei usa la sua bellezza per portare i cuori al Signore, e generare alla fede non è certo meno che partorire. Ha imparato a smettere di essere seduttiva, la nostra grande tentazione, ed è libera nella sua bellezza pacificata, come belle sono le sue consorelle Laura, che lavora nella comunicazione, e Manuela, medico, e l’altra Manuela, che parla mille lingue: il loro cuore è così fiammeggiante che se ti avvicini ti riscaldi, e voi lo sapete bene, perché chiedete sempre di vederle, voi che avete un radar sofisticatissimo per la falsità delle persone (come tutti i bambini, e per di più bambini di razza femmina, i più implacabili scovatori di finzione su piazza), e volete stare il più possibile vicino a persone così belle. Penso ad Antonella, che non è suora ma quasi, perché fa il medico con dedizione monastica, e anche se non è mamma ha uno sguardo così umano sui pazienti, che quando smonta dal turno di notte spesso me ne scrive: sono sicura che li porta tutti con sé alla messa della mattina, e alcuni riesce anche a seguirli nel tempo, dopo che li ha dimessi (lo voglio anch’io il dottore che viene a casa a chiedere come sto e mi porta la torta!). Antonella è innamorata, per esempio, dei due vecchietti sposati da sessantadue anni, con lui che le carezza i capelli e le chiude il golfino, e lei novantenne che non esce mai di casa struccata (quanto alla moda, è come un orologio fermo, se rimani lì dopo un po’ fa il giro e tu ritorni attuale, quindi la vecchietta, come mi ha raccontato Antonella, aveva un cappottino matelassé perfetto, probabilmente fatto fare per festeggiare la vittoria di Bobby Solo a Sanremo). Non è certo meno mamma di me, se trova sempre il modo di fare spazio a qualcuno nella sua vita già completamente sold-out (ma si sa che chi ha più impegni è sempre quelloche trova il modo di fare qualcosa in più, ed è il motivo per cui se devo chiedere una mano per prendere i figli a scuola la chiedo a Lucia, che avendone quattro non farà tanto caso se nel mucchio ce n’è qualcuno in più). Guardo anche in voi, mie piccole quasi donne, questo spazio interiore, questo vuoto. Lo guardo e lo riconosco, e tremo al pensiero di ciò che potrà significare nella vostra vita. Perché questo spazio e questa capacità, in definitiva questo profondo potere, potrà essere usato bene oppure male: anzi, sicuramente, mai solo bene e mai del tutto male. E per fortuna ci sarà poi chi potrà scrivere dritto anche sulle vostre righe storte. Persino tra le donne della Bibbia ce ne sono state di poco rispettabili secondo i canoni comuni (diciamo che in parrocchia non le avrebbero manco fatte leggere dall’altare, per capirci): molte di loro, a parte la Madonna, non sono mica come le immagina chi non le conosce, per non parlare di come vengono di solito raccontate le sante, sempre ritratte tutte aureole e occhietti acquosi al cielo, quando invece sono le donne forti per eccellenza (Teresa d’Avila diceva alle sue suore «siate uomini») e hanno lottato come leonesse combattendo la buona battaglia. Quanto alle antenate dirette di Gesù, quelle proprio nella sua genealogia, erano tipe niente male. Tamar voleva così tanto un figlio che si fece mettere incinta dal suocero travestendosi da prostituta (ed ebbe due gemelli!). Rahab era invece prostituta proprio di mestiere – che, a questo punto forse ve lo devo confessare, non significa proprio esattamente “baciare gli uomini solo per soldi” come vi spieghiamo ogni volta che passiamo sulla Salaria e ci chiedete come mai quelle signorine si facciano vedere praticamente in mutande da tutti – ma tradì il suo popolo per unirsi a Israele. Di Ruth vi ho raccontato tante volte: anche se il marito era morto, rimase con la suocera volendole tanto bene e aiutandola (e le suocere medie non sono simpatiche e discrete come la nonna Mari), ma poi volle scegliersi a tutti i costi il secondo marito, un ricco vedovo da cui riuscì a farsi sposare. E tra le antenate di Gesù c’è anche la traditrice Betsabea: andò con il re Davide che le aveva praticamente fatto ammazzare il marito, soldato, mandandolo a combattere in prima fila. Donne non proprio a modo, appassionate e fuori dagli schemi, ma che hanno voluto a tutti i costi la benedizione di Dio sulla loro vita. Insomma, non solo Dio non si spaventa delle nostre storie, non solo sa che dentro ognuna di noi abita la pazza di casa che ogni tanto prende il controllo, ma ha pazienza e inventiva, e sa sempre piegare al bene il nostro male, se noi abbiamo il coraggio di farci sorprendere: l’unica condizione è che gli chiediamo liberamente, ma molto seriamente, di entrare nella nostra vita e di prenderne lui il controllo. Dio sa che siamo capaci di cose grandi, lo sa perché ci ha fatte lui, e nel progredire della creazione, che passa dal caos alla bellezza del giardino (sempre separando: buio e luce, acqua e terra, e infine maschio e femmina), la donna è l’ultima creatura, quella in cui il progetto divino si fa più evidente. Lei è la parola definitiva. E Dio (che evidentemente è maschio, sennò non avrebbe messo la ritenzione idrica sulle cosce femminili) l’ha posta davanti a sé e all’uomo perché fosse per lui come un chiarimento (e non è vero, come sostiene il vostro babbo, che l’ha fatta per ultima solo perché non voleva consigli da lei su come fare l’uomo). Adamo si scopre davanti a un mistero quando si sveglia (dai, vabbè, non rispondo alle provocazioni e non faccio battutine sul fatto che l’uomo dormisse in quel momento come in molti altri, tipo quando la moglie vorrebbe esporre più diffusamente cosa intendesse prima esattamente con l’affermazione «sono stanca», preludio a una lunga lamentazione, e non, come pensava lui ingenuamente, a una dormita). Adamo scopre che ha di fronte a sé una creatura stavolta non da dominare come il resto del creato, ma un aiuto simile a lui, e insieme non comprensibile fino in fondo. Lui si riconosce in lei, e di fronte a lei lui capisce chi è. Ma in questo mistero, in questo starsi di fronte, c’è anche una grande possibilità di male: la donna può decidere di essere alleata dell’uomo – e questo permetterà ai due di essere insieme fonte di vita – ma anche di distruggerlo; e una donna che vuole distruggere un uomo saprà certo come farlo (se non si è capito, sono contro la retorica del vittimismo femminile divenuto di maniera). Se la donna capisce davvero quale possibilità di grandezza c’è in lei, quando la mette al servizio dell’altro, se la donna non usa i suoi radar potentissimi per puntare l’uomo e sparare, se i due si uniscono davvero, diventano alleati di Dio nel dare la vita, simili a lui addirittura! In ebraico, mi hanno spiegato, uomo si dice ish: cioè aleph-yod-shin, e donna issah, aleph-shin-he. Aleph e shin ci sono in entrambe le parole, mentre quando si uniscono mettono insieme le lettere a ciascuno mancanti: yod (dell’uomo, la terra da cui è stato fatto e la sua capacità di dominarla) e he (della donna, il soffio dello spirito, la sua maggiore apertura alla vita spirituale). Yod e he sono precisamente le due lettere che compongono il nome di Dio! Yahweh! Scusate l’esagerazione di punti esclamativi, ma questa cosa che nell’unione fra uomo e donna c’è scritto il nome di Dio mi sembra qualcosa di spettacolare, e più ci penso più scopro nuove implicazioni in questa rivelazione. D’altra parte, che siamo a immagine e somiglianza di Dio la Bibbia non lo dice quando parla dell’intelligenza degli uomini, o della loro volontà, o del fatto che abbiano l’anima. Dice che l’uomo è immagine e somiglianza solo nel suo essere maschio e femmina. Deve esserci proprio un intervento diretto soprannaturale se a volte riescono a mischiarsi e incastrarsi così bene dei tipi così diversi. Lo avete visto anche voi poco fa, no? Dopo due ore di Conte di Montecristo, che ho sopportate cogli occhi chiusi per metà del tempo per non vedere le botte e il sangue, Edmond e l’amata Mercedes si rivedono dopo sedici anni e finalmente parlano, e io mi bevo ogni loro sillaba col fiato sospeso e lui, il babbo, che fa? Si mette a parlare degli altri film con James Caviezel. Stava zitto da due ore due. Mi chiedo ogni tanto come facciamo ad abitare sotto lo stesso tetto. E comunque io sono certa che vostro padre mi ami davvero (sotto la seconda di reggiseno è vero amore). Solo nell’unione tra maschile e femminile, alla fine, si ripropone la dinamica trinitaria. Quel Dio, di cui uomo e donna sono immagine, è uno e trino: «Come dal Padre procede il Figlio, e dal Figlio e dal Padre lo spirito, così la donna è uscita dall’uomo, e da ambedue discendono i posteri», come dice Edith Stein. Non si può negare che in questo momento storico l’alleanza uomo-donna in molti casi si sia rotta: non che ci sia stata in passato chissà quale armonia, ma certamente possiamo dire che i ruoli fossero più codificati, e non è detto che fosse sempre un bene. Ben venga dunque la crisi – in senso etimologico “messa in discussione” –, ben venga il tentativo di sfuggire a una dinamica di dominio maschile e a tanti errori del passato. Ma certo non si può negare che, a questo punto, ora che si sono per così dire liberate (su questo torneremo), le donne debbano riscoprire la loro vera bellezza, come è stata pensata da Dio: ottenuta una libertà ora praticamente assoluta (almeno da questa parte del mondo), adesso devono liberarsi da se stesse, dalle immagini e dalle aspettative che da sole si fabbricano e si impongono. Siamo noi le peggiori nemiche di noi stesse. Che voi, bambine, scopriate la vostra vera, profonda bellezza è fondamentale, perché se c’è una donna che funziona, tutto intorno a lei fiorisce. Al contrario, una donna che non trova pace per le sue contraddizioni può seminare il caos, la pazzia intorno a sé. Adesso ascoltatemibene, mollate i colori e gli smalti e i peluche di Dory e Mike Wazowski e cercate di seguirmi, perché questa è una cosa importante, e mi piacerebbe riuscire a spiegarvela. Dunque, dentro ognuna di noi coabita, insieme alla donna generosa e accogliente che vorremmo essere, una signora non esattamente equilibrata, che come sapete io chiamo la pazza di casa (copyright santa Teresa D’Avila). La pazza di casa a volte prende il comando delle operazioni. Per esempio è gelosa fino all’ossessione (è lei che induce una donna sana di mente a controllare tremando i messaggi del marito alla compagna di classe racchia e noiosa, trasformata per un attimo in un incrocio tra Claire Forlani e Christy Turlington – le mie rivali immaginarie risalgono ormai a una quindicina di anni e quattro figli fa), o è puntigliosa e rompiscatole in modo maniacale (solo voi che vivete con me potete sapere che tragedia scatena l’errato riposizionamento di uno strofinaccio nel cassetto non corrispondente al protocollo casalinga calvinista, quella che mi possiede di solito la domenica pomeriggio), si offende per un tono sbagliato, ha degli attacchi di ansia insensata (pensavo di essere un esemplare da competizione fino a che non sono salita in macchina con Cristiana e il marito: lei gli ha cominciato a dire «frena» automaticamente appena lui tentava di superare i 35 all’ora). La pazza di casa, che occupando più o meno spazio in ognuna di noi, reagisce con fastidio alla scoperta che, nel suo raggio d’azione, ci sia una donna più bella, più intelligente, più brava o più qualcosa di lei, vuole sentirsi, se non l’unica al mondo, almeno la migliore in assoluto, quantomeno nel suo ambito (una quarantenne può anche accettare, in un attacco di onestà, di avere la pelle meno turgida di una diciannovenne, ma se è un’altra quarantenne a essere meno rugosa di lei la cosa la secca un po’. Giusto un lieve fastidio, che passa, comunque, a patto che l’altra se ne stia tranquilla nel suo campo d’influenza). La pazza in generale può fare cose inconfessabili, e un minuto dopo cercare di far credere a se stessa di essere normale. L’importante è saperlo. Nessuno di noi, visto da vicino, è normale, soprattutto le donne, mi duole ammetterlo. Che poi forse possiamo dirci che è l’altro lato della nostra ricchezza, ma ci rende pesanti come i copertoni pieni di sabbia con cui mi allenavo da ragazzina, e a cui devo le mie cosce da terzino tedesco. Siamo un mistero anche a noi stesse, e possiamo essere doppie – e già ci è andata bene – ma anche triple o quintuple. Ricomporre le nostre contraddizioni è un lavoro grande e faticoso, e, nel tempo, mai completamente archiviabile. È un lavoro quotidiano, costante, a volte doloroso. Non è una di quelle cose tipo il cambio di stagione, che a un certo punto puoi dire «ho finito», chiudere le scatole e non pensarci più. (Cioè, più precisamente, chiudere, accorgerti che hai lasciato fuori due maglioni e tre sciarpe, darti della cretina, decidere di regalarli a un’incolpevole amica pur di non salire di nuovo sul soppalco, e finalmente non pensarci più davvero.) Invece il lavoro di vigilanza su di noi, sulla nostra emotività, durerà tanto tempo, a occhio e croce tutta la vita (non abbassate la guardia, bimbe, perché ci sono persone che passano la seconda parte della loro esistenza a rovinare ciò che hanno fatto di buono nella prima). Ma come si fa questo lavoro? Non so come facciano le altre. Io personalmente credo sia un lavoro di ginocchio. Solo pregando si può riuscire, non facendo sforzi di volontà, non mostrando i muscoli, che peraltro non abbiamo mai abbastanza (la pazza di casa può essere piuttosto energica all’occorrenza). È Maria la donna della contraddizione ricompattata, e solo mettendo in moto una vita spirituale si può tentare di somigliarle. Solo pregando si riesce a non ascoltare troppo i sentimenti quando vagano come schegge impazzite, le emozioni che sembrano avere la meglio sulla nostra libertà e sul giudizio che siamo chiamati a dare sulla realtà. Solo chiedendo a Dio quello sguardo che elemosiniamo agli altri, solo chiedendo al Signore che colmi tutte le nostre attese, anche le pretese a volte, più spesso i bisogni. Belle parole, lo so. Ma in concreto che vuol dire? Vuol dire, per esempio, che una donna che prega non si offende per una risposta ruvida, per una richiesta non accolta, per uno stato d’animo non capito. Cioè, si offende, si offende tantissimo. Tu lo sai perché sei sua amica, e lei ha appena risposto «dai, sì, sto bene» al tuo «come stai?», e quindi hai mollato tutto e ti sei chiusa in macchina per parlarle: è quel “dai” che preannuncia uno sfogo enciclopedico su tutto il possibile lamento umano, e una le amiche che ce le ha a fare se non capiscono manco un segnale così chiaro? (Mio marito invece sostiene che, se non lo guardo negli occhi quando gli rispondo che non ho niente, lui lo sa benissimo che ho qualcosa, qualcosa di misurabile scientificamente nella sua gravità dal numero di volte consecutive in cui apro il frigo senza prendere niente.) Penso, per esempio, a quello che mi ha raccontato stamattina Cristiana. È vero, lei è pesante come una trapunta di mia nonna (quelle con dentro le pecore intere), e immagino che avrà rotto come al solito le scatole con virtuosismo da violinista russa perché suo marito sta sempre attaccato all’iPad. Ma a un certo punto lui ha rotto gli argini, e non oso immaginare cosa possa averle detto. Diciamo che è un tipo non esattamente morbido, e quando dice ai suoi dipendenti che vuol suonare il flauto con la loro colonna vertebrale vengono sempre per un istante sfiorati dal dubbio che non stia scherzando. Ovviamente, se sei sua moglie e ti becchi la sfuriata, ci rimani male, eccome. Ma Cristiana tiene dentro l’offesa e non la accarezza, la porta davanti al Signore, la mette nelle sue mani. Lui la trasforma in qualcos’altro, non posso dire in cosa perché Dio è un tipo molto creativo – ha creato i liocorni e le lentiggini e la cannella, per dire – ma sempre ne fa qualcosa di nuovo e di inatteso. Cura le ferite, ignora il nostro sentimentalismo e gli umori (sa anche che soffriamo di sindrome premestruale a volte, ma non le dà troppo peso), ci impedisce di assolutizzare i nostri stati d’animo (diciamo che vede le cose da una certa distanza, come minimo), ci impedisce di drammatizzare piccole parti della nostra vita, di innamorarci del nostro stare male (quanto ci piace, a volte, ma è un trucco del Nemico). Ci permette di ricordare, come dice Chesterton, che la misura di ogni felicità è la riconoscenza, cioè ricordare quello che già abbiamo (me lo ricordo perché è scritto a caratteri giganti sulla borsa di stoffa che ci ha regalato padre Maurizio). La preghiera pulisce gli occhi e ci fa vedere nella trama delle nostre giornate cosa ci fa vivere, e cosa invece solo asseconda il nostro cuore. La preghiera è una gran fatica perché ti impone di entrare in una relazione con qualcun altro che non sempre ti dà ragione su tutta la linea come fai tu, di fermare il criceto in corsa sulla ruota dei tuoi pensieri che si autoalimentano, ti fa parlare con qualcun altro, una persona viva che sola ti può dire la verità su te stessa, e che ti ama pazzamente, tanto da farti riconoscere nel marito burbero qualcuno da perdonare, perché perdono è il vero nome dell’amore, anche e soprattutto dell’amore di coppia. Infinite volte al giorno ci dovremmo perdonare a vicenda per come siamo, cioè povere persone. La preghiera è una fatica perché è obbedire a qualcun altro che non siamo noi, è obbedire per fiducia verso qualcuno che, ci hanno detto, ci ama alla follia, ma noi non sappiamo se fidarci. Non so perché, ma la donna è chiamata prima dell’uomo a fare su di sé questo lavoro di consegna di se stessa a qualcun altro che le impedisca di seguire sempre e solo i suoi umori. Se riesce a farlo, se mette in moto una vita spirituale che comprenda e superi quellasolo naturale, lo fa per sé e poi, solo poi, può insegnarlo a coloro che le sono affidati. In certe fasi della vita, questo, di una donna che vuole consegnarsi a un amore più grande, è un lavoro di trincea, e si tratta di tenere la propria postazione minuto per minuto, quando la delusione per le attese non colmate fa particolarmente soffrire, per esempio quando un marito, su cui si sarebbe messa la mano sul fuoco, si innamora di un’altra, se ne va magari; oppure al contrario, quando apparentemente niente andava storto, ed è lei a innamorarsi, profondamente, anche castamente, di una persona che non può avere; o ancora la malattia di un figlio che la costringe a un cambio di passo, a vivere trattenendo il fiato, a rinunciare al lavoro; o ancora quando la mancanza di soldi impone di cambiare completamente tenore di vita, cercare una casa, vivere di provvidenza, rinunciare a un aiuto e a tutte le piccole gratificazioni a cui ci si era abituate. Eppure, è sempre possibile essere una donna senza recriminazioni, risentimenti, rivendicazioni, se a realizzarci non sono le vicende umane, se a dirci chi siamo non sono prima di tutto quelli che abbiamo accanto: io sono Tu che mi fai, mi ripeto sempre le parole di don Giussani... è molto più complicato del cambio di stagione, quindi ve ne parlerò ancora (non vi preoccupate, dovete solo simulare entusiasmo nel ricevere queste mie lettere, non pretendo certo che mi ascoltiate, non adesso, prima dell’adolescenza, né tanto meno durante). Quello che mi preme che vi arrivi, però, è la grandezza, l’altezza sublime a cui siamo chiamate. La donna rivela all’umanità tutta la sua vera identità: lei è per ricordare a tutti che noi siamo fatti per non preoccuparci solo di noi stessi (non per niente voi due, bimbe, siete campionesse europee di farsi-i-fatti- degli-altri acrobatico), per prenderci cura degli altri, e per aprirci al definitivamente Altro, perché Dio vuole sposarci (vi consiglio di dirgli di sì, è un buon partito, anche se bisogna ammettere che non ha grandi sviluppi di carriera davanti a sé). E la donna di questa apertura all’unione con lui – dovrei dire sponsalità, ma è una parola che mi fa troppo lessico parrocchiale – è segno in modo particolare. La donna ha questa apertura all’altro in modo speciale, non certo perché sia incompleta, ma al contrario perché quando è profondamente se stessa sa aprirsi, prendersi cura dell’altro, mettere lo sguardo nell’altro. E nel prendersi cura, nell’aprirsi – ho letto nel libro che ho praticamente imparato a memoria, Il mistero della donna di Jo Croissant, che femmina in ebraico si dice neqeba, cioè cavità, ricettacolo, spazio interiore – trova finalmente la pace e la sua vera identità, ricuce i suoi strappi, medica le sue stesse ferite prima di quelle degli altri. Tutto in lei lo dice, la sua conformazione biologica, la sua struttura spirituale, la sua capacità di dimenticare sé e i propri desideri, se è per accudire un altro, l’accurata dedizione anche nel rapporto con Dio, almeno per quelle che coltivano con cura la loro vita spirituale. Nella donna si fa particolarmente evidente il disegno divino sull’umanità, ciò a cui l’uomo tende, e infatti l’unica creatura perfetta – e Immacolata – è donna, e la distanza irriducibile ma feconda tra uomo e donna è un’indicazione sul destino dell’umano. Perciò, mi ha spiegato un amico sacerdote, «l’ultima creatura che Genesi fa entrare in scena è una donna, e perciò l’ultima voce che risuona nella Sacra Scrittura, nell’Apocalisse, è di donna, è la voce della Chiesa, sposa di Dio, che invoca il suo divino Consorte». Dio vuole anche con ognuno di noi, maschio o femmina, avere una relazione da sposo, perciò ognuno di noi è affetto da questa grave malattia, cioè o è maschio o è femmina, e questa polarità, questa incompiutezza, ci costringe quasi a cercare anche nella vita dello Spirito uno sposo. Le mie sante di riferimento viventi, per esempio, voi le conoscete bene: sono le mie amiche più forti, quelle che portano il peso dei tanti figli e anche del lavoro, o della sterilità, o della madre anziana, o della malattia dei figli, o di un marito che è andato via. Non ce n’è una che non faccia la sua parte di fatica, che non porti la sua vita in offerta, ogni giorno, in quel luogo misterioso nel quale ciascuna impara uno sguardo spirituale sulla realtà. Eppure, voi le vedete perché le conoscete tutte, sono donne felici, perché c’è Qualcuno che ogni giorno dice loro «ti amo» (anche se un «sei dimagrita» e «questo capo sta al 50% di sconto» aiutano parecchio anch’esse, come frasi). Io, per quello che può valere, intanto che aspettate il vostro «ti amo», vi voglio tanto bene, tanto, e faccio il tifo per voi. La mamma P.S. Il luogo misterioso è dove si celebra la messa, ma questo è un segreto che vi dirò quando sarete più grandi, pronte per scoprire il privilegio di poterci andare ogni volta che sia possibile, non adesso che state sulla panca agitandovi come anguille, guardando l’orologio – mio – ogni tre minuti, tentando modi sempre più acrobatici per cadere dall’inginocchiatoio, inseguendo monetine che rotolano, facendo domande di teologia estrema («Ma che vuol dire “il centuplo quaggiù”? Se io regalo a Beatrice il gattino, poi avrò cento regali? E la vita eterna è in omaggio? Padre Maurizio ha detto di pregare sempre, senza interruzione, ma scusa, non posso, mi dispiace ho troppo da fare. Diglielo, a Gesù. Se mi deve parlare può lasciare detto a te»). 2 Essere figlie ovvero Lo sguardo del Padre Care figlie mie, anzi, care figlie nostre, quando vi guardo rannicchiate sotto le ascelle del babbo, che sono due appunto perché è un padre di gemelle, tutti e tre sul divano davanti alla tv (a volte quattro o cinque, se anche i fratelli, privati di wi-fi, decidono di rassegnarsi a un mezzo così obsoleto, che è comunque sempre meglio che incrociarmi in corridoio e trovarsi costretti a sport anaerobici quali il sollevamento lattine vuote da terra), quando vi vedo, dicevo, il cuore mi si allarga di gioia. Non solo perché sono certa che per tutta la durata del film nessuna mi farà domande difficili («Mamma, ma dove vanno gli atei a messa?») né eserciterà il suo senso critico sull’anziana madre (secondo me è presto per la preadolescenza, a otto anni, e potreste anche fare finta di trovarmi intonata, ogni tanto), ma soprattutto perché vedo con quanto amore vi guarda il babbo, e con quanta ammirazione gli ricambiate lo sguardo. Penso che questo sia il miglior viatico per la vostra vita futura (molto futura, si illude lui). Come canta John Mayer, lo so bene perché il babbo lo tiene a volume trentadue fisso in macchina, «padri, amate le vostre figlie: loro ameranno come voi le amate» (e prosegue con «le bambine diventano donne che amano e poi madri, quindi anche voi, madri, siate brave con le vostre figlie»). Certo, un chitarrista americano non sarà proprio autorevolissimo come faro – ormai ho perso la speranza di ampliare i miei orizzonti culturali, e tento piuttosto di contenere le perdite in vista della pensione – ma io sono certa che per la vostra serenità lo sguardo del padre sarà, è, fondamentale. Guardo voi, e l’amore che il babbo sa darvi. Poche, pochissime parole, un congruo numero di baci ma senza troppe melensaggini, come è nel suo stile: una presenza vera, costante, vicina a voi e ai fratelli. Una presenza operativa, fatta di accompagnamenti a scuola, di spesa, di merende, e poi di viaggi, di progetti, di film, di canzoni, di libri: lui è il responsabile di quasi tutto il vostro bagaglio di ricordi significativi. Io, per esempio, lo so che nelle vostre memorie dell’infanzia sarò sempre sullo sfondo, un po’ sbiadita che vi correggo i compiti, vi controllo i pidocchi o vi porto dal dentista, probabilmente mentre telefono, o mi trucco; lui invece sarà in primo piano a guidare eroicamente motorini e canoe, a srotolare mappe di città straniere e a orientarsi in unsecondo in terre sconosciute (un romanista trova l’unico pub con la partita in italiano di tutta l’Ungheria, la Colombia o il Nicaragua in pochi secondi, li fanno così, col navigatore nella dotazione base). Lo ricorderete mentre vi fa entrare in castelli e cinema, vi racconta storie – perché se ha qualcosa da dire il babbo parla, anche se certi giorni sembra difficile crederlo. Certo, il suo forte non è la vita di relazione (per quella basto e avanzo io), anche se una volta è riuscito a ricordarsi il nome di una vostra compagna. Era dell’asilo, e voi ormai stavate in seconda elementare, ma non ci formalizziamo. Si può chiudere un occhio anche sul fatto che se dormo fuori vi ritrovo sempre vestite come delle sfollate, ma vive, e ben riposate. Perché quando manco io il lungo rituale dell’addormentamento assume ritmi militari, che non prevedono di analizzare a fondo se il golfino col cerbiatto stia bene con la maglietta a rane, né l’anamnesi della drammatica rottura dell’amicizia tra Simone e Andrea (deve avere giocato un ruolo il fatto che uno abbia saltato a piedi uniti sull’ulna dell’altro), né prevedono i quattordici ultimi baci serali implorati come se non ci fosse un domani. A lui obbedite senza fiatare, nonostante sia io quella che fa i proclami più convinti sulla disciplina: impiego ore a illustrarvi la bellezza di una camera ordinata, o a dire ai fratelli che forse sarebbe bene svuotare ogni tanto le borse di boxe e di hockey visto che anche il topo che ci siamo ritrovati in casa l’anno scorso si è rifiutato di entrare nella loro stanza. In un tempo infinitamente minore il babbo fa un urlo e magicamente faldoni pieni di ritagli di cantanti ex preferiti vengono buttati nella spazzatura, magliette sudate dal Pleistocene riemergono da sotto l’armadio e vanno nel cesto della biancheria, controller della Play nei cassetti, qualcuno finge persino di leggere, nel senso antico di tenere in mano quei bizzarri fogli con le lettere sopra, proprio stampate, e che non si spostano col touch, anche se ogni tanto vi vedo che cercate di allargare le figure con l’indice e il pollice (sulla carta non funziona). Se guardo le storie di tante donne che conosco, non tutte hanno avuto la vostra fortuna: lo sguardo esclusivo del babbo su di voi (perché vostro padre ha la vita sociale di una pianta grassa, ma di voi si ricorda minuziosamente gusti preferenze e desideri – ne avete tanti, e lui se n’è lasciato invadere, tanto che avete occupato tutta la memoria libera del cervello. Sarà per questo che si aggira per casa con l’aria di un estraneo a cercare telefoni che ha in tasca e sciarpe che ha al collo), l’attenzione ai dettagli, una custodia concreta e stabile e certa. Se io sono la finestra della nostra casa, io che inviterei a cena anche i passanti e ho sempre una Paola da sentire con urgenza, una Elisabetta da abbracciare al volo, una Marisa a cui dire una cosa fondamentalisssssima, il babbo invece della casa è il muro, e senza muri non ci sono case. Guardo voi e lui e penso che, avendo ricevuto e goduto di tanta paternità, sarete capaci di evitare il rischio della dipendenza, di atteggiarvi a bambine anche quando sarete grandi, che è poi il modo più rapido per ottenere attenzione da un uomo. Lo sapeva bene Marilyn Monroe, la gattina per antonomasia: basta ostentare bisogno, fragilità, anche un accenno di stupidità abbinata a una certa biondezza, assieme a una figura a clessidra e a un tacco rotto per camminare ondeggiando. Così l’uomo si rilassa, si convince che non avrà bisogno di sforzarsi troppo per avere a che fare con la donna (diciamo che nel caso di Marilyn c’erano anche altri due o tre elementi favorevoli, sottolineati dal fatto che gli abiti di scena le venivano cuciti addosso perché troppo stretti, e che sapeva far cadere la spallina come nessun’altra al mondo – questi incidenti di percorso, tipo la gonna che sale col vento, o delle mutandine ritrovate casualmente in borsa mentre frugate davanti a lui, aiutano molto, ma siete troppo piccole per parlare di questo). La gattina è una scorciatoia, un modo per stare davanti a un uomo senza fare la fatica di stabilire un rapporto vero, sincero e non malizioso con lui. Per esempio, un uomo preferirebbe perdersi o fare sei volte il giro dell’isolato piuttosto che chiedere la strada, la gattina invece chiede continuamente indicazioni al suo uomo. Questo funziona, sia chiaro, se alla dipendenza si unisce la seduzione: la gattina non possiede vestiti da casa, ha costantemente qualche centimetro di pelle esposta, mette il profumo anche per andare a letto, e non comincia mai un discorso con «ho letto uno studio interessante su». La gattina fa scattare l’istinto di protezione, che mescolato all’attrazione erotica produce un mix esplosivo. Non sto dicendo che al primo appuntamento dobbiate coinvolgere un ragazzo in una disputa teologica (sempre meglio che fare cose proibite, anche perché Dio vede dappertutto, ma la mamma anche) o raccontargli la triste storia della vostra vita, le angherie subite nell’infanzia (io comunque il minestrone non ve lo faccio così spesso, anche se tu Lavi l’altro giorno hai chiarito, come se ce ne fosse bisogno, «io non sono vegetariana, sono dessertiana»), solo che un rapporto d’amore è molto di più di un giochetto di seduzione. Sono un uomo e una donna, due adulti, uno di fronte all’altra, nella lealtà e nella parità. È vero, sulla mia scrivania come mio personale memento ho i pupazzetti degli opossum dell’Era glaciale – quelli di «ti dico un segreto: noi siamo molto, ma molto, ma molto stupidi» –, li guardo quando sto per mettermi a scrivere affinché mi ricordino che sono sopravvalutata da un sacco di gente, e anche se ce n’è dell’altra che mi considera una minus habens (per fare media), il monito degli opossum mi fa sempre bene. Insomma, è una cosa tutta mia che serve a me, mentre nel rapporto col babbo credo di essere ormai capace di avere uno sguardo maturo su di me. Credo che bambineggiare di fronte a un uomo sia un modo per non diventare grandi noi, adulte, e anche per non far diventare grande lui: l’uomo dalla donna aspetta un chiarimento su di sé. L’uomo guarda negli occhi di una donna come in uno specchio, e da lei è chiamato alla grandezza. La gattina, contrariamente alle apparenze, non dà davvero all’uomo la grande dignità a cui ha diritto. Una donna bambina non stima il suo uomo, non lo ritiene all’altezza di avere un rapporto paritario. Che è poi l’altra faccia delle donne che schiacciano gli uomini, ne ridicolizzano la virilità. È questo l’atteggiamento prevalente oggi: disprezzare gli attributi maschili, tutto quello che sa di virile – subito etichettabile come violento – oppure ridicolizzare le debolezze, gli errori, non riconoscendone la grandezza (va bene, è vero, io il babbo lo prendo in giro, come lui fa con me, ma non potrei vivere senza di lui, almeno non prima che mi abbia insegnato come si mette Mediaset Premium). Io lo vedo tutto quello che fa per noi, per voi, e so che è di segno diverso dal mio, proprio perché è un maschio, ed è di lui che abbiamo bisogno, di un maschio, non di un’altra femmina, ché io sono già troppa. È vero, non farei mai come fa lui, praticamente nessuna cosa, manco girare il cucchiaino nella tazzina, ma è previsto nel matrimonio, non è un segno del fatto che ci siamo sbagliati. Si dice che un uomo e una donna stanno insieme per risolvere problemi che non avrebbero se non stessero insieme, e la verità è che questi problemi ci fanno bene, servono alla nostra conversione. Il babbo per esempio vi protegge quando a me parte l’embolo e decido che con voi abbiamo sbagliato tutto, e dobbiamo rifondare le regole familiari e rivedere i parametri, e mi sento leggermente Dio, o almeno Mosè, e stilo i miei tredici comandamenti (noi donne siamo meno sintetiche). Lui vi protegge dai miei cambi di umore e dalle esagerazioni – tipo che un giorno mi travesto da dietista tedesca,come quella che mi ha detto di toglierfi il parmiciano dalla pasta perché trrroppo crasso, il giorno dopo ho altro da fare e certifico come porzione di verdure quotidiana il cetriolo dell’hamburger di Mac, e già che ci sono pure il ketchup, con le sue tracce di pomodoro. Il babbo valuta le mie richieste – io sono per voi con lui la mediatrice delle grazie, dai, questo me lo riconoscerete – con un certo equilibrio, al quale io cerco sempre di dare un colpetto in avanti, e se non sono d’accordo con lui voi non lo saprete mai, perché discutiamo in separata sede. Qui a casa si cerca di ricordare che l’autorità è una cosa buona, e che anche quella fallace del babbo si prova a rispettarla perché segno di un altro Padre (sarebbe poi pure un comandamento, per dire). Esattamente lo stesso motivo per cui invece da tante parti si rifiuta l’idea di autorità, in blocco, percepita sempre come autoritarismo, dove si considerano diritti i desideri. Essere di fronte a un’autorità in modo adulto è una cosa che si impara, lungamente, ed è il cammino dell’adolescenza: rispetto, ascolto, e poi libertà nella decisione finale. Certe donne questo cammino non lo fanno quando sarebbe giusto farlo, cioè negli anni in cui diventano adulte. Rimangono bambine, o fanno le virago. Sia i rapporti di dipendenza infantile dall’uomo sia quelli di rifiuto di ogni dipendenza (perché, poi? È così bello avere bisogno l’uno dell’altra, per poter portare i pesi insieme, per incrociare i diversi sguardi sulle cose, per aiutarsi nella fatica di vivere) sono spesso il frutto di un rapporto ferito con il padre. Né la dipendenza né l’indipendenza sono segno di vera libertà. Ma questo non è irreparabile. Pensate a Ester. No, non quella della Bibbia che va dal re Assuero e lo acceca con la sua bellezza, la storia che vi ho raccontato qualche volta, che poi è la mia preferita dell’Antico Testamento. Dicevo Ester la mia amica, la mamma di Cecilia, Filippo e Bea. Lei viene da una famiglia davvero squinternata: il suo babbo era un professore universitario stimatissimo fuori di casa, importante e considerato da tutti gentilissimo e disponibile. Peccato che in casa si trasformava: non c’era mai, e se c’era urlava. Si innervosiva molto ogni volta che qualcosa gli ricordava che esistevano Ester e la sorellina: una scarpa in giro, una tazza rotta, un ombrello dimenticato, amichette rumorose in casa; anch’io ho assistito a delle sue scenate davvero spaventose. Almeno, così mi sembravano quando avevo la vostra età, e andavo a fare i compiti, ma soprattutto merenda, da lei (in quei meravigliosi anni in cui il mio organismo aveva il fabbisogno calorico dell’equipaggio di una portaerei), anche se più spesso era lei a venire da noi, se non altro perché la casa grande dei nonni ci permetteva di rifugiarci, tutte e due, in angoli segreti in cui potevamo bisbigliare le nostre cose o sentirci lontane da ogni controllo. Il babbo di Ester si arrabbiava per motivi assurdi, incomprensibili e anche imprevedibili, e io che mi spaventavo a morte pensavo, per farmi coraggio, che per me era solo questione di tempo, presto me ne sarei tornata a casa mia. La mia amichetta, invece, era già a casa, eppure sola, senza un posto in cui scappare. Per il resto del tempo lui era assente, e c’erano davvero rari momenti in cui Ester poteva intuire tutta la bellezza e la simpatia di cui lui era capace quando voleva. Era davvero un gran bel tipo di uomo (e infatti la figlia aveva una passione per lui), solo che queste qualità non le riservava mai alla sua famiglia. La mamma aveva da tempo smesso di combattere contro gli eccessi del marito, non ce la faceva proprio: anche lei aveva avuto le sue ferite da piccola, e aveva deciso di arrendersi, si era ritirata in un silenzio in cui tutte le sue energie erano destinate alla personale sopravvivenza, non aveva niente che le avanzasse per riscaldare Ester e Noemi (che strano, mi son sempre chiesta perché due nomi biblici, in una famiglia in cui Dio sembrava assente: qualche messa a volte, ma neanche sempre la domenica, soprattutto non un rapporto vivo col Signore). Adesso non vorrei improvvisarmi una psicoqualcosa da quattro soldi, ma la mia amica la conosco bene, la conoscevo almeno, e posso dire che, secondo me, il suo vagare da un ragazzo all’altro, il suo continuo bisogno di conquista, il suo essere sempre un po’ allumeuse, promettendo passioni e intrighi che poi non concedeva, anche in un modo ingenuo e infantile a volte, è spiegabile con la sua storia, con gli sguardi e le attenzioni che non ha avuto, con la ricerca di una figura materna che non l’ha accudita e di una paterna che è mancata, non come manca qualcuno che è assente, ma di più, come manca qualcuno che è presente ma in modo cattivo. Credo che un sacco delle stupidaggini che ha fatto Ester se le sarebbe potute risparmiare, se non avesse cercato negli uomini quello che non aveva avuto nel momento giusto. È chiaro, a parte Gesù, chi di noi può dire di avere avuto genitori perfetti? Tutte le maternità e le paternità umane feriscono, perché il nostro cuore è pieno di una mancanza, sempre. Detto questo, c’è chi ha avuto di più, chi ha avuto di meno. Ester ha avuto proprio poco a casa sua, pochi baci complimenti aiuto sostegno (effettivamente, adesso che ci penso, lei era l’unica alle gare di nuoto a non avere mai nessuno dei suoi nei pressi, ma non solo: i suoi si può dire che neanche sapessero che aveva le gare), e la sua storia successiva ne è stata inevitabilmente segnata per sempre. Ogni sua scelta è stata, almeno all’inizio, una richiesta di attenzione: andare bene a scuola, nuotare più forte delle altre, essere più magra, essere più simpatica, non dispiacere a nessuno, e soprattutto non dispiacere ai suoi ragazzi. E siccome si adattava a loro, ai loro desideri e alle attese, se ne stancava sempre molto presto: essere qualcun altro così diverso da se stessi è troppo faticoso. Quando non si sa chi si è, e ci si lascia continuamente definire dallo sguardo, dalle parole, dal giudizio degli altri, tenere in piedi una relazione è difficilissimo – per essere in relazione con un altro bisogna prima essere qualcuno – ed è un paradosso, perché della relazione si ha un bisogno vitale, come se da soli non si riuscisse a vivere. Probabilmente è per questo che di ragazzi lei ne ha avuti una ventina, ma tutte storie di giorni o massimo di mesi: molti di più se contiamo quelli per cui ha solo avuto delle cotte. Appena li conquistava, si stancava di loro, di fare la gattina per piacere, di continuare a essere quello che si era sforzata di essere per conquistarli. Poi per un periodo – lei lo racconta come un tempo eterno, ma probabilmente non è stato così lungo, io direi a occhio e croce due anni – ha avuto il coraggio di rimanere sola, e di cercare lo sguardo che davvero la potesse sanare, quello di Dio. Ha deciso di lasciarsi definire dal suo sguardo, di non fare più niente solo per piacere alle persone. È stato un tempo di silenzio, ma fecondo: lo immagino come il tempo in cui il suo chicco è stato sotto terra a marcire. In quel tempo Ester ha capito chi era. Preghiera, silenzio (nel senso di silenzio del cuore, cioè di non cercare qua e là facili consolazioni affettive), e l’aiuto di una guida spirituale... Piano piano ha perdonato i suoi genitori, ha deciso di esserne a sua volta madre, di guardare con sguardo misericordioso le loro mancanze, le carenze di cui loro erano i primi a soffrire. Per questo ci sono voluti anni, e penso che le ferite di quella mancanza ci saranno sempre. Però Ester ha imparato a farci i conti, non perché sia diventata forte, o grande, ma perché la paternità di Dio l’ha sanata. Ha smesso di fare la bambina, ha deciso di seguire Dio con serietà, pagando un prezzo vero, sanguinante, di tasca sua, innanzitutto accettando la solitudine, poi prendendosi le proprie responsabilità nello studio, nei primi anni del lavoro, nella gestionedella vita da sola. Ha smesso la vita svaccata e disordinata, ha imparato una disciplina, ha accettato il fatto di non avere avuto qualcuno che la accudisse come un dato di fatto, e ha smesso di lamentarsene, di fare la vittima, perché certe cose se non le si è avute non le si ottengono più, non è che si possa stare ad aspettare un risarcimento per tutta la vita, o farla pagare a quelli che ti stanno intorno. La storia della salvezza, come dice sempre il mio padre spirituale, si chiama storia, appunto, e non fotografia, perché non succedono miracoli veloci, si passa attraverso il deserto e ci si può stare anche quarant’anni come il popolo di Israele. Ma la buona notizia è che da un’infanzia ferita (tutte più o meno lo sono) si guarisce se si impara a stare sotto lo sguardo del Padre. A pensarci adesso, mi sembra che il nome di Ester sia stato profetico per lei. Anche la mia amica ha usato la sua bellezza per sopravvivere, per cercare sguardi che le dessero ciò di cui aveva bisogno. E anche la mia amica, come Ester, è riuscita a neutralizzare il nemico, che per lei non si chiamava Aman ma dipendenza, si chiamava vanità, si chiamava finzione. Una donna così smette di fare scelte tutte in funzione dello sguardo degli altri, e diventa feconda e fonte di vita. Ed essere feconde e fonti di vita è quello per cui siamo state progettate, è quello a cui tende ogni nostra cellula e, in ultimo, è quello che ci rende felici. Per questo è così importante pacificarci col nostro essere figlie: per poter essere madri. Pacificarci, cioè uscire dalla dipendenza, senza per questo scegliere un’indipendenza forzata e innaturale, come quella della mia amica che vi piace tanto, Giorgia. Io lo so che vi piace e un po’ vi incuriosisce, anche perché è così diversa da me: vi sembra strano vedere una mamma che ha senso dell’orientamento, che propone gite e dice parolacce, che fuma e beve e cambia le ruote e monta le mensole (nota per il lettore gender fluid: in casa nostra siamo altamente favorevoli al mantenimento di alcuni stereotipi, perché crediamo che le differenze siano una ricchezza, e che esprimerle, anche attraverso degli stereotipi, sia pratico, serva persino a orientarsi nella realtà a volte, anche se sappiamo che la realtà è sempre molto più complessa. E infine è anche comodo; io non voglio avere a che fare con mensole o ruote, e sono ben contenta di lasciare queste rotture di scatole a mio marito. L’unica cosa che mi interessa delle mensole è quante scarpe ci posso mettere sopra). In realtà, secondo me alcune di queste cose lei le fa perché è costretta, non perché le piacciano. È costretta dal fatto che è sola, benché io non sappia esattamente dire se faccia queste cose perché è sola, oppure se sia sola perché fa queste cose. Non che una donna che ama il bricolage non possa avere un uomo, per carità, non è obbligatorio considerare le dita solo come un sostegno per lo smalto per essere femmine (le vostre due zie Chiare sono una ingegnere, l’altra mostruosamente brava con le mani, ed entrambe hanno un uomo). Insomma, il dibattito su chi, tra maschi e femmine, dovrebbe fare delle cose è noioso e molto condizionato da tanti fattori: il punto è accogliere o meno l’idea di dipendere da qualcuno nel senso di essere complementari, sì, ma anche bisognosi e monchi, se non sposi (i consacrati sono sposi anche loro). Giorgia ha avuto un’infanzia faticosa quanto quella di Ester, sebbene in modo diverso (si può essere infelici in modi molto fantasiosi). Suo padre non era irascibile o assente, ma anzi, il padre perfetto, da manuale. Impegnato nella fede, un po’ compagno, un po’ cattolico, tutto preso dalle battaglie per gli indios dell’Amazzonia, dalle lotte sindacali, dalla giustizia (era magistrato). Tutti sembravano meritevoli della sua attenzione, anche ai suoi numerosi figli (non mi ricordo mai se ne avesse otto o nove) dedicava riflessione seria e impegno, era uno di quei babbi che fanno delle questioni sulle letture dei figli, sulle amicizie, sulle loro scelte. La mamma lo seguiva nelle sue battaglie civili e di fede, solo che forse erano un po’ troppe, queste battaglie, per una mamma di una squadra di calcio. Insomma, banalmente, a Giorgia è mancato affetto, tempo, attenzione. Ha imparato molto presto che era meglio cavarsela da sola, non stare troppo ad aspettare aiuti o attenzioni, non chiedere, non disturbare. I fratelli l’hanno portata da piccola ai collettivi di autocoscienza, l’hanno cresciuta a pane e diritto all’emancipazione, e la scoperta di essere una femmina ha coinciso per lei con l’ascoltare e ripetere «l’utero è mio e lo gestisco io» (l’utero è quel sacchettino che vi servirà a tenere i bambini dentro la pancia, sì, ce lo avete anche voi, ora è piccolo piccolo, ma potrà diventare grande, enorme se avrete anche voi dei gemelli – nel caso mi trasferirò nei pressi di casa vostra per aiutarvi ad allacciare le scarpe). Insomma, la sua crescita è stata un lungo allenamento all’idea di non avere bisogno di nessuno, né degli uomini “lontani, distratti, freddi” né di quel Dio militante che si prendeva tutte le energie dei suoi genitori (a questo Dio noi a volte facciamo fare un po’ quello che ci va; ricordatemi sempre, quando me ne dimentico, che l’angelo custode di santa Francesca Romana, col quale lei conversava abitualmente, spariva dalla sua vista quando lei trascurava i figli per stare troppo a lungo in chiesa). Lo so, la faccio troppo semplice la storia di Giorgia, e lo so che ogni vita è un mistero, noi siamo un mistero a noi stessi, figuriamoci se posso entrare nel segreto groviglio della vita della mia amica, che peraltro ho conosciuto quando era già adulta, ma insomma quello che volevo dirvi è che è difficile per tutti fare i conti con i propri genitori, anche con quelli esemplari, o apparentemente tali. Credo che ci sia in giro persino della gente che mi attribuisce capacità educative: spero che non assistano mai alle mie conversazioni coi fratelli, tipo «e dai Berni, che ti costa raccogliere i fazzolettini da terra e metterli nel cestino?», «non so a me, ma a te costerà tre euro convincermi a farlo». Voi invece lo sapete che razza di educatrice sono: ho un bel kit di principi variabili a seconda di quanto sono stanca o di cattivo umore. È evidente che la raccomandazione di finire tutto il minestrone prima di alzarsi da tavola può subire qualche lieve limatura se sono io a dovermi alzare per vedere una puntata di Big Bang Theory, mentre l’attenzione a non prendere pioggia è più o meno stringente se bisogna correre in centro per quegli stivali in saldo («L’acqua fa bene») oppure se la meta sono le poste per ritirare la raccomandata («Il cielo è grigio, potrebbe piovere, meglio stare a casa con un filmetto»), anche perché raramente le raccomandate portano buone notizie (ma forse non guidavo io, forse l’autovelox mi ha scambiata per un’altra, la bionda con la Bmw, portate a lei la raccomandata, io sono bionda finta, si saranno confusi). Diventare adulti, anche per voi, a un certo punto vorrà dire mettervi in spalla lo zainetto con tutto quello che vi abbiamo dato, compreso tutto il male, e partire. Ecco, ci sono persone che hanno uno zaino particolarmente pesante da trascinarsi dietro; Giorgia ha deciso che doveva farcela da sola, e quello che le è successo nella vita è stato proprio questo, che ha fatto tutto da sola. La figlia, la casa, le difficoltà nel lavoro: tutto da sola. È davvero forte la mia amica, ma lo è così tanto che gli uomini neanche le si avvicinano più. È un peccato perché è di una bontà e di una intelligenza straordinarie, però il babbo dice che è esattamente il tipo di donna che qualsiasi uomo fugge come la peste: problematica, pesante, complicata. Ha praticamente un cartello appeso al collo: ho un sacco di problemi ma me li risolvo da sola. Non c’è dichiarazione che possa tenere alla larga un potenziale compagno più di questa: è come dirgli «starai scomodissimo(e la ricerca della comodità è uno degli alti e nobili e segreti fari che orientano di solito gli uomini nelle loro scelte) ma non potrai far nulla per risolvere il problema, perché io non ho bisogno di te» (e la possibilità di risolvere i problemi è ciò che fa sentire un uomo tale). Praticamente il peggio che uno si possa augurare. Diventare grandi significa uscire dalla fase delle scelte tutte fatte in funzione degli altri, per piacere o per non dispiacere, ferire, urtare, schiacciate da una sorella o una mamma, alla ricerca di un padre, sempre dipendenti dallo sguardo altrui. Lo so che diventare grandi è l’ultima delle vostre preoccupazioni, a parte il fatto che volete andare a comprarvi le goleador da sole al bar, ma vi assicuro che presto non sarà più così. Essere libere nel giudizio nostro e dagli sguardi altrui è la specifica libertà femminile, di noi esseri ipercritici verso noi stesse, perfezioniste insicure. Le strade sono due: la psicanalisi o la contemplazione. Io voto la seconda, perché l’analisi ti rattoppa, ma solo Dio salva e guarisce e fa nuove tutte le cose, ci fa scoprire non di essere perfette, ma imperfette e amabilissime insieme. E inoltre ha il potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, e aprire vie nuovissime nella nostra vita, anche quando ci sembra di essere finite contro un muro. Lui ha una grande fantasia sulla nostra vocazione, e per fortuna le sue fantasie non coincidono quasi mai con le nostre. Dio, grazie per le mie preghiere non esaudite, per non aver permesso che sposassi quel ragazzo assurdo, che vincessi la finale olimpica degli 800, che facessi la suora di clausura, che fossi ricca, che fossi completamente sana di mente. Grazie per i miei bisogni, per le voragini, le ferite, le cicatrici, le pazzie. Grazie per le mie pretese assurde continuamente frustrate, che mi costringono ad alzare gli occhi a te. Grazie perché non mi reggo in piedi da sola e non puoi essere per me come una ciliegina sulla torta. Grazie perché devi essere la mia torta, sennò muoio di fame. Grazie perché mi rendi ogni giorno una donna salvata e mi fai sperimentare che tutto è possibile per chi crede, ma veramente tutto. Grazie per le grandi cose che hai fatto nella mia vita, anche se la materia prima – un soggetto davvero squinternato – avrebbe fatto vacillare chiunque, ma non per niente tu non sei chiunque, tu sei Dio. Grazie perché quando tutti mi dicevano che non potevo neanche sognare di scrivere un articolo mi hai aperto la strada per scrivere quattro libri, che non sono niente in confronto ai quattro figli, ma sono comunque molto più di quanto sperassi di poter combinare nella vita, al di là degli affetti. Grazie perché hai fatto tutto diverso da come lo pensavo io, per fortuna qualche volta mi sono fidata di te, perché se noi ti chiediamo di fare la tua volontà tu non ci rifiuti niente, come a santa Teresa d’Avila che era stufa per quanti miracoli ottenesse, prima ancora di avere il tempo di chiederli. Grazie perché una donna che prega è la più grande forza del mondo, grazie perché ci affidi la fede degli altri, perché chiedi agli uomini di indicare le strade, e a noi donne di riprendere quelli che sono rimasti indietro, grazie perché prima ci guarisci nel nostro essere figlie, poi ci regali di diventare madri, dei nostri figli o di quelli delle altre. La mamma 3 Essere donne ovvero A chi voglio piacere, io? Care Livia e Lavinia, scrivo a voi due piccole donne che all’improvviso, in un solo giorno di otto anni fa, avete cominciato a riempire di gioia e di mutande con le principesse la nostra casa. E lo faccio rivolgendomi a tutte e due insieme, anche se voi tenete molto al fatto di essere ben distinte, lo so, me lo ricordo bene che una sta nel banco con Simone e una con Matilde, anche se adesso, se mi interrogate a sorpresa, su due piedi non saprei dire chi sta con chi. Me lo ricordo benissimo che siete due. E comunque mi è successo pochissime volte di dimenticarmi Lavinia nella culla e di fare il bagnetto due volte di seguito a Livia, d’altra parte lei da piccola piangeva di più, e si faceva notare, che è poi una delle regole base del marketing e della comunicazione d’impresa nell’era del web (chi urla più forte viene preso in braccio). Devo scrivere a entrambe perché vorrei parlarvi del fatto di essere donne, e questa è una cosa che senza dubbio vi riguarda tutte e due. Siete talmente femmine che avete cominciato a balbettare l’una con l’altra infiniti incomprensibili discorsi quando avevate pochi mesi e zero denti; e adesso, dopo esservi scambiate molte parole e caramelle ciucciate e cerotti a cuore, ancora parlate fino allo sfinimento ogni sera, al buio – che avrete di nuovo da dirvi dopo una giornata passata insieme? – intrecciandovi mani e cuscini e pidocchi. I vostri fratelli, invece, si mandano virilmente e silenziosamente foto e insulti su WhatsApp, da un piano all’altro del letto a castello, per non dover avere troppi contatti reciproci, e per risparmiare energie; e, se proprio non possono fare a meno di abbracciarsi, prima almeno si menano un po’, e io non so mai in che punto interrompere la loro affettuosa lotta (possibilmente un secondo prima del trauma cranico). Come vi ho raccontato tante volte, quando mi hanno detto che eravate due, sono impazzita di gioia. Be’, la parola “quando” deve essere intesa in modo elastico. Non proprio nell’istante. Prima ho pensato che passare da due a quattro figli in un giorno solo fosse un passo azzardato, anche perché in casa non c’era proprio posto, per non parlare della macchina piccola e del lavoro precario. Ho detto all’ecografista che era un pensiero carino da parte sua, generoso, ma io ero lì per farmi dire se mio figlio si era impiantato bene, ha sentito dottore?, ho detto mio, o mia, è lo stesso, ma uno. Io ho pagato per una ecografia. Ma lui è stato pochissimo conciliante. Ne vedeva proprio due. Non uno grosso. Due. Comunque mi sono serviti, credo, quattro minuti. Il tempo di scendere dal lettino e ho cominciato a saltare di gioia, ed è stata una delle ultime volte che l’ho fatto, fino al giorno del parto, perché la ginecologa poi mi ha detto che se fossi andata a correre – come ho fatto quando aspettavo i vostri fratelli – durante una gravidanza gemellare mi avrebbe spezzato una tibia con una mazza da hockey (e qualcosa nella sua voce mi diceva che lo avrebbe fatto davvero). Insomma, poi ho saltato di gioia da ferma, perché Dio aveva ascoltato tutte le mie preghiere, e anche qualcuna in più: credo che, quando io e la vostra bisnonna Irma siamo andate a Loreto a chiedere che la Madonna intercedesse per un altro figlio – c’era bisogno di lei perché il progetto all’inizio non aveva, per così dire, l’approvazione entusiasta di tutto il consiglio di amministrazione familiare – forse non ci siamo accordate bene. Le nostre richieste sono state prese entrambe in carico dal call-center che smista le preghiere, ma separatamente, si vede. Ed ecco, due donne sono entrate nella nostra vita. Due rumorosissime loquacissime complicatissime creature, che non si sa mai come parlarvi per non rigarvi. Come l’altro giorno, quando a te, Lavinia, ho detto che il compito di scienze era disordinato, e tu sei andata in crisi quando ti ho consigliato di rifarlo e mi hai detto «ma io non voglio consigli, io voglio un complimento», che poi è quello che anch’io per quanto mi riguarda ripeto a vostro padre da quasi vent’anni. Tra parentesi, io vi avviso, questa sarà una delle cose più difficili da far capire a un uomo. Loro hanno questa fissa di risolvere i problemi, e a volte lo fanno anche benissimo, ma non capiscono quasi mai che noi a quel problema siamo anche un po’ affezionate, e non è necessariamente la soluzione quello che stavamo cercando (a volte risolve di più un «sei la donna che tutti desidererebbero» che due ore di bassa manovalanza offerta in soccorso, perché quella ci toglierebbe il
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