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GREEK_TRAGEDY_Dinamogrammi_psicologici_e

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PSICHE 1/2018
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Dinamogrammi, psicologici 
e non, nella costruzione 
drammaturgica
La storia dei igli di Edipo 
nella tragedia greca, da Eschilo a Sofocle
Monica Centanni
Il contributo tratta della costruzione del meccanismo tragico che 
mette in scena la crisi politica della monarchia arcaica, un meccanismo 
fatto più di dinamogrammi e di relazioni tra i caratteri, che di psicolo-
gia. In altre parole: nell’uso (e abuso) che ne è stato fatto, la psicoanalisi 
rispetto alla materia tragica greca spesso, anziché strumento di riles-
sione e di visione da altra angolatura (che non sia quella strettamente 
ilologica o letteraria), è servita piuttosto a «spoliticizzare» la tragedia. 
Nel contributo non analizzerò però il capitolo «psicanalitico» della sto-
ria del pensiero sul tragico (che non affronterò), ma giocherò in diretta 
e in positivo l’argomento del come l’ermeneutica psicanalitica, se usata 
a buon ine e in relazione con altre chiavi di lettura, può funzionare per 
capire più a fondo il senso del tragico.
«L’elemento più importante nella costruzione della tragedia è la 
composizione dei fatti»: così Aristotele in uno dei più noti e frequenta-
ti capitoli della Poetica, che è utile rileggere e parafrasare integralmente 
per introdurre il nostro tema (Aristotele, Poetica, 49b 15 ss.)1. Gli attori 
1 μέγιστον δὲ τούτων ἐστὶν ἡ τῶν πραγμάτων σύστασις. ἡ γὰρ τραγῳδία μίμησίς ἐστιν 
οὐκ ἀνθρώπων ἀλλὰ πράξεως […]. οὔκουν ὅπως τὰ ἤθη μιμήσωνται πράττουσιν, ἀλλὰ τὰ ἤθη 
συμπεριλαμβάνουσιν διὰ τὰς πράξεις· ὥστε τὰ πράγματα καὶ ὁ μῦθος τέλος τῆς τραγῳδίας, τὸ δὲ 
τέλος μέγιστον ἁπάντων. ἔτι ἄνευ μὲν πράξεως οὐκ ἂν γένοιτο τραγῳδία, ἄνευ δὲ ἠθῶν γένοιτ᾽ 
ἄν· αἱ γὰρ τῶν νέων τῶν πλείστων ἀήθεις τραγῳδίαι εἰσίν, καὶ ὅλως ποιηταὶ πολλοὶ τοιοῦτοι, οἷον 
καὶ τῶν γραφέων Ζεῦξις πρὸς Πολύγνωτον πέπονθεν: ὁ μὲν γὰρ Πολύγνωτος ἀγαθὸς ἠθογράφος, 
ἡ δὲ Ζεύξιδος γραφὴ οὐδὲν ἔχει ἦθος. ἔτι ἐάν τις ἐφεξῆς θῇ ῥήσεις ἠθικὰς καὶ λέξει καὶ διανοίᾳ εὖ 
πεποιημένας, οὐ ποιήσει ὃ ἦν τῆς τραγῳδίας ἔργον […]. ἀρχὴ μὲν οὖν καὶ οἷον ψυχὴ ὁ μῦθος τῆς 
τραγῳδίας, δεύτερον δὲ τὰ ἤθη.
Monica Centanni, ilologa classica, Università Iuav di Venezia
Monica Centanni86
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– continua Aristotele – non sono in scena per rappresentare caratteri, 
ma assumono un carattere attraverso le azioni. Perciò azione e intreccio 
sono il ine della tragedia e questo è ciò che conta più di tutto. In altre 
parole, senza azione non può esserci tragedia, senza caratteri psicologi-
ci sì. Al punto che – nota Aristotele – i «nuovi drammi» sono del tutto 
privi di caratteri: il parallelo è quel che avviene nella pittura in cui si 
passa da Polignoto, ottimo «pittore di caratteri» a Zeusi, la cui pittura 
non tiene in alcun conto la psicologia dei personaggi. Ma d’altronde, se 
il tragediografo mette in scena una sequela di monologhi psicologici, se 
pure ben fatti dal punto di vista stilistico e concettuale (in sintonia con 
l’ethos che ha costruito per i suoi personaggi), non centrerà il ine della 
tragedia. Principio e per così dire l’anima della tragedia è il racconto e 
poi, al secondo posto, stanno i caratteri.
La parafrasi che ho proposto qui sopra tiene conto del lessico con-
testuale proprio della Poetica e della traduzione dei concetti aristotelici 
nel nostro, attuale, lessico culturale: perciò sarà opportuno soffermarci 
e approfondire il senso di alcuni dei termini di questo discorso (che è, 
ancora, il nostro discorso sulla tragedia): μῦθος, μίμησις, ἦθος, ψυχή.
Platone chiama mythoi le parabole ilosoiche che introduce come 
inserto allegorico nei suoi dialoghi (ad esempio il «mito» della Caver-
na, il «mito» di Er)2. Nel lessico aristotelico mythos (μῦθος) deinisce 
precisamente la «composizione dei fatti»: è il plot del dramma, sia essa 
una storia tratta dal repertorio tradizionale condiviso da ripescare fra 
le storie di famiglie regali dell’età arcaica (gli Atridi, i Labdacidi ecc.), 
o i racconti della guerra di Troia e dei ritorni dei guerrieri alle loro case 
(i vari nostoi degli eroi), ma anche avvenimenti più recenti, percepiti 
come epocali (ad esempio le recenti guerre persiane); oppure, più ra-
ramente, il mythos tragico può essere una storia di invenzione, pura 
fiction. Senza ulteriori eccedenze semantiche, mythos signiica dunque, 
semplicemente e strettamente, la «trama» del dramma, e la metafora 
del tessuto suona bene anche in greco: la tragedia si costruisce intorno 
a un «intreccio», una serie di fatti che il tragediografo cuce insieme e 
2 Il mito della Caverna è contenuto nel libro VII della Repubblica; il mito di Er nel libro X 
dello stesso dialogo. 
87Dinamogrammi, psicologici e non, nella costruzione drammaturgica
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restituisce drammaturgicamente in un disegno che sarà, il più possibi-
le, lineare, compatto, internamente sequenziale e non contraddittorio 
(Aristotele, Poetica, 50a 5 ss.); sarà un’azione che deve avere «una certa 
estensione», «un principio, uno svolgimento, una ine» e, a differen-
za del racconto epico, si sviluppa e si compie interamente nel tempo 
circoscritto concesso dalla convenzione e dalla verisimiglianza teatrale 
(Aristotele, Poetica, 50b 24-26)3. 
Per altro, a differenza di altri generi poetici come l’epica o la storia, 
la tragedia è un drama, ovvero, essenzialmente, imitazione/rappresen-
tazione di una «azione». Nella lezione aristotelica, la poesia è presen-
tata sempre come «imitativa» come già lo era (ma in una accezione 
teoreticamente negativa) per Platone; ma Aristotele è il primo a rilet-
tere sul iltro ulteriore che comporta l’invenzione teatrale. Il tea tro – 
prima ancora della suddivisione secondo qualità fra tragico, comico 
e satiresco – è una forma di mimesi di secondo grado: il teatro non 
rappresenta ma «presenta» azioni, le fa accadere scenicamente come se 
stessero accadendo proprio in quel momento. Non è rammemorazio-
ne, elaborazione letteraria o rappresentazione epica di fatti accaduti, 
ma presentazione in diretta di azioni. Perciò il teatro funziona a patto 
che lo spettatore stia al gioco della complicità inzionale; lo spettatore 
è convocato attivamente a fingere, credendo con gli attori che quel che 
viene presentato in scena, stia accadendo «veramente»: a scoprire in 
diretta che nel coro delle fanciulle tebane dei Sette a Tebe ci sono an-
che Antigone e Ismene; a voler puriicare la città dalla peste e perciò 
indagare, con l’ignaro Edipo, sull’assassino del re Laio; a ignorare con 
Edipo, ino alla ine della tragedia sofoclea, che Giocasta è sua madre.
Dunque tornando all’elemento centrale, per montare un drama, al 
centro della composizione deve esserci un mythos – ovvero lo schele-
tro di una trama: Il mythos infatti è «come l’anima» (οἷον ψυχὴ) del 
dramma. Ma cosa signiica qui «anima»? ψυχή (psyche) per Aristotele 
ha propriamente il senso che il termine ha nel vocabolario greco ino 
3 κεῖται δὴ ἡμῖν τὴν τραγῳδίαν τελείας καὶ ὅλης πράξεως εἶναι μίμησιν ἐχούσης τι μέγεθος: 
ἔστιν γὰρ ὅλον καὶ μηδὲν ἔχον μέγεθος. ὅλον δέ ἐστιν τὸ ἔχον ἀρχὴν καὶ μέσον καὶ τελευτήν. Sul 
fatto che Omero insegna che anche la trama della migliore poesia epica è basata sul taglio e sul 
montaggio, si veda Poetica 51a 23-30.
Monica Centanni88
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a tutto il IV secolo a.C.: non già un ente autonomo rispetto al corpo, 
ma «anima» nel senso molto concreto e niente affatto spiritualistico 
di «spirito vitale» che anima un corpo, che lo tiene «animato», vivo. 
L’aggettivo ἔμψυχος (empsychos) si riferisce a tutti gli esseri «animati», 
ovvero dinamicamente vivi. Senza psyche, appena lo spirito vitale viene 
esalato con l’ultimo respiro, il termine che indica il corpo diventa sino-
nimo di «cadavere» (σῶμα). Il mythos è dunque – dice Aristotele nelle 
sue lezioni – psyche («per così dire l’anima della tragedia») nel senso 
molto materialistico e tecnico di armatura narrativa, che dà una «ispi-
razione» al poeta nel senso che gli fornisce la materia prima per tenerein piedi l’opera: è il senso per cui si chiama «anima» lo scheletro me-
tallico di un bottone che va poi imbottito di stoffa, e poi cucito perché 
diventi un bottone inito. La materia mitica offre al poeta e all’artista 
uno schema narrativo che sarà da «imbottire» con altri elementi, fra i 
quali c’è anche l’ethos. 
ἦθος è il «carattere», ovvero quello che potremmo chiamare il «pro-
ilo psicologico» del personaggio. Va da sé che in Aristotele non ricor-
re il termine «psicologico»: come noto nella lingua greca, dall’età ar-
caica al tardo ellenismo, non si registrano occorrenze né del sostantivo 
psychologia, né, di conseguenza, dell’aggettivo derivato psychologikos 
(Liddel, Scott, 1940). Però la sinossi dei passi aristotelici (non solo 
della Poetica) in cui compaiono ἦθος o derivati ci consente di acco-
stare il termine, nel passaggio di nostro interesse proprio alla sfera di 
quella che noi chiamiamo «psicologia»4. Il drammaturgo, dunque, se-
condo Aristotele deve certo fare attenzione a conigurare con proprie-
tà il proilo psicologico dei personaggi, ma l’ingrediente primario e 
imprescindibile resta la trama, dato che il dramma è costruito più sulla 
sintassi di fatti, che sulla psicologia dei personaggi. Certo è importante 
che i caratteri dei personaggi siano nettamente delineati, verosimili e 
persuasivi, ma la tragedia non presenta caratteri, ma azioni. Si arriva 
pertanto al paradosso che l’arte somma del tragediografo è mettere in 
4 In questo senso l’aggettivo ὴθικός viene tradotto con «psicologico» anche in autorevoli tra-
duzioni della Poetica: per restare solo in ambito italiano, ad esempio Carlo Gallavotti, curatore 
dell’edizione critica della Poetica per la prestigiosa collana di classici della Fondazione Valla, così 
traduce un passaggio del brano in esame (Aristotele, Poetica, 49b 27-29): «Se un autore allinea 
discorsi ricchi di psicologia, etc.» (Gallavotti, 1982, 23).
89Dinamogrammi, psicologici e non, nella costruzione drammaturgica
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atto un dispositivo di simulazione, facendo credere agli spettatori che 
gli attori non siano in scena per riprodurre caratteri precostituiti, ma 
che assumano i loro caratteri (il carattere e lo stile retorico-espressivo 
che lo stesso autore ha deciso preventivamente per ciascuno dei perso-
naggi) mediante le azioni che avvengono in scena (Aristotele, Poetica, 
50a 15-23). Quel che decide della riuscita di una tragedia e che dà il 
metro di valutazione della bravura del drammaturgo, non è dunque la 
rappresentazione dei caratteri psicologici dei personaggi, ma la veri-
simiglianza e la coerenza interna dei comportamenti, discorsi, azioni 
che i personaggi attiveranno rispetto alla trama. E d’altro canto sarà la 
curva che l’autore impone alla stessa trama, la costruzione di un mec-
canismo basato per lo più su peripezie, rivelazioni e riconoscimenti, 
che piegherà l’ethos del personaggio e rivelerà – in diretta, in scena – la 
qualità di un carattere drammaticamente eficace. Aristotele individua 
vari dispositivi per la costruzione di una buona struttura tragica e fra 
questi gioca senz’altro un ruolo il proilo dei personaggi che deve es-
sere eccezionale, non nel senso di «migliore» in senso morale, ma di 
straordinario, ovvero eccedente, nel senso della grandezza (ma ancora, 
non della qualità morale), rispetto al proilo degli «uomini reali» (ibi-
dem, 48a 2 ss.)5. Questa, infatti, è la «superiorità» di Eteocle e Poli-
nice nei Sette di Eschilo, e poi di Edipo e di Antigone nelle tragedie 
omonime di Sofocle (ma anche la «superiorità» di Medea e di Alcesti 
nelle tragedie euripidee a loro intitolate): una tempra che si rivela mi-
surando la reazione dei personaggi agli eventi innescati dallo sviluppo 
della trama, e che li porta a compiere, proprio sulla scena teatrale, atti 
«oltre-umani». 
Dunque, secondo Aristotele, senza trama non può esservi tragedia, 
senza caratteri (ovvero senza «psicologia») sì (ibidem, 49b 23-25)6; in-
fatti «la tragedia è rappresentazione di un’azione, non di uomini» (ibi-
dem, 49b 16-17)7. Trama e caratteri: certo il bravo drammaturgo deve 
dare il giusto peso ai due elementi che stanno in testa ai sei membri 
5 Dove il comparativo che indica la qualità dei caratteri tragici rispetto «a noi» (βελτίονας… 
ἣ καθ ἡμᾶς) è da intendere in senso di superiorità non morale, ma assoluta.
6 ἄνευ μὲν πράξεως οὐκ ἂν γένοιτο τραγῳδία, ἄνευ δὲ ἠθῶν γένοιτ᾽ ἄν. 
7 ἡ γὰρ τραγῳδία μίμησίς ἐστιν οὐκ ἀνθρώπων ἀλλὰ πράξεως.
Monica Centanni90
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indicati come costitutivi del dramma: trama, caratteri, registro stilisti-
co, pensiero, spettacolo, musica (ibidem, 50a 9-10)8. Aristotele infatti 
stigmatizza che i «nuovi tragediograi» (ovvero i suoi contemporanei, 
del IV secolo a.C.) sono «poeti di intreccio», ovvero fanno drammi 
costruiti solo sulla trama e non sui caratteri (ibidem, 50a 25-26)9; ma 
anche inilare nel dramma lunghi discorsi dei personaggi che suonano 
come «tirate psicologiche», anche se siano ben costruite sul piano del 
registro retorico e dei concetti, non consegue l’effetto proprio della 
tragedia (ibidem, 50a 29-31)10.
A differenza della commedia, che fa teatro proprio dei diversi ca-
ratteri dell’umano, ino ad arrivare a un numero inito di combinazioni 
drammaturgiche, al gioco prevedibile tra maschere isse dei canovacci 
della commedia dell’arte, la tragedia trae spunto da embrioni di fatti, 
mythoi tratti indifferentemente dal passato o dal presente (in termini 
nostri: dal mito o dalla storia), ma nel dramma non si dà nessun carat-
tere predeterminato. Il personaggio diventa ciò che è (e che prima non 
era) agendo l’azione drammatica. Nel corso del dramma il personaggio 
non è chiamato a esibire la sua psicologia, ma il carattere (preferibil-
mente un carattere forte, deciso, intenso, eroico) è sperimentato nel 
fuoco dell’azione: l’attore – colui che fa l’azione drammatica – fa di 
conseguenza anche il personaggio, trovando occasione, nell’azione, di 
dar prova del suo proilo caratteriale, e di partecipare all’esperimento 
di verisimiglianza e di eficacia espressiva di cui il dramma consiste. 
Dunque, tornando al passo da cui ha preso spunto il mio commento: la 
migliore tragedia si ha quando i personaggi «assumono il loro carattere 
attraverso le azioni» (ibidem, 50a 20-22)11. 
All’interno di queste coordinate indicate da Aristotele va letta anche 
la composizione drammaturgica operata da Eschilo e da Sofocle nelle 
tragedie tratte dalla saga tebana dei Labdacidi.
8 ἀνάγκη οὖν πάσης τῆς τραγῳδίας μέρη εἶναι ἕξ, καθ᾽ ὃ ποιά τις ἐστὶν ἡ τραγῳδία· ταῦτα δ᾽ 
ἐστὶ μῦθος καὶ ἤθη καὶ λέξις καὶ διάνοια καὶ ὄψις καὶ μελοποιία.
9 αἱ γὰρ τῶν νέων τῶν πλείστων ἀήθεις τραγῳδίαι εἰσίν, καὶ ὅλως ποιηταὶ πολλοὶ τοιοῦτοι.
10 τι ἐάν τις ἐφεξῆς θῇ ῥήσεις ἠθικὰς καὶ λέξει καὶ διανοίᾳ εὖ πεποιημένας, οὐ ποιήσει ὃ ἦν τῆς 
τραγῳδίας ἔργον. 
11 οὔκουν ὅπως τὰ ἤθη μιμήσωνται πράττουσιν, ἀλλὰ τὰ ἤθη συμπεριλαμβάνουσιν διὰ τὰς 
πράξεις.
91Dinamogrammi, psicologici e non, nella costruzione drammaturgica
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Com’è noto, la prima tragedia conservata in ordine cronologico, trat-
ta dalla storia della genealogia tebana, è i Sette contro Tebe di Eschilo. Il 
dramma faceva parte di una tetralogia che comprendeva altre tre opere 
perdute: Laio, Edipo, e il dramma satiresco Sfinge (Centanni, 2003, 96-
108, 117-191, 682-685, 763-852). Le vicende della tradizione dei testi 
tragici ci hanno restituito soltanto l’ultimo dramma della trilogia e non le 
tragedie intitolate a Laio e al iglio Edipo. Ma forse non è un caso: l’ulti-
mo capitolo della saga dei Labdacidi12 con la storia dell’ostilità fra i igli 
di Edipo, che culmina nel fratricidio incrociato dei fratelli-nemici, ha 
avuto una fortuna più importante rispetto al capitolo della saga relativo 
a Edipo – una fortuna continuata che, come testimoniano le fonti lette-
rarie e iconograiche, perdura dall’età arcaica al tardo-antico, dai testi 
omerici ino a Stazio,per arrivare ino al medioevo romanzo. Nel dram-
ma conservato della tetralogia tebana possiamo apprezzare come Eschi-
lo tratti la storia e, in particolare, come costruisca la trama del dramma 
(μῦθος) e che deinizione dia ai caratteri psicologici dei personaggi (ἤθη). 
La drammaturgia dei Sette è tutta giocata sullo schema dei duelli alle set-
te porte che ha al centro la celebre «scena degli scudi». Il meccanismo 
dell’abbinamento alle sette porte, che costituisce il dispositivo dramma-
turgico portante del dramma, comporta che secondo il ballottaggio che 
decide dell’abbinamento dei sette sidanti alle sette porte – rievocato in 
scena dal Messaggero nel prologo (Eschilo, Sette contro Tebe, vv. 54-56), 
ma i cui esiti saranno rivelati poi via via, porta per porta –, alla Porta 
Settima risulterà schierato Polinice (ibidem, vv. 631 ss.); sul fronte dei 
«difensori» di Tebe, Eteocle invece aveva dichiarato, in dall’inizio, che 
avrebbe scelto sei campioni da opporre agli sidanti e che al settimo po-
sto avrebbe schierato sé stesso (ibidem, v. 282)13. L’intreccio costruito da 
Eschilo per far accadere teatralmente il fratricidio, prevede quindi che il 
duello fatale avvenga all’incrocio del caso e della decisione: il sorteggio 
avvenuto in campo argivo che posta Polinice alla Porta Settima, e la de-
12 O penultimo, se consideriamo il mythos degli epigoni, i igli dei Sette: ma per molte ragioni 
che non ho qui lo spazio per approfondire, quel capitolo a mio avviso è da considerarsi un sequel 
costruito a posteriori rispetto al nucleo mitico maggiore (per un approfondimento su questo tema 
rimando al volume al quale sto lavorando: Dal «mythos» al «drama»: selezione e montaggio dram-
maturgico nelle tragedie di Eschilo).
13 ἐγὼ δέ γ᾽ ἄνδρας ἓξ ἐμοὶ σὺν ἑβδόμῳ.
Monica Centanni92
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liberazione di Eteocle di postare sé stesso alla Porta Settima. Nel mythos 
che Eschilo inventa per la sua tragedia, la scelta di Eteocle non punta 
direttamente e volontariamente allo scontro fratricida: Eteocle è incon-
sapevole del fatto che a quella porta incontrerà Polinice, anche perché 
tutta la prima parte della tragedia, dal montaggio della trama (μῦθος) 
alla scelta dei registri retorici (λέξις), è giocata sulla scotomizzazione del 
fratricidio incombente. La guerra è presentata come l’assedio di un eser-
cito nemico, e soltanto alla ine della serie dei duelli sarà evidente che, 
al centro dell’ostilità, sta l’impulso fratricida che muove sia l’aggressore 
Polinice che il difensore Eteocle. Soltanto alla ine si rivela che la guerra 
non è, come la propaganda di Eteocle affermava, l’aggressione a Tebe 
di un esercito nemico e straniero, ma che è l’altro re ad attaccare la sua 
stessa città per contendere – legittimamente – a Eteocle la sua parte di 
potere. Alla Porta Settima, infatti, si rivela che la guerra è una guerra ci-
vile, e per di più fratricida: quella porta è sorvegliata da «Apollo, signo-
re del Sette, per dar compimento nei igli di Edipo all’antico errore di 
Laio» (ibidem, v. 799)14. In questa cornice, dettata dalla cornice dettata 
dall’intreccio-mythos precostituito, Eschilo inventa anche il proilo dei 
due fratelli-nemici: quella tonalità di un astio così profondo e viscerale 
che può avvertirsi soltanto nell’odio fraterno. Ma le motivazioni psico-
logiche di Eteocle e Polinice sono puri dinamogrammi al servizio della 
trama: il dispositivo drammaturgico prevale sui caratteri che, per dirla 
con Aristotele, «vengono per secondi rispetto all’intreccio».
Così nel duello fatale si versa il sangue contaminato perché troppo 
consanguineo, «troppo uguale» (ibidem, v. 681)15 dei igli di Edipo e si 
consuma anche la vicenda genealogica della dinastia dei Labdacidi. Il 
sacriicio del doppio corpo regale dei due fratelli è un rito di passaggio 
istituzionale irreversibile. I igli di Edipo nella versione eschilea muo-
iono «senza igli» (ibidem, v. 830)16. Il sangue di Eteocle e Polinice ver-
14 καλῶς ἔχει τὰ πλεῖστ᾽, ἐν ἓξ πυλώμασι· / τὰς δ᾽ ἑβδόμας ὁ σεμνὸς ἑβδομαγέτης / ἄναξ Ἀπόλ-
λων εἵλετ᾽, Οἰδίπου γένει /κραίνων παλαιὰς Λαΐου δυσβουλίας.
15 ἀνδροῖν δ᾽ ὁμαίμοιν θάνατος ὧδ᾽ αὐτοκτόνος, «morte autoinlitta di due uomini che hanno 
lo stesso sangue» (si noti il ricorso, semanticamente tragico, al duale in ἀνδροῖν ὁμαίμοιν).
16 ἀτέκνους κλαύσω πολεμάρχους; non esistono, non potrebbero esistere nel racconto eschileo, 
gli Epigoni – i igli dei Sette che nel sequel epico-mitograico della saga tebana riusciranno a ri-
conquistare Tebe e a vendicare i loro padri (si veda supra n. 12).
93Dinamogrammi, psicologici e non, nella costruzione drammaturgica
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sato a contaminare la terra è l’estremo frutto endogamico del miasma 
che corrode il genos regale e, in quel sangue, si estingue inalmente la 
stirpe dei regnanti di Tebe. Il dramma eschileo fu messo in scena nel 
teatro di Dioniso di Atene nel 467 a.C. e la versione originale (che nel 
inale non è pervenuta17) si concludeva con tutta probabilità con la 
scena del funerale congiunto dei due igli di Edipo: «La città è salva 
ma i re, nati dal medesimo seme, sono morti, i guerrieri: si sono uccisi 
l’un l’altro, con le loro mani» (ibidem, vv. 804-805)18: questo l’annun-
cio che dava il via all’esodo funebre del dramma19. Il Coro composto 
da fanciulle tebane si avviava ad accompagnare i due corpi «inalmen-
te inseparabili» con un threnos – un canto luttuoso. La voce corale ino 
ad allora era rimasta indistinta: era la voce di tutte le fanciulle tebane 
atterrite per la guerra incombente e, alla ine, con l’animo diviso tra 
la gioia per lo scampato pericolo e il dolore per la morte dei due re 
(ibidem, v. 814)20. A questo punto, con un espediente drammaturgico 
(lo stesso al quale Eschilo ricorre anche nella parodos di Coefore e 
nell’esodo di Supplici), dal Coro, composto da giovani donne di Tebe, 
si alza la voce di due fanciulle tebane speciali, a cui è assegnato il 
compito di condurre, da corifee, il doppio corteo funebre: Antigone e 
Ismene, le iglie di Edipo. Mentre il nome di «Ismene» è attestato nelle 
versioni della saga tebana precedenti alla tragedia di Eschilo, il nome 
«Antigone» compare per la prima volta nel testo di Eschilo: potrebbe, 
forse, essere stato lo stesso tragediografo a inventare il nome e il per-
sonaggio di Antigone, componendo una coppia femminile in parallelo 
alla coppia Eteocle/Polinice, e attribuendo alle due sorelle una diversa 
intonazione del lutto.
17 La tragedia eschilea è pervenuta con un inale spurio, rimaneggiato certamente per una 
messa in scena da collocare alla ine del V secolo a.C., e comunque dopo l’Antigone di Sofocle la 
cui trama riecheggia, banalizzata e riassunta, nell’esodo che i manoscritti ci hanno tramandato. Sul 
inale dei Sette rimando alla nota su «Il inale interpolato» (Centanni, 2003, 845-852); e a Centanni 
(2011a).
18 πόλις σέσωσται· βασιλέες δ᾽ ὁμόσποροι ἅνδρες τεθνᾶσιν ἐκ χερῶν αὐτοκτόνων.
19 Sullo sfondo della versione tragica del mito tebano, sta l’atto di rifondazione della cos-
tituzione politica ateniese: così Eschilo nel rappresentare la sida di Eteocle in chiave di gioco 
strategico-retorico di altissima temperatura estetica, rappresenta simultaneamente l’esperimento 
democratico in atto con le riforme di Eialte e di Pericle; sul tema del conlitto tra genos e polis 
inscenato nei Sette come problema cruciale (Kernproblem) della istituenda democrazia ateniese, 
cfr. Zimmermann (1993, 113-114). 
20 τοιαῦτα χαίρειν καὶ δακρύεσθαι πάρα (così il Messaggero, rivolto alle fanciulle del coro).
Monica Centanni94
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Le scelte drammaturgiche di Eschilo – la sintassi irreale che impo-
ne alla battaglia con il lungo episodio in cui sono evocati per parole e 
immagini (e immediatamente compiuti) i duelli, e poi il inale con il 
funerale dei fratelli nemici – sono innovazioni tanto potenti che daran-
no l’innesco ad altre elaborazioni del mythos tratto dalla saga tebana21. 
Sofocle si attacca direttamenteal inale del dramma eschileo con pre-
cisi richiami lessicali, retorici, tematici22. Dall’esodo corale dei Sette 
contro Tebe – che supponiamo sia l’avvio dell’originale inale eschileo 
– Sofocle prende spunto per comporre l’intreccio del suo dramma, 
in cui l’antinomia tragica è innescata proprio dalle contraddittorie 
emozioni del Coro e soprattutto dal sentimento ambivalente, gioioso 
e luttuoso insieme, dalle contrastanti pulsioni che agitano il cuore del-
le fanciulle. Da qui, dall’ampliicazione di un’oscillazione del pathos, 
nasce il personaggio di Antigone23. Il mythos della tragedia sofoclea 
altro non è che lo sviluppo dell’incertezza espressa dalle due sorelle 
nel inale originale dei Sette, combattute tra l’amore fraterno, la paura 
ancora incombente per la minaccia del fratello nemico, la gratitudine 
verso il fratello che aveva difeso e salvato la città, il precetto rituale 
che prevede la sepoltura di entrambi i fratelli. L’intreccio che Sofocle 
sviluppa prevede due fuochi dell’azione: da una parte le ragioni della 
città che poggiano su leggi e su decreti promulgati e «scritti», dall’al-
tra le ragioni intrattabili del sangue e dei riti che prevedono la pietas 
per i morti: leggi salde, divine, non scritte (Sofocle, Antigone, vv. 454-
455)24 in quanto rispondenti a radici ancestrali e prepolitiche, e per-
ciò politicamente impronunciabili, non scrivibili. In mezzo, la forza di 
un amore/odio originalmente, essenzialmente, incestuoso che stringe 
in una morsa inesorabile i volti «troppo uguali», «auto-fraterni», dei 
21 La scena degli scudi, con i duelli dei sette aggressori e difensori alle porte di Tebe, sarà 
anche oggetto di rifacimenti e di attacchi metateatrali da parte di Euripide che, qualche decennio 
più tardi, si esercita sulla stessa materia tebana in Supplici e in Fenicie.
22 Si veda, ad esempio, il ricorrere dell’immagine della nave/città (Sofocle, Antigone, v. 161 
e passim), e il riassunto completo dei Sette contenuto nella parodos, con richiami puntuali a versi 
eschilei (ibidem, v. 126, v. 141). 
23 Sulla costruzione di Sofocle del personaggio e della tragedia di Antigone, a partire dagli 
spunti mitograici e letterari precedenti e in particolare rispetto allo spunto eschileo, cfr. Zimmer-
mann (1993, 115-ss.).
24 ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν / νόμιμα.
95Dinamogrammi, psicologici e non, nella costruzione drammaturgica
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igli di Edipo25. La tragedia di Sofocle si sviluppa sul ilo di questa 
trama, puntando sull’innovazione di un ruolo da protagonista: l’ethos 
del personaggio di Antigone, il suo proilo psicologico predeinito 
come duro, intrattabile, ferreo ino ad essere freddo e mortifero. Alla 
ine della tragedia, punito nei suoi affetti più cari, per aver leso quei 
«diritti non scritti», ma in difesa delle ragioni materiali e simboliche 
della città contro il nemico interno che all’attacco della sua stessa città 
aveva portato un esercito nemico, Creonte piange, e in scena risuona-
no, grazie al resoconto del Messaggero, le urla della sua disperazione 
dall’interno della reggia (ibidem, vv. 1209 ss.). A differenza di Creonte, 
Antigone non piange. Antigone non sa piangere: la iglia di Edipo non 
conosce altra passione che non sia quella – infetta – per il genos di 
origine: andrà sposa ad Ade – questo il suo sterile destino (ibidem, v. 
815)26. Ma in un passaggio del dramma, ad Antigone sfugge una bat-
tuta che rivela che il sacriicio della vita a lei non costa poi così caro, 
perché grande sarà (dal suo punto di vista) la ricompensa: «Mettere 
io nella tomba il mio stesso fratello, più che fratello: quale gloria più 
splendida potrò mai avere?» (ibidem, vv. 502-504)27. Nell’etica arcaica 
di cui Antigone è – insieme ad Alcesti – uno degli ultimi campioni, 
non ha alcun pregio la conservazione della vita, e il bene, reale e sim-
bolico, della città è completamente fuori orizzonte: l’unico guadagno 
è il suono futuro della gloria – come per gli eroi omerici, κλέος la riso-
nanza del nome, il premio per il quale si accetta volentieri di spendere 
la propria vita. Ma nella stessa battuta in cui rivendica per sé «la più 
splendida gloria», Antigone ci rivela un altro lato implicito del suo 
ethos: sottolinea infatti che il valore dell’atto rituale della sepoltura 
del fratello è ampliicato dal fatto che a Polinice la stringe una forma 
straordinaria di parentela – una parentela superlativa, proprio in for-
za dell’origine incestuosa. Non si tratta, infatti, semplicemente, di un 
«fratello» (ἄδελφος), ma di un «più-che-fratello», di un «autofratello» 
25 In consonanza con la serie di evocazioni dell’eccesso di consanguineità presenti nei Sette 
che Eschilo propone giocando sul piano lessicale, semantico, grammaticale, retorico, si veda l’at-
tacco di Sofocle, Antigone, v. 1: ὦ κοινὸν αὐτάδελφον Ἰσμήνης κάρα, «O questo nostro volto, volto 
mio, stesso volto tuo di sorella, Ismene».
26 ἀλλ᾽ Ἀχέροντι νυμφεύσω; cfr. Centanni (2011b).
27 πόθεν κλέος γ᾽ ἂν εὐκλεέστερον / κατέσχον ἢ τὸν αὐτάδελφον ἐν τάφῳ / τιθεῖσα.
Monica Centanni96
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(αὐτάδελφος). Nessuna vergogna, in queste parole di Antigone, per 
il miasma dell’incesto da cui traggono vita i igli di Edipo: nessun ri-
cordo di quel «solco» che Edipo ha fecondato con il suo seme. Negli 
accenti di Antigone la maledizione dell’incesto, che pure più volte lei 
stessa stigmatizza come la causa prima della rovina della sua stirpe, è 
brandita come un’insegna da portare con orgoglio, perché proprio il 
marchio dell’incesto rende ancora più stretto, ancora più necessario, 
il vincolo di parentela. Il fratello, in particolare quel fratello, è insosti-
tuibile anche perché, nota Antigone con una moto di rammarico che 
suona quasi incredibile: «Fosse un marito che mi è morto, potrei aver-
ne un altro; o avrei potuto fare un iglio, con un altro uomo, se avessi 
perso quello di prima. Ma ora che mia madre e mio padre sono morti, 
non c’è un altro fratello che possa nascere da quel ceppo» (ibidem, vv. 
909-912)28. La morte di Giocasta e di Edipo ha sancito la ine della 
sua stirpe straordinaria: non è solo la perdita affettiva che la sorella 
accusa, quanto piuttosto il danno non risarcibile della scomparsa di 
un fratello così speciale; è la rovina dei frutti del seme di Edipo, seme 
insieme maledetto e formidabile. Se madre e padre fossero vivi – af-
ferma Antigone, insieme incosciente e arrogante rispetto all’incesto 
che ha prodotto lei e i suoi fratelli – altri frutti potrebbero nascere da 
quel ceppo.
Un carattere eccezionale posto al centro di una trama che ampliica 
e sviluppa un ilo sottile del inale dei Sette di Eschilo: questa la storia 
dei igli di Edipo nell’Antigone di Sofocle – una tragedia destinata ad 
avere un successo notevolissimo a partire dalla riscoperta moderna, e 
soprattutto dal XX secolo, ma che ad Aristotele non doveva piacere 
molto se è vero che nella Poetica è citata in un solo passaggio – e in 
negativo, a proposito della irrisolta, «non tragica» e «priva di pathos» 
scena di Emone e Creonte (Aristotele, Poetica, 53b 36-54a 2)29.
La storia dei igli di Edipo, e il trattamento teatrale che di essa pro-
pongono prima Eschilo nei Sette e poi Sofocle nell’Antigone, dà diversi 
28 πόσις μὲν ἄν μοι κατθανόντος ἄλλος ἦν, / καὶ παῖς ἀπ᾽ ἄλλου φωτός, εἰ τοῦδ᾽ ἤμπλακον, / 
μητρὸς δ᾽ ἐν Ἅιδου καὶ πατρὸς κεκευθότοιν / οὐκ ἔστ᾽ ἀδελφὸς ὅστις ἂν βλάστοι ποτέ.
29 ἢ γὰρ πρᾶξαι ἀνάγκη ἢ μὴ καὶ εἰδότας ἢ μὴ εἰδότας. τούτων δὲ τὸ μὲν γινώσκοντα μελλῆσαι 
καὶ μὴ πρᾶξαι χείριστον· τό τε γὰρ μιαρὸν ἔχει, καὶ οὐ τραγικόν· ἀπαθὲς γάρ. διόπερ οὐδεὶς ποιεῖ 
ὁμοίως, εἰ μὴ ὀλιγάκις, οἷον ἐν Ἀντιγόνῃ τὸν Κρέοντα ὁ Αἵμων.
97Dinamogrammi, psicologici e non, nella costruzione drammaturgica
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spunti per intendere cosa Aristotele intenda quando parla di prima-
to della trama sui caratteri nella costruzione del dramma tragico. Lo 
spazio del teatro corrisponde, architettonicamente e concettualmente, 
alla igura dell’ellissi:due fuochi, due ragioni a confronto sul quale il 
tragediografo intesse prima di tutto una trama (μῦθος) traendola dal 
repertorio mitico condiviso; intorno ai due fuochi, ruotano i caratteri 
psicologici dei personaggi (ἤθη), i quali si relazionano tra loro e rispet-
to allo sviluppo della trama, in modo imprevedibile, per confronto e 
differenza dei loro potenziali energetici. Come dinamogrammi, gioca-
no a rivelare il proprio proilo via via che si dipana l’intreccio, perché 
solo nel campo di forze dello spazio teatrale, sono nell’azione (δρᾶμα), 
sono messi in movimento e quindi hanno modo di presentarsi. Tut-
to questo, direbbe Gilles Deleuze, anche per quanto pertiene al gioco 
dell’inconscio che per sua natura è «perfettamente ateo, perfettamente 
orfano», non ha niente a che fare con il triangolo asittico della «sacra 
famiglia», in cui va in scena il falso movimento del complesso di Edipo 
(Deleuze e Guattari, 1972, 62). Ma per questo tema – anche a propo-
sito dell’Edipo Re di Sofocle e della critica alla lettura psicanalitica or-
todossa della tragedia negli scritti di Deleuze – rimando a un prossimo 
contributo. 
Riferimenti bibliograici
Gallavotti C. (a cura di) (1982), Aristotele, Dell’arte poetica, Milano, Fondazione 
Valla/Mondadori.
Centanni M. (a cura di) (2003), Eschilo. Tutte le tragedie, Milano, I Meridiani 
Mondadori.
Centanni M. (2011a), Atene, 407/406 a.C.: guerra civile, gioco metateatrale e rie-
laborazione politica del finale dei «Sette contro Tebe» di Eschilo, in La storia 
sulla scena. Quello che gli storici antichi non hanno raccontato, a cura di A. 
Beltrametti, Roma, Carocci.
Centanni M. (2011b), La vergine necrofila, Antigone, in Donne in rivolta. Tra arte 
e memoria, a cura di S. Sebastiani, Bologna, Il Mulino.
Deleuze G. e Guattari F. (1972), L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. 
di Alessandro Fontana, Torino, Einaudi, 2002.
Monica Centanni98
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Liddell H.G. e Scott R. (1940), A Greek-English Dictionary, reviewed and au-
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Zimmermann C. (1993), Der Antigone-Mythos in der antike Literature und Kunst, 
Tübingen, Classica Monacensia.

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