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Il nano

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Par Lagerkvist
 
 
IL NANO
 
 
Introduzione di Fulvio Ferrari
 
 
 
 
 
 
 
 
IPERBOREA
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Titolo originale
Dvärgen
(Albert Bonniers Förlag, Stoccolma, 1944)
 
Traduzione dallo svedese di
Clemente Giannini
a cura di Fulvio Ferrari
 
 
 
la Edizione, dicembre 1991
2a Edizione, maggio 1997
 
© 1989, The Estate of Par Lagerkvist
© 1991, IPERBOREA s.r.l.
via Palestra 22 -20121 Milano
Tel. 02-781458 - Fax 02-798919
ISBN n. 88-7091-024-5
 
 
In copertina:
Velàzquez: Filippo IV cacciatore, 1632
(particolare)
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INTRODUZIONE
 
 
 
Ci sono scrittori il cui nome si imprime nella memoria del
pubblico associato a una definizione lapidaria, a una formula
che ne riassume l'opera e ne sottolinea la peculiarità. In questo
non c'è niente di male, anzi, significa che, evidentemente, il
pensiero dell'autore ha colto un problema sentito più o meno
oscuramente da tutta un'epoca e ha saputo trasporlo in
letteratura, in simboli efficaci che grazie a lui entrano a far
parte del patrimonio comune dell'umanità.
Nel caso di Pär Lagerkvist la formula che, agli occhi del
pubblico internazionale, sintetizza la sua ampia produzione
artistica è quella dell'ateismo religioso. Ed è una formula
legittima: il contributo più prezioso che lo scrittore svedese ha
dato alla letteratura universale è certo quello di un tormentato
riflettere sul bisogno di dio in un tempo in cui ogni dogmatica
certezza è venuta a mancare, in cui, per lo meno, il concetto
stesso di dio va ridefinito nel confronto con le immagini del
reale proposte dalla scienza e dalle diverse religioni, dalle
diverse cristallizzazioni del sentimento religioso nel corso della
storia. Questa riflessione, presente nell'opera di Lagerkvist fin
dall'inizio, fin dai tentativi poetici pubblicati sulla stampa della
gioventù socialista, raggiunge una prima compiuta espressione
artistica nel romanzo Il sorriso eterno del 1920, e troverà dopo
la Seconda guerra mondiale il tono e lo stile più appropriati.
Nasceranno allora i capolavori che hanno reso il suo nome
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celebre a livello internazionale: Barabba (1950), La sibilla
(1956), La morte di Ahasvero (1960), Pellegrino sul mare (1962),
La terra santa (1964), Mariamne (1967).
La centralità del tema religioso non deve però far
dimenticare gli altri, molteplici aspetti dello scrittore
Lagerkvist. A partire dal suo impegno giovanile per un
rinnovamento del linguaggio letterario svedese, per una
profonda innovazione formale che portasse poesia e prosa,
l'arte della parola, al livello espressivo raggiunto dai movimenti
d'avanguardia già affermatisi nell'ambito dell'arte figurativa, il
cubismo in primo luogo. Né può essere ignorato il suo interesse
per l'attualità politica, il suo generoso schierarsi a difesa della
giustizia e degli oppressi, dall'iniziale milizia in campo
socialista fino al romanzo antinazista Il boia, del 1933, e alla
satira di A quel tempo, del 1935.
In questo panorama ampio e vario - al cui centro,
ineludibile, si spalanca il vortice della domanda più radicale,
quella sul senso dell'esistere - Il nano occupa un posto tutto
particolare. In questo libro e solo in questo, infatti, Lagerkvist
non osserva il dolore e l'inquietudine dell'uomo né
"orizzontalmente", da pari a pari, con la solidarietà del fratello
e compagno di sorte, né "verticalmente", dal punto di vista
dell'ostinato e vano tentativo di innalzarsi al divino. Il punto di
osservazione è qui "dal basso", chi guarda e descrive non è
umano, ma inumano e del tutto incapace anche solo di
concepire il sovrumano.
Capita a volte anche ai singoli libri quel che, abbiamo detto,
accade agli scrittori: divenire cioè riassunti in una formula e di
esserne poi accompagnati sempre, in storie letterarie e voci
d'enciclopedia, in biografie e saggi. La formula in cui è stato
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distillato Il nano, anzi, per essere esatti il suo protagonista, è
quella di personificazione del male. E questa formula non è
legittima. Se non altro perché male vuole dire troppe cose
diverse, e una figura letteraria che volesse personificarle tutte
sarebbe o terribilmente astratta o fantasticamente proteiforme. Il
nano di Lagerkvist è invece una figura di grande coerenza e
concretezza nella sua alterità ed enigmaticità. In cosa consiste,
dunque, la specifica malvagità del nano protagonista e voce
narrante del romanzo? In primo luogo nella mostruosità del suo
sguardo. Perché il nano compie sì, nel libro, alcune azioni
decisive, ma soprattutto guarda, annota, descrive, e quella che
nel suo diario prende forma e vita è una molteplicità di esseri
umani in cui l'impronta del divino è assente, non vista. Ci
troviamo così di fronte a una sorta di calco, a un'ombra
grottesca dei "tipici" personaggi di Lagerkvist: tutto quello che
in Lagerkvist rappresenta l'essenza stessa dell'umanità - la
ricerca di un senso, l'esperienza dell'amore - risulta invisibile o
incomprensibile agli occhi del nano, occhi che non "hanno
alcun difetto" e tuttavia non riescono a vedere le stelle. Sarà il
lettore a riempire gli spazi lasciati vuoti dal narratore, a
indovinare e ricostruire come da un negativo i momenti di
slancio, d'amore, di generosità.
Proprio perché cieco di fronte al divino nell'uomo, lo
sguardo mutilo del nano risulta tanto più acuto
nell'individuarne gli aspetti disumani ed entusiasmarsene. Così,
con pennellate tanto anomale, viene dipinta la figura di maestro
Bernardo, il poliedrico genio rinascimentale che si perde in
estatici sogni di dominio dell'uomo sulla natura (sogni, per il
nano, farneticanti) ma anche, con assassina freddezza, utilizza il
suo sapere per costruire terribili macchine belliche capaci di
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squarciare, di massacrare, e con la sua impazienza di scienziato
non vede l'ora di osservare all'opera le sue invenzioni, di
verificarne l'efficacia (e questo il nano lo capisce benissimo e lo
approva di tutto cuore). Ritratto inconsueto, sgradevole, cui il
lettore reagisce infastidito - di gran lunga preferirebbe vedere
distribuiti in modo ben diverso gli accenti della descrizione - e
tuttavia ritratto vero, significativo, tanto più significativo, forse,
in un momento in cui Il nano apparve nel 1944 - in tutto il
mondo i risultati della ricerca scientifica scatenavano la loro
tremenda forza di distruzione.
Se dunque c'è un che di diabolico nel nano, questa sua
diabolicità non consiste nel desiderio di intaccare e calpestare
bellezza e innocenza, ma nel non vederle. Ed è in questo, nella
sua assoluta estraneità all'amore che il nano si rivela essere la
quintessenza di una particolare disumanità: egli è una creatura
fantasticamente monolitica, tutta fatta di odio, disprezzo e
schifo. Ci si può sorprendere nel notare quante volte ritornino
nel romanzo parole ed espressioni connesse allo schifo, alla
ripugnanza, alla nausea, ma è proprio in questo mostrarsi
costantemente disgustato che il nano si rivela.
L'uomo è per lui qualcosa di intrinsecamente stomachevole
ogni volta che si rivela umano, in entrambi i sensi che diamo
correntemente a questa parola: nella sua concreta corporeità o
nella nobiltà del suo sentire. La lista delle cose che suscitano
nel nano conati di vomito è lunga e illuminante: l'odore del cibo
e i gesti del mangiare, il corpo umano sezionato dallo scienziato
e il corpo umano denudato nell'amore, gli escrementi e gli
sguardi degli innamorati, e, perfino, le dita dei bambini,
sfacciato simbolo di inerme tenerezza. Non prova disgusto,
invece, ma esaltazione nel contemplare una battaglia, nel
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commettere un omicidio, nel partecipare a un tradimento,
perché il suo unico sentimento, la sua unica passione, è il
desiderio di potere. E la massima manifestazione del potere è la
distruzione, la totale assoggettazione dell'altro nel momento in
cui si uccide. Il nano, dunque, è sì la personificazione di un lato
oscuro dell'uomo - ce lo dice lui stesso - ma questo male non è
là dove in un primo momento crediamo di doverlo cercare. Non
è egoistica perfidia, non è godimento nell'infliggere dolore, non
è un sentimento basso come l'invidia o la gelosia o la sete divendetta. È invece una formidabile, appassionata identificazione
con il potere e, di conseguenza, con l'ordine, con il dogma.
Il nano, quest'essere malvagio, è in realtà un ferreo
moralista e un patriota ardente. La sua identificazione con la
norma morale è tale che non esita ad assumersi il ruolo di
Cristo in terra e, in una grottesca parodia della figura di Gesù,
a rifiutare il perdono alla padrona quasi impazzita sotto il peso
dei rimorsi; e il suo odio per il nemico del paese e del principe è
tanto profondo da non poter sopportare nemmeno l'idea di una
riconciliazione. Il suo ideale è incarnato dal guerriero che con
macchinale freddezza massacra chi gli si para dinanzi.
Nell'estasi della macellazione, allora, il corpo umano non è
nemmeno più disgustoso, percepibile è solo lo splendore del
potere che si manifesta nella violenza.
Non c'è da meravigliarsi che questo libro sia apparso nel
'44, e che subito abbia conquistato un pubblico vastissimo. Il che
non significa affatto che si tratti di un romanzo
indissolubilmente legato al periodo in cui è stato scritto. Non
solo perché non sono smessi, da allora, i deliri di potere e le
esultanze davanti a corpi massacrati non visti e non amati nella
loro concreta, umana corporeità. Ma anche perché - ce lo dice il
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nano - in tutti, anche nelle persone più miti, si nasconde il
demonio dallo sguardo mutilo, il giudice freddo e indifferente
che rimane cieco davanti alla tenerezza e alla bellezza, pronto
magari a disgustarsi davanti ad amori "non leciti" e a
entusiasmarsi per una marcia militare.
 
Fulvio Ferrari
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IL NANO
 
 
 
Sono alto ventisei pollici, ben fatto, il corpo proporzionato,
forse la testa è un po' troppo grossa. I capelli non sono neri come
quelli degli altri, ma rossicci, molto ispidi e folti, rigettati
indietro dalle tempie e dalla fronte, ampia anche se non
particolarmente alta. Il mio volto è imberbe, ma per il resto
assolutamente identico a quello degli altri uomini. Le
sopracciglia si congiungono. Ho una notevole forza fisica, specie
se vengo provocato. Quando fu organizzato l'incontro tra me e
Josafat, dopo venti minuti di combattimento lo misi con le spalle
a terra e lo strangolai. Da allora sono l'unico nano a corte.
 
La maggior parte dei nani sono buffoni. Devono dire facezie
ed eseguire trucchi che inducano al riso i padroni e gli ospiti. Io
non mi sono mai abbassato a cose del genere. Né nessuno me lo
ha mai nemmeno proposto. Già il mio aspetto d'altra parte
impedisce un tale impiego della mia persona. Il mio volto non
s'addice a ridicoli scherzi. E io non rido mai.
Non sono un buffone. Sono un nano, e nient'altro.
Ho invece una lingua tagliente che può, forse, procurare un
po' di divertimento a qualcuno tra le persone che mi circondano.
Non è la stessa cosa che essere il loro buffone.
Ho detto che il mio volto è identico a quello degli altri
uomini. Ma non è del tutto esatto, in realtà è molto più avvizzito,
completamente solcato da rughe. Io non lo considero un difetto.
Sono fatto così e non posso farci niente se gli altri non sono
come me. Mi rivela esattamente per quel che sono, senza
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abbellimenti né trucchi. Forse non è intenzionale. Ma è così che
mi piace apparire.
Le rughe mi fanno sembrare molto vecchio. Non lo sono. Ma
ho sentito dire che noi nani discendiamo da una razza più antica
di quella che oggi popola il mondo, e che per questo siamo già
vecchi quando nasciamo. Non so se sia vero, ma in tal caso
saremmo noi le creature originarie. Non mi dispiace affatto
appartenere a una razza diversa da quella attuale, e che sia
evidente dal mio aspetto.
Trovo infatti il volto degli altri assolutamente insignificante.
 
 
I padroni sono ben disposti nei miei confronti, specialmente
il principe, che è un potente e grande signore. Un uomo dai vasti
progetti e capace anche di attuarli. Un uomo d'azione, benché al
tempo stesso molto colto, una di quelle persone che trovano
tempo per tutto, e a cui piace conversare sui più disparati soggetti
fra cielo e terra. Le sue vere intenzioni le nasconde parlando
d'altro.
Può sembrare superfluo interessarsi tanto di tutto - sempre
che egli se ne interessi davvero - ma forse deve essere così, forse
deve farlo proprio perché è un principe. Dà l'impressione di
comprendere e dominare qualsiasi argomento, o almeno di volerci
riuscire. Nessuno potrebbe negare che sia una personalità che
incute rispetto. Di tutti quelli che ho incontrato, è l'unico che io
non disprezzi.
È molto falso.
 
 
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Conosco bene il mio signore. Non che con questo pretenda di
conoscerlo perfettamente. Ha un carattere piuttosto complicato,
non tanto facile da decifrare. Sarebbe comunque un errore
affermare che nasconda in sé degli enigmi, non è affatto così, ma
in un certo senso resta impenetrabile. Io stesso non arrivo a
capirlo del tutto e, a dire il vero, ancor meno a spiegarmi perché
lo segua con la devozione di un cane. D'altra parte neanche lui
capisce me.
Non provo affatto nei suoi riguardi la soggezione che provano
gli altri. Mi piace però essere al servizio di un signore capace di
incutere soggezione. Non voglio negare che sia un grand'uomo.
Ma nessuno è grande di fronte al proprio nano.
Lo seguo costantemente, come un'ombra.
 
 
La principessa Teodora è estremamente dipendente da me.
Porto il suo segreto nel mio cuore. Mai ne ho fatto parola.
Nemmeno se mi straziassero sul cavalletto, nella stanza della
tortura con tutti i suoi orrori, rivelerei nulla. Perché? Non lo so.
In realtà la odio, vorrei vederla morta, vorrei vederla bruciare nel
fuoco dell'inferno, con le gambe divaricate e le fiamme che le
leccano il ventre disgustoso. Odio i suoi costumi dissoluti, le sue
lettere lascive che mi affida da portare ai suoi amanti, le sue
parole d'amore che bruciano sopra il mio cuore. Ma non mi lascio
sfuggire niente. E continuo a rischiare la vita per lei.
Quando mi fa chiamare nei suoi appartamenti e sussurrando
mi confida i suoi messaggi e mi nasconde sotto la giacca le sue
lettere d'amore, mi sento tremare in tutto il corpo, e il sangue mi
sale alla testa. Ma lei non s'accorge di niente, non la sfiora
neppure un attimo il pensiero che è in gioco la mia vita. Non la
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sua, la mia! Si limita a sorridere, con quel suo sorriso quasi
impercettibile, un po' assente, e mi lascia avventurarmi per la mia
pericolosa missione. Non apprezza il valore del mio contributo
alla sua vita segreta. Ma ha fiducia in me.
Odio tutti i suoi amanti. Avrei sempre desiderato gettarmi su
ognuno di loro e trafiggerlo con il mio pugnale per vederne
sgorgare il sangue. Soprattutto odio don Riccardo, che è il suo
amante ormai da parecchi anni né ha l'aria di volersene più
liberare. Verso di lui provo ripugnanza.
A volte mi fa entrare in camera sua prima di essersi alzata, e si
mostra in tutta la sua impudicizia. Non è più giovane, i suoi seni
pendono mentre, distesa sul letto, gioca con i suoi gioielli,
tirandoli fuori da un cofanetto che le porge l'ancella. Non capisco
come qualcuno possa amarla. Non ha nulla che un uomo possa
trovare desiderabile. Si può tutt'al più ancora vedere quanto tutto
in lei fosse bello un tempo.
Mi chiede quali gioielli, secondo me, debba mettere quel
giorno. Le piace farmi questa domanda. Li fa scorrere tra le dita
sottili e si stira indolentemente sotto la pesante coperta di seta. È
una sgualdrina. Una sgualdrina nel grande e magnifico letto di un
principe. La sua vita intera è amore. Lo fa scorrere tra le dita, e
resta sdraiata con un sorriso trasognato a guardarlo mentre
scivola via.
In tali momenti diventa un po' triste, o finge di diventarlo.
Con un languido gesto della mano si pone una collana d'oro
intorno al collo, così che i grandi rubini brillino tra i seni ancora
molto belli e mi chiede se le consiglio di mettere quella collana.
Attorno al letto si sente il suo odore, che mi fa venire la nausea.
La odio, vorrei vederla bruciare nel fuoco dell'inferno. Ma le
rispondo che, secondo me, è proprio quella la collana giusta e lei
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mi rivolge uno sguardo riconoscente,come se avessi preso parte
alla sua pena e le avessi dato una malinconica consolazione.
A volte mi chiama il suo unico amico. Un giorno mi ha
chiesto se l'amavo.
 
 
Che cosa sospetta il principe? Non sospetta nulla?
O forse tutto?
Sembra che la questione della vita segreta della principessa
sia per lui inesistente. Ma non si sa, non si è mai certi di nulla,
con lui. Condivide con lei la vita del giorno - lui stesso, d'altra
parte, pare non averne altra - tanto tutto in lui sembra
compenetrato di luce solare. È strano che un uomo simile mi
riesca incomprensibile. Proprio lui. Ma forse è perché sono il suo
nano. E poi, come ho già detto, neppure lui capisce me! Mi è più
facile capire la principessa che lui. Il che non è poi tanto strano,
perché lei la odio. È difficile capire un uomo che non si odia, si è
disarmati, non si hanno strumenti per penetrare nel suo intimo.
Quali sono i suoi rapporti con la principessa? È anche lui uno
dei suoi amanti? Forse il suo unico vero amante? Ed è per questo
che appare così indifferente a quel che lei fa per il resto? Io
m'indigno - e lui no?
Non arrivo proprio a capirlo, quest'uomo impassibile. La sua
superiorità non smette di irritarmi, suscita in me un disagio di cui
non riesco a liberarmi. Io voglio che sia come me.
La corte brulica di strani personaggi. Saggi che se ne stanno
seduti con il capo fra le mani a cercare il senso della vita, dotti
che si credono capaci di seguire il corso delle stelle con i loro
vecchi occhi lacrimosi, sì, di vedervi addirittura rispecchiato il
destino degli uomini. Pendagli da forca e avventurieri che
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leggono le loro struggenti poesie alle dame di corte e poi, al levar
del sole, li si trova sdraiati a vomitare nei rigagnoli. Tempo fa uno
rimase lì lungo e disteso, accoltellato, e un altro, ricordo, si prese
delle nerbate per aver scritto versi oltraggiosi sul cavalier
Moroscelli. Artisti che conducono una vita dissoluta e riempiono
le chiese di pie immagini di santi, scultori e disegnatori che
devono innalzare il nuovo campanile del duomo, sognatori e
ciarlatani di tutte le specie. Vanno e vengono da vagabondi quali
sono, alcuni però si fermano come se facessero parte della corte.
Tutti abusano dell'ospitalità del principe.
È incomprensibile perché gli piaccia avere qui tanti intrusi. E
ancora più incomprensibile che riesca a star lì ad ascoltarli, loro e
le loro stupide chiacchiere. Posso anche capire che resti per un
po' a sentire i poeti che recitano i loro versi: si possono
considerare come buffoni, gente che ha sempre bazzicato per le
corti. Celebrano la purezza e la nobiltà dell'anima umana, le
grandi azioni e le imprese eroiche, e su questo niente da dire,
specialmente se nei loro canti adulano il principe stesso. L'uomo
ha bisogno di essere adulato, altrimenti non diverrà mai ciò che è
destinato a diventare, neppure ai propri occhi. E sia nel presente
che nel passato troviamo molte cose nobili e belle che non
sarebbero mai state né nobili né belle se i poeti non le avessero
cantate. Soprattutto celebrano l'amore, ed è anche giusto, perché
nulla come l'amore ha tanto bisogno di essere trasformato in ciò
che non è. Le dame diventano malinconiche e il loro petto si
solleva per i sospiri, lo sguardo degli uomini si fa assente,
sognante, perché tutti loro sanno perfettamente com'è davvero
l'amore, e si rendono quindi conto che quella dev'essere una
poesia straordinariamente bella. Capisco anche che ci debbano
essere artisti che fabbrichino immagini di santi per il popolo, così
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che abbiano da venerare qualcuno di un po' meno sudicio e
povero di loro: belle, celestiali immagini di esseri umani torturati
che dopo il supplizio ebbero la ricompensa, vesti preziose e un
cerchio d'oro intorno al capo, proprio come anche loro, quando
avranno finito di sopportare la loro vita miserabile, avranno la
loro ricompensa. Immagini che mostrano alla plebaglia che il loro
Dio è stato crocifisso, e che questo fu il risultato di aver cercato
di fare qualcosa qui sulla terra. Così capiranno che quaggiù non
c'è speranza. Questi ingenui artigiani sono necessari a un
principe, non capisco però che cosa ci stiano a fare qui a palazzo.
Aiutano gli uomini a vivere dando loro un tempio, una stanza
della tortura splendidamente adorna dove possono andare quando
vogliono a cercare la pace. E lì il loro Dio, instancabile, sta
appeso alla sua croce. Questo lo so bene perché sono cristiano
anch'io, battezzato nella loro stessa fede. E il battesimo è valido,
anche se mi fu dato solo per scherzo alle nozze del duca Gonzaga
con donna Elena, quando venni portato al fonte battesimale, nella
cappella del castello, come loro primogenito che, con grande
meraviglia di tutti, la sposa avrebbe messo al mondo proprio nel
giorno del matrimonio. Più volte l'ho sentito raccontare come una
cosa molto comica, e io stesso ricordo che lo fu, poiché avevo
diciott'anni, quando il principe mi prestò per quella cerimonia.
Ma ciò che non riesco a capire è come si possa starsene lì ad
ascoltare coloro che parlano del significato dell'esistenza: i
filosofi con i loro profondi pensieri sulla vita e la morte e sulle
domande eterne; le sottili dissertazioni sulla virtù e l'onore e la
cavalleria; e coloro che s'immaginano di sapere qualcosa sulle
stelle e credono che esista un qualche rapporto tra esse e il
destino degli uomini. Sono dei bestemmiatori, anche se che cosa
bestemmino di preciso non lo so, non mi interessa. Sono dei
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buffoni nemmeno sfiorati dal dubbio di esserlo, e nemmeno gli
altri lo sospettano, nessuno ride di loro, né trae il minimo
divertimento dalle loro invenzioni. Perché poi vengano chiamati
qui a corte è impossibile capirlo. Ma il principe dà loro ascolto
come se le loro parole avessero una grande importanza, e si
accarezza la barba pensoso mentre mi ordina di riempire le loro
tazze, che sono d'argento come la sua. L'unica volta che si ride un
po' in loro compagnia è quando mi prendono sulle ginocchia
perché possa versare il vino più facilmente.
Chi sa qualche cosa delle stelle? Chi può decifrare il loro
segreto? Loro ne sono capaci! Credono di poter parlare con
l'universo, e sono pieni di gioia quando ricevono una risposta di
banale buon senso. Spiegano le loro carte celesti e leggono il
firmamento come un libro. Ma quel libro l'hanno scritto loro, e le
stelle vagano per le loro vie misteriose senza avere la più pallida
idea del suo contenuto.
Anch'io leggo nel libro della notte. Ma non so interpretarlo.
La mia saggezza sta nel vedere lo scritto ma anche che non può
essere interpretato.
Di notte stanno nella loro torre, nella torre a sinistra del
castello, con i cannocchiali e i quadranti, e credono di
comunicare con l'universo. E io sto nella torre opposta, nel
vecchio appartamento dei nani dove vivo solo da quando ho
strangolato Josafat, sotto il basso tetto che conviene alla nostra
razza, e le finestre piccole come feritoie. Un tempo vi abitavano
parecchi nani, racimolati da tutte le parti, da paesi lontani,
perfino dal regno dei Mori, doni di principi e papi e cardinali,
oppure merci di scambio, come si usa fare con noi. Noi nani non
abbiamo patria né padre né madre, consentiamo di nascere da
sconosciuti, da chiunque, di nascere in segreto dalla gente più
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miserabile, purché la nostra razza non si estingua. E quando
questi genitori sconosciuti si accorgono di avere messo al mondo
una creatura della nostra razza, ci vendono a principi potenti che
noi dobbiamo divertire con la nostra deformità, a cui faremo da
buffoni. Anch'io venni venduto così da mia madre, che con
raccapriccio si scostò da me quando vide quale creatura avesse
partorito, senza capire che ero di una stirpe antichissima. Ebbe in
cambio venti scudi, e con quelli si comprò tre braccia di stoffa e
un cane da guardia per il suo gregge.
Sto seduto alla finestra dei nani e contemplo la notte,
indagando in essa come fanno loro. Non ho bisogno di
cannocchiali, né di telescopi, il mio sguardo è già abbastanza
profondo. Anch'io leggo nel libro della notte.
 
 
C'èuna spiegazione all'interesse che il principe mostra verso
tutti questi dotti, artisti, filosofi e contemplatori di stelle, e anche
molto semplice. Vuole dare alla sua corte fama e celebrità, e
vuole procurare a se stesso quanto più onore e gloria possibile.
Ciò che vuole ottenere chiunque può comprenderlo e, a quanto
mi consta, è ciò che tutti gli esseri umani si sforzano di ottenere,
nei limiti delle loro possibilità.
Lo capisco benissimo e lo approvo.
Il condottiero Boccarossa è arrivato in città e si è installato
con un gran seguito a palazzo Geraldi, disabitato da quando la
famiglia è stata esiliata. Ha fatto al principe una visita che è
durata parecchie ore. Nessuno ha potuto assistere.
È un grande condottiero molto noto.
 
 
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I lavori al campanile sono incominciati e siamo andati a
vedere a che punto erano. Si innalzerà molto al di sopra della
cupola del duomo e le campane, il giorno che suoneranno,
sembreranno suonare in cielo. È una bella idea, come dovrebbero
essere tutte le idee. Saranno le campane più alte d'Italia.
Il principe si occupa molto di questa costruzione, e lo si può
capire. Ha studiato ancora una volta i disegni sul posto ed è
rimasto entusiasta dei bassorilievi, raffiguranti scene della vita
del Crocifisso, con cui stanno adornando la base del campanile.
Ma non sono molto avanti.
Forse non sarà mai finito. Molte delle costruzioni progettate
dal mio signore non vengono portate a termine. Si ergono
incompiute, lasciate a metà, belle, come rovine di un grande
sogno. Ma anche le rovine sono monumenti in memoria di chi le
ha costruite, e io non ho mai negato che egli sia un grande
principe. Quando cammina per strada non mi dispiace essere al
suo fianco. Tutti levano gli occhi su di lui, me non mi vedono
neanche. È logico. Lo salutano con reverenza come se fosse un
essere superiore, ma è solo perché sono gentaglia vile e
adulatrice, non perché lo amino o lo rispettino, come crede lui.
Se vado in giro da solo per la città, mi vedono subito e mi
gridano ingiurie. Ecco là il suo nano! Se dai un calcio a lui, dai
un calcio al suo padrone! Non osano farlo, ma mi gettano dietro
topi morti e altre sudicerie prese dai mucchi di immondizie.
Quando, esasperato, sfodero la spada, si mettono a sghignazzare.
Ma che potente signore, abbiamo! gridano. Non ho modo di
difendermi, perché non combattiamo con le stesse armi. Non mi
resta che fuggire, con gli abiti tutti insudiciati.
Un nano la sa sempre più lunga su tutto del suo padrone.
 
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In realtà non mi spiace sopportare tutto questo per il mio
principe. Vuol dire che sono parte di lui, e in certi casi
rappresento la sua augusta persona. Anche quella gentaglia
ignorante capisce che il nano di un signore è in realtà il signore
stesso, come lo è il castello con le sue torri e i suoi merli, come
lo è la corte in tutto il suo splendore e in tutta la sua
magnificenza, e il carnefice che fa rotolare le teste là fuori sulla
piazza, e il tesoriere con le sue incalcolabili ricchezze, e
l'intendente del castello che distribuisce il pane ai poveri in tempi
di carestia: tutto è Lui. Sentono quale potenza in realtà io
rappresenti. E mi riempie sempre di soddisfazione constatare che
sono odiato.
Per quanto mi è possibile, mi vesto come il principe: stessi
tessuti e stesso taglio. A questo scopo vengono utilizzati per me i
ritagli che avanzano quando si fa un vestito per lui. Al fianco
porto sempre una spada, come lui, anche se più corta. E il mio
portamento è altrettanto maestoso, se ci si fa caso.
In questo modo arrivo ad assomigliare abbastanza al principe,
tranne che sono molto più piccolo. Se mi si guardasse attraverso i
cristalli che quei buffoni della torre occidentale puntano verso le
stelle, mi si potrebbe prendere per lui.
C'è una grande differenza tra nani e bambini. Si crede che
siano simili perché sono simili di statura, e che stiano bene
insieme, ma non è affatto vero. Si fanno spesso giocare i nani con
i bambini, per amore o per forza, senza pensare che un nano è il
contrario di un bambino, perché è nato vecchio. I bambini dei
nani, a quanto ne so, non giocano mai, perché dovrebbero
giocare? Non offrirebbero altro che uno spettacolo innaturale,
con quei loro visi rugosi, da vecchietti. È una vera e propria
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tortura impiegare noi nani in tal modo. Ma gli uomini non sanno
nulla di noi.
I miei padroni non mi hanno mai costretto a giocare con
Angelica. Ma è stata lei stessa a farlo. Non voglio dire che lo
facesse per cattiveria, ma quando ripenso a quel tempo,
soprattutto agli anni in cui era piccolissima, mi sembra di essere
stato vittima di una raffinata perfidia. Quella bambina con i suoi
grandi occhi azzurri e la boccuccia imbronciata, che alcuni
trovavano tanto straordinaria, mi ha fatto soffrire quasi più di
ogni altra persona a corte. Ogni mattina si poteva star sicuri di
vederla arrivare col suo passo incerto - sapeva appena camminare
quando prese quest'abitudine - nell'appartamento dei nani con il
suo gattino sotto il braccio. Piccolino, vuoi giocare con noi?
Rispondo: non posso proprio, ho cose più importanti a cui
pensare, non posso passare la giornata a giocare. Cosa devi fare,
allora? mi domanda impertinente. Non sono cose che si possano
spiegare a una bambina, rispondo. Ma andrai fuori, comunque.
Non starai mica a fare la nanna tutto il giorno! Io sono sveglia da
tanto, tanto, tanto tempo. E così devo uscire con lei, non oso
negarglielo per via dei padroni, anche se in cuor mio fremo di
rabbia. Mi prende per la mano come se fossi un suo amichetto,
deve sempre tenermi per mano, eppure niente mi fa tanto ribrezzo
come le mani umidicce dei bambini. Serro il pugno per la collera,
e lei allora mi prende il pugno e mi porta in giro dappertutto tra
interminabili chiacchiere. Dalle sue bambole che bisogna nutrire
e vestire, dai cagnolini che si trascinano mezzo ciechi nella cesta
davanti alla cuccia, al roseto dove ci toccherà metterci a giocare
con il micio. Prova un logorante interesse per ogni specie di
animali, non per gli animali adulti, ma per i loro cuccioli, per
tutto ciò che è piccolo. È capace di stare a giocare con il suo
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gattino all'infinito, e ritiene che anch'io debba partecipare al
gioco. Crede che sia anch'io un bambino, che provi una gioia
infantile per qualsiasi cosa. Io! Io che non provo gioia per nulla!
Può capitare, talvolta, che un pensiero ragionevole si desti
nella sua testolina quando si accorge che sono stanco ed
esasperato. Allora, stupita, alza gli occhi su di me, sul mio rugoso
volto di vecchio: Come mai non ti diverti a giocare?
E siccome non riceve risposta dalle mie labbra serrate né dai
miei freddi occhi di nano, che hanno dentro un'esperienza
millenaria, i suoi giovani occhi di bambina si velano di un'ombra,
e per un po' rimane in silenzio.
Che cos'è il gioco? Un insensato occuparsi di... niente,
proprio niente. Uno strano modo di trattare per finta le cose. Non
considerandole per quel che sono, non prendendole sul serio, ma
solo facendo finta. Gli astrologi giocano con le stelle, il principe
gioca con le sue costruzioni, le sue chiese, le scene della
crocifissione e i campanili, Angelica gioca con le bambole: tutti
giocano, tutti fanno finta di fare qualcosa. Solo io disprezzo la
finzione. Solo io sono.
Una volta m'introdussi piano piano in camera sua mentre
dormiva con quel suo odioso gattino accanto a sé sul letto e con
il mio pugnale tagliai la testa alla bestiola. Poi la gettai fuori, sul
cumulo delle immondizie sotto la finestra del castello. Ero così
furioso che quasi non sapevo quel che facevo. Intendo dire, lo
sapevo benissimo, portavo a termine un piano che avevo a lungo
covato durante quelle insopportabili ore di gioco nel roseto.
Quando s'accorse che il gatto non c'era più se ne disperò, e
poiché tutti dicevano che sicuramente era morto, si ammalò di
una febbre sconosciuta che la tenne a letto per un pezzo. Così,
grazie a Dio, per un bel po' fui risparmiato dal vederla. Quando
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infine si alzò, naturalmente fui costretto a stare ad ascoltare tuttii
suoi tristi racconti sul destino del suo diletto,
sull'incomprensibile sorte che gli era capitata. Nessuno si
preoccupò di come il gatto fosse sparito, tutta la corte rimase
però in un certo senso spaventata da alcune inspiegabili gocce di
sangue sul collo della bambina, che si pensava potessero essere
di cattivo augurio. Tutto ciò che può essere interpretato come una
specie di presagio li interessa terribilmente.
Insomma, non mi diede pace per tutta la sua infanzia, solo
che con l'andar del tempo i giochi cambiavano. Mi era sempre
intorno e mi voleva come confidente, sebbene io non ci tenessi
affatto ad esserlo. Mi chiedo a volte se la sua importuna
predilezione per me non avesse la stessa origine della sua
attrazione per gattini, cagnolini, anatroccoli e animaletti del
genere. Se non si trovasse a disagio nel mondo dei grandi. Forse
ne aveva paura, era stata spaventata in qualche modo. Ma io cosa
c'entravo! Se era sempre sola, mica era colpa mia. E invece era
sempre a me che si attaccava, anche quando diventò grande e
smise di essere una bambinetta. Sua madre non si occupava più di
lei, se n'era occupata soltanto finché aveva l'aspetto di una
bambola - anche lei faceva finta, tutti fanno finta - e suo padre,
naturalmente, aveva da pensare alle sue cose. E forse aveva anche
un'altra ragione per non interessarsi tanto a lei, ma è una
questione su cui preferisco non pronunciarmi.
Fu solo verso i dieci-dodici anni che si fece taciturna e
riservata, e così finalmente potei sottrarmi a lei. Da allora, grazie
a Dio, mi ha lasciato in pace e se ne sta per conto suo. Ma mi
capita ancora di ribollire di rabbia, quando ripenso a tutto ciò che
ho dovuto sopportare per causa sua.
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Adesso comincia ad essere adulta, ha compiuto quindici anni
e presto verrà considerata una dama. Ma è ancora molto puerile e
non si comporta affatto come una dama d'alto rango. Chi sia suo
padre, del resto, non lo si può sapere. Può essere figlia del
principe, ma è altrettanto possibile che sia una bastarda, e allora
non è proprio il caso di trattarla come una principessa. Alcuni
dicono che sia bella. Io non riesco a trovare niente di bello in
quel viso infantile con la bocca socchiusa e i grandi occhi che
sembrano non capire nulla.
 
 
L'amore è una cosa che muore. E quando muore va in
putrefazione e può diventare terreno adatto per un nuovo amore.
L'amore morto vive allora la sua vita segreta in quello nuovo, e
così in realtà l'amore non muore.
Questa, a quanto capisco, è l'esperienza che ha fatto la
principessa e sulla quale fonda la sua felicità. Perché non c'è
dubbio che sia felice. E diffonde felicità intorno a sé, a modo
suo. Per il momento don Riccardo è felice.
Forse lo è anche il principe. Perché il sentimento che
risvegliò in lei un tempo vive ancora. Egli fa finta che l'amore
della principessa viva. Entrambi fanno finta che il loro amore
viva.
La principessa ebbe una volta un amante che fece torturare
perché l'aveva tradita. Indusse il principe, che non sospettava
nulla, a condannarlo per un delitto mai commesso. Io ero il solo a
sapere come stessero davvero le cose. E dovetti assistere alla
tortura per poterle poi riferire come l'amante l'avesse sopportata.
Non la sopportò affatto da eroe ma, più o meno, come tutti.
Forse è lui il padre della ragazza. Che ne so, io!
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Ma potrebbe benissimo essere anche il principe. Per
convincerlo, ad ogni modo, la principessa usò le più dolci
maniere, e il loro amore in quel periodo visse una nuova
primavera. Lo abbracciava ogni notte offrendogli il suo ventre
tradito che aveva fame dell'amante perduto. Accarezzava il suo
principe come s'accarezza un uomo che andrebbe torturato. E il
principe rispondeva alle sue carezze come nelle loro prime,
ardenti notti d'amore. L'amore morto viveva la sua vita misteriosa
in quello nuovo.
 
 
Il confessore della principessa viene ogni sabato mattina a
un'ora fissa. Lei si è già alzata da un pezzo, si è vestita ed è
rimasta alcune ore in preghiera davanti al crocifisso. È ben
preparata alla confessione.
Non ha niente da confessare. E non per ipocrisia o inganno,
al contrario, lei parla con tutta sincerità, con il cuore colmo. Non
ha la minima idea del peccato. Non le risulta di averne mai fatti.
Tutt'al più, forse, è stata un po' dura con la sua cameriera che era
stata maldestra mentre le acconciava i capelli. È una pagina
bianca, su cui il confessore si china sorridendo come su una
vergine intatta.
I suoi occhi sono limpidi e fervidi dopo la preghiera, dopo
che si è immersa nel mondo del crocifisso. Quel piccolo uomo
torturato sulla sua croce giocattolo ha sofferto per lei, e ogni
colpa è cancellata dalla sua anima, perfino il ricordo di essa. Si
sente fortificata, come ringiovanita, ma al tempo stesso in uno
stato d'animo di trasognata, contemplativa devozione che ben
s'accompagna al suo volto serio, senza trucco, e al suo semplice
vestito nero. Si siede e scrive una lettera al suo amante per dirgli
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ciò che prova, una lettera calma, come scritta da una sorella, in
cui non si fa cenno né all'amore né ai loro incontri. In quella
condizione di spirito non tollera il minimo accenno a discorsi
frivoli. Io devo andare con la lettera dall'amante.
 
 
Non c'è alcun dubbio che sia ardentemente religiosa. Per lei
la religione rappresenta qualcosa di essenziale, di assolutamente
reale. Ne ha bisogno e ne fa uso. È parte del suo cuore, della sua
anima.
E il principe è anche lui religioso? È più difficile dirlo.
Naturalmente, in un certo senso lo è, perché egli è tutto ciò che è
possibile essere, comprende in sé tutto. Ma questo si può
chiamarlo essere religiosi? È contento che esista qualcosa come
la religione, gli piace sentirne parlare, ascoltare belle e acute
discussioni sulle idee religiose. Come potrebbe qualcosa di
umano rimanergli estraneo? Gli piacciono le pale d'altare e le
madonne di maestri famosi, e i templi belli e sontuosi, soprattutto
se li ha fatti costruire lui. Non so se questo sia religione. Può
darsi benissimo. E naturalmente è anche religioso in quanto
principe, in questa veste lo è almeno altrettanto della principessa.
Comprende il bisogno religioso del popolo, che dev'essere
soddisfatto, e la sua porta è sempre aperta per chi provvede a
soddisfarlo. Prelati e religiosi d'ogni sorta vanno e vengono per
casa come gente di famiglia. Ma è - come lei - religioso
personalmente, nel suo intimo? Questa è tutt'altra questione, e
non ho intenzione di pronunciarmi.
Sul fatto che lei sia ardentemente religiosa invece, come ho
già detto, non vi sono dubbi.
È possibile che siano entrambi religiosi, ognuno a modo suo?
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Che cos'è la religione? Ho riflettuto a lungo su questo, ma
invano.
Vi ho riflettuto soprattutto quella volta che mi costrinsero a
officiare come vescovo, con tutti i paramenti, a una festa di
carnevale alcuni anni fa, e dovetti distribuire il santo sacramento
ai nani della corte di Mantova, che il loro principe aveva portato
qui con sé per partecipare ai festeggiamenti. Fummo radunati
presso un piccolo altare che avevano sistemato in una sala del
castello, e attorno a noi erano seduti tutti gli ospiti sghignazzanti,
cavalieri, nobili e giovani bellimbusti nei loro ridicoli costumi.
Sollevai il crocifisso e tutti i nani si gettarono in ginocchio. Ecco
il vostro salvatore, proclamai con voce potente e occhi
fiammeggianti di passione. Ecco il salvatore di tutti i nani, egli
stesso un nano, torturato sotto il grande principe Ponzio Pilato e
appeso alla sua piccola croce giocattolo per la gioia e il sollievo
di tutti gli uomini della terra. Presi il calice e lo sollevai davanti a
loro: questo è il suo sangue di nano, che lava via tutti i grandi
peccati e rende candide come neve tutte le anime sporche. Presi
l'ostia e mostrai loro anche quella, e mangiai e bevvi davanti a
loro sotto le due specie secondo la consuetudine, mentre
spiegavo il significato del sacro mistero: Io mangio il suo corpo
che era deforme come il vostro. È amaro come il fiele perché è
pieno di odio. Possiate mangiarne tutti!Io bevo il suo sangue,
che brucia come un fuoco che nessuno può spegnere. È come se
bevessi il mio.
Salvatore di tutti i nani, che il tuo fuoco consumi il mondo
intero!
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E gettai il vino sopra quelli che eran lì seduti e assistevano
pallidi e con gli occhi sbarrati alla nostra sinistra eucaristia.
 
 
Non sono un bestemmiatore. Furono loro a commettere
sacrilegio, non io. Ma il principe mi fece mettere in catene per
qualche giorno, perché l'intenzione era di trarre un po' di
divertimento da quel piccolo scherzo, e io invece avevo rovinato
tutto e gli ospiti erano rimasti molto turbati, quasi spaventati. Le
catene erano tutte troppo grosse per me e dovettero fabbricarle
apposta, al fabbro pareva che non ne valesse la pena per una
punizione così breve, ma il principe rispose che forse era bene
averle a disposizione per una prossima occasione. Mi liberò quasi
subito, prima di quel che avesse stabilito, e ho l'impressione che
mi abbia fatto punire più che altro per via degli ospiti, poiché mi
fece rimettere in libertà non appena se ne furono andati. Ma nei
primi tempi che seguirono mi guardava con una certa
inquietudine ed evitava di rimanere solo con me, si sarebbe quasi
detto che gli incutessi un po' di paura.
I nani, naturalmente, non avevano capito niente. Correvano
qua e là come galline spaventate, pigolando con la loro
miserevole voce di castrati. Non so da che cosa derivi questa loro
voce ridicola, la mia è profonda e cupa. Ma loro sono domati e
castrati perfino nell'anima, e per lo più non sono che buffoni che
attirano la vergogna sopra la propria razza con i loro scherzi
grossolani che han per oggetto il loro proprio corpo.
È una razza spregevole. Per questo, qui a corte, ho indotto il
principe a venderli tutti, uno dopo l'altro, per poter fare a meno di
vederli. E alla fine sono rimasto solo io. Sono contento che se ne
siano andati, e che l'appartamento dei nani sia deserto e vuoto
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quando me ne sto qui la notte immerso nelle mie meditazioni.
Sono contento che non ci sia neanche Josafat, così non sono
costretto a vedere il suo volto raggrinzito di vecchia e ad ascoltare
la sua vocina pigolante. Sono contento di essere solo.
È mio destino di odiare anche la mia gente. La mia stirpe mi è
odiosa.
Ma odio anche me stesso. Mangio la mia stessa carne intrisa
di fiele. Bevo il mio stesso sangue avvelenato. Ogni giorno
celebro la mia solitaria eucaristia, sinistro sommo sacerdote del
mio popolo.
 
 
La principessa si comportò in modo piuttosto singolare dopo
quell'incidente che suscitò tanto scandalo. La stessa mattina che
fui liberato mi fece chiamare, e quando entrai nella sua camera da
letto mi guardò in silenzio, con uno sguardo assorto, indagatore.
Mi ero aspettato dei rimproveri, e forse una nuova punizione, ma
quando infine si mise a parlare confessò che la mia messa le
aveva fatto un'impressione profonda, c'era in essa qualcosa di
oscuro e. di terribile che suscitava delle consonanze nel suo
intimo. Com'era possibile che fossi riuscito a penetrare nel suo
intimo e a suscitarvi delle consonanze?
Non ci capivo niente. Approfittai del fatto che, sdraiata sul
letto, guardava con sguardo assente un punto alle mie spalle, per
sogghignare.
Mi chiese cosa, secondo me, si provasse a stare appesi a una
croce. A essere fustigati, torturati e a morire. E disse che
comprendeva che Cristo doveva odiarla. Che doveva essere pieno
di odio mentre soffriva a causa sua.
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Non mi curai di risponderle, e lei non continuò la
conversazione, ma rimase distesa a guardare il cielo, fuori, con
occhi trasognati.
Poi fece un gesto leggero con la sua bella mano per dirmi che
non c'era altro, chiamò la cameriera e la pregò di portarle la sua
veste rosso scura perché voleva alzarsi.
Ancora oggi non riesco a capire che cosa le fosse preso.
 
 
Ho notato che a volte incuto timore. Ma è di se stessi che gli
uomini hanno paura. Credono che sia io a spaventarli, e invece è
il nano nascosto dentro di loro, quell'essere simile all'uomo, dal
volto di scimmia, che leva la testa dal profondo della loro anima.
Si spaventano perché non sanno di avere un altro essere dentro di
sé. Hanno sempre paura quando qualcosa affiora alla superficie,
qualcosa che sale dal loro intimo, dai bassifondi della loro anima,
qualcosa che non riconoscono e non ha nulla a che fare con la
loro vera vita. Quando nulla appare sulla superficie non hanno
paura, non provano la minima inquietudine. Se ne vanno in giro a
testa alta, impassibili, con i loro volti lisci senza espressione. Ma
c'è sempre dentro di loro qualcos'altro, che fingono d'ignorare, e
vivono senza saperlo molte vite diverse tutte insieme. Sono così
stranamente segreti e incoerenti.
E sono deformi senza che ne traspaia nulla.
 
 
Io vivo sempre e soltanto la mia vita di nano. Non vado mai in
giro a testa alta e con i tratti distesi. Sono sempre soltanto me
stesso, sempre uguale, vivo un'unica vita. Non ho un altro essere
dentro.
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E riconosco tutto ciò che proviene da me, nulla affiora mai
dal mio intimo e nulla vi rimane nascosto nell'ombra. Per questo
non ho mai paura di quello che spaventa gli altri, di quel
qualcosa di incoerente, sconosciuto e misterioso. Niente di ciò
esiste per me. Non ho dentro nulla di altro.
La paura? Che cos'è? È paura quella che provo quando,
giacendo solo, la notte, nell'appartamento dei nani, vedo il
fantasma di Josafat avvicinarsi al mio letto, e venire verso di me
pallido come un cadavere, i segni azzurri intorno al collo e la
bocca spalancata?
Non provo né angoscia né rimorso, niente che mi turbi in
modo particolare. Al vederlo penso soltanto che è morto, e che da
allora sono solo.
E io voglio essere solo, non voglio che ci sia nient'altro che
me stesso. E vedo benissimo che è morto. Quello non è che il suo
fantasma, e io sono completamente solo nel buio, come lo sono
sempre stato da quando l'ho strangolato.
Non c'è niente di spaventoso in questo.
 
 
È arrivato a corte un uomo di alta statura che il principe tratta
con il più singolare rispetto, quasi con venerazione. È stato
invitato qui e il principe dice di averlo aspettato a lungo e di
essere molto felice di avere finalmente l'onore di questa visita. In
effetti lo tratta come un suo pari.
Non tutti a corte trovano questo ridicolo, alcuni affermano
che è davvero un grand'uomo, del rango di un principe. Però non
si veste affatto come un principe, ma in modo piuttosto modesto.
Che cosa realmente sia e cosa vi sia in lui di tanto straordinario,
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non sono ancora riuscito a scoprirlo. Lo si capirà un po' alla
volta. Si dice che si fermerà piuttosto a lungo.
Non voglio negare che vi sia qualcosa in lui che ispira
rispetto, si comporta con una dignità più naturale che nella
maggior parte degli altri; la fronte è alta, di quelle che gli uomini
usano chiamare meditative, e il volto, con la barba che va
facendosi grigia, è nobile e veramente bello. Ha in sé qualcosa di
distinto e armonico, e il suo aspetto è caratterizzato dalla calma e
dal dominio di sé.
Mi domando quale sia la sua deformità.
 
 
L'ospite di riguardo prende i suoi pasti alla tavola del
principe. Conversano tutto il tempo degli argomenti più diversi, e
mentre io servo il mio signore, come egli vuole che io faccia
sempre, posso constatare che è un uomo colto. Il suo sapere
sembra abbracciare tutti i campi possibili e pare interessarsi a
qualsiasi cosa. Cerca di spiegare tutto, ma, contrariamente agli
altri, non è sempre sicuro che le sue spiegazioni siano giuste.
Dopo aver fatto una lunga e minuziosa esposizione della sua
opinione riguardo a un problema, può capitargli di rimanere in
silenzio, assente, e di mormorare poi meditabondo: ma forse non
è così. Non so cosa si debba pensare di questo. Si può
considerarla una sorta di saggezza, ma potrebbe anche dipendere
dal fatto che davvero egli non sa nulla con certezza, e che tutta la
costruzione faticosamente elaborata dal suo pensiero è quindi
priva di senso. L'esperienza che ho finora avuto dei pensieri degli
uomini mi fa propendere per quest'ultimaspiegazione. Molti non
capiscono che questo dovrebbe ispirare una certa modestia. Ma è
possibile che lui lo capisca.
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Il principe, comunque, non si pone tante questioni, e lo sta ad
ascoltare come se si trovasse presso una limpida sorgente da cui
scaturiscono sapere e saggezza. Pende dalle sue labbra come un
umile discepolo da quelle del maestro, pur mantenendo al
contempo, naturalmente, la dignità che conviene a un principe. A
volte lo chiama gran maestro. Mi chiedo allora quale possa
essere la ragione di tanta ossequiosa umiltà. Perché il mio signore
non fa nulla senza una ragione. Il saggio finge molto spesso di
non udire quell'appellativo deferente. Può anche darsi che
davvero non sia pretenzioso. D'altra parte, talvolta si esprime
invece con grande sicurezza, sostiene le sue opinioni con
chiarezza e convinzione e ne espone le ragioni con un'intelligenza
che appare acuta e penetrante. Non sempre quindi dubita.
Parla con molta calma, con una voce bella e insolitamente
chiara. Con me è gentile e pare che in qualche modo io lo
interessi. Perché non lo so. A volte ho quasi l'impressione che
richiami un po' il principe, anche se non so spiegare esattamente
come.
Però non è falso.
 
 
Il singolare straniero ha cominciato a preparare un lavoro nel
chiostro francescano di Santa Croce, una pittura su una delle
pareti laterali del refettorio. Dunque non è altro che un
fabbricante d'immagini di santi e roba simile, come tanti altri qui.
In questo consisteva quindi tutta la sua eccellenza.
Non voglio con ciò affermare che non possa essere anche
qualcos'altro e qualcosa di più, e che lo si debba mettere sullo
stesso piano dei suoi semplici confratelli. Ispira senz'altro
maggior rispetto, bisogna ammetterlo, ed è comprensibile che il
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principe lo ascolti con interesse particolare. Ma che lo ascolti
sempre e comunque come un oracolo, e che ogni giorno lo faccia
mangiare al suo tavolo è per me inspiegabile. Fa pur sempre un
mestiere da artigiano, manuale, per quante cose possa abbracciare
con la sua cultura e il suo pensiero... tante da non riuscire
neanche ad afferrarle tutte! Come lavorino le sue mani non lo so,
spero che sappiano il fatto loro, visto che il principe l'ha assunto,
ma che il suo pensiero si ponga degli obiettivi che non è in grado
di raggiungere, questo lo riconosce lui stesso. Dev'essere un
sognatore. Con tutta la sua lucidità e la sua ricchezza d'idee deve
trovarsi su un terreno malsicuro, e quel mondo che si dà l'aria di
creare non è in realtà che una pura chimera.
È piuttosto strano che non mi sia ancora fatto un'idea precisa
sul suo conto. Da cosa può dipendere? Di solito ho subito
un'opinione sicura sulle persone che mi trovo davanti. È
probabile che la sua personalità, come la sua statura, sia
superiore alla media. Ma non so perché lo creda, da cosa possa
venirmi questa sensazione. Non so in che cosa effettivamente
consista la sua superiorità né se davvero sia tanto superiore. Deve
pur essere simile ad altri che ho incontrato.
In ogni caso sono convinto che il principe abbia un'idea
troppo alta del suo valore.
Si chiama Bernardo, un nome assolutamente comune.
 
 
La principessa non s'interessa a lui. È troppo vecchio. E le
conversazioni tra uomini sembrano lasciarla totalmente
indifferente. Quando assiste ai loro vasti scambi di idee se ne sta
silenziosa e ha l'aria di essere lontanissima con i suoi pensieri.
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Credo che non senta nemmeno quel che dice quell'uomo
singolare.
Lui, invece, sembra molto interessato a lei. La osserva di
nascosto, quando nessuno se ne accorge, l'ho visto. Scruta il suo
volto come se vi cercasse qualcosa, con uno sguardo assorto che
si fa poi sempre più meditativo. Cosa vi può essere in lei che lo
affascina tanto?
Il suo volto è privo di qualsiasi interesse. È facile vedere che
è una sgualdrina, anche se lo nasconde dietro una superficie di
menzognera purezza. Non c'è bisogno di una lunga osservazione
per capirlo. E cos'altro c'è da guardare, da cercare nel suo viso
lascivo? Cosa vi può trovare di affascinante?
Ma evidentemente tutto lo affascina. Può raccogliere un sasso
da terra, l'ho visto io, ed esaminarlo con straordinario interesse,
girarlo e rigirarlo e alla fine infilarselo in tasca come un oggetto
prezioso. Sembra che letteralmente qualsiasi cosa sia in grado di
affascinarlo. È un pazzo?
Un pazzo invidiabile! Chi dà tanto valore a un sasso sarà
sempre circondato da tesori dovunque vada.
 
 
È incredibilmente curioso. Ficca il naso dappertutto, di tutto
vuol essere informato, su tutto fa domande. Interroga gli operai
sui loro attrezzi e sui loro metodi di lavoro, ne prende nota e li
corregge. Torna a casa con dei fiori dalle sue passeggiate fuori
città, si siede e li fa a pezzi per vedere come sono fatti dentro. Ed
è capace di rimanere per ore ad osservare il volo degli uccelli,
come se anche questa fosse una cosa straordinaria. Perfino le
teste degli assassini e dei ladri si ferma a contemplare, lì impalate
davanti alla porta del castello, tanto vecchie che nessuno ha più il
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coraggio di guardarle, e medita come se si trattasse di strani
enigmi, e le copia con una matita d'argento. E quando qualche
giorno fa Francesco è stato impiccato fuori sulla piazza, lui era
tra gli spettatori in primissima fila, con i bambini, per vedere
bene. La notte sta a guardare le stelle. La sua curiosità si estende
a tutto.
Davvero ogni cosa è interessante?
 
 
Non m'importa in che cosa ficca il naso. Ma se mi tocca
un'altra volta gli infilo il pugnale in corpo! È poco ma sicuro,
costi quel che costi.
Stasera, mentre gli versavo il vino, mi ha preso la mano per
osservarla. L'ho ritirata adirato. Ma il principe m'ha detto
sorridendo di mostrargliela. L'ha esaminata con attenzione, l'ha
studiata con insolente indiscrezione: le nocche, le pieghe sul
polso, ha cercato addirittura di tirarmi su la manica per vedere il
braccio. Io mi sono di nuovo tirato indietro, furibondo, con lo
sdegno che mi ribolliva dentro. Sorridevano tutti e due mentre io
stavo lì con gli occhi fiammeggianti.
Se mi tocca un'altra volta farò scorrere il suo sangue!
Non sopporto che qualcuno mi tocchi, non sopporto la
minima offesa al mio corpo.
 
 
Corre una strana voce: che egli abbia indotto il principe a
cedergli il cadavere di Francesco per aprirlo e vedere com'è fatto
un essere umano al suo interno. Non può essere vero. È troppo
incredibile. Ed è impossibile che abbiano tirato giù il corpo: deve
rimanere esposto quale ammonimento per il popolo e a onta e
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vergogna del malfattore. Questa è la sentenza, e perché le taccole
non dovrebbero beccare quel manigoldo come gli altri? Io lo
conoscevo, purtroppo, e so fin troppo bene che meritava tutte le
pene possibili: quante volte mi ha lanciato insulti per strada. Se
lo tirano giù la sua pena non sarà uguale a quella degli altri
impiccati.
L'ho sentito dire per la prima volta stasera. È notte, ora, e non
riesco a vedere se il cadavere è ancora appeso là fuori.
Non posso credere che sia vero, che il principe abbia potuto
permettere una cosa del genere.
 
 
Eppure è vero! Quel miserabile non pende più dalla forca! E
ho anche scoperto dove è andato a finire. Ho sorpreso il vecchio
sapiente nel bel mezzo della sua infame azione!
Avevo notato che si preparava qualcosa giù nelle cantine, c'era
aperta una porta che di solito non lo è mai. Me n'ero già accorto
ieri, ma non vi avevo prestato grande attenzione. Oggi sono
tornato lì per esaminare più attentamente come stessero le cose, e
ho trovato la porta ancora socchiusa. Sono entrato in un lungo,
buio corridoio e sono arrivato a un'altra porta; non era chiusa
nemmeno questa, l'ho varcata senza far rumore... e là dentro, in
una grande stanza, alla luce che penetrava dal finestrino del muro
meridionale, c'era il vecchio, chino sul cadavere sventrato di
Francesco! In un primo momento non credevo ai miei occhi, ma il
corpo era davvero là disteso, squarciato, si vedevano le viscere, il
cuore e i polmoni, sembrava proprio un animale. Non ho mai
visto niente di tantoripugnante, no, mai avrei potuto immaginare
niente di così nauseante come l'interno di un essere umano. Ma
lui era chinato su quel corpo e lo studiava con ansioso interesse,
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con cautela tagliava con un coltellino piccolissimo la carne vicino
al cuore. Era così preso da quel che stava facendo che non si
accorse neppure che ero entrato nella stanza. Sembrava che per
lui non esistesse altro che quella cosa disgustosa di cui si stava
occupando. Alla fine però sollevò la testa e guardò in alto con gli
occhi splendenti di gioia. Il suo volto era estatico come se avesse
partecipato a un rito sacro. Potevo osservarlo quanto volevo,
perché lui era alla luce mentre io ero immerso nell'ombra. E del
resto era perduto nel suo entusiasmo, come un profeta che parla
con Dio. Era davvero ripugnante.
Lui pari a un principe! Un principe che si occupa degli
enigmi nascosti nelle viscere di un malfattore. Che fruga nei
cadaveri!
 
 
Ieri sono rimasti alzati fin oltre la mezzanotte, a parlare e a
parlare come non era mai accaduto. Erano addirittura in estasi
tanto la conversazione li infervorava. Parlavano della natura, della
sua infinita vastità e ricchezza. Un unico, grande organismo, un
unico miracolo! Le vene che fanno circolare il sangue nel corpo
come le vene delle sorgenti trasportano l'acqua sotto terra, i
polmoni che respirano come respirano gli oceani con il loro
flusso e riflusso, lo scheletro che sostiene il corpo come gli strati
rocciosi sostengono il mondo, la cui carne è la terra. E il fuoco al
suo interno, che è come il calore dell'anima e come quello
proviene dal sole, il sacro sole adorato dagli antichi, da cui
emanano tutte le anime, fonte e origine di ogni vita, che con la
sua luce illumina tutti i corpi celesti dell'universo. Perché il
nostro mondo non è che una tra le innumerevoli stelle
dell'universo.
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Erano come invasati. E io dovevo ascoltarli, qualsiasi cosa
dicessero, senza poter ribattere nulla. Mi convinco sempre di più
che è un pazzo, e che sta rendendo pazzo anche il principe. È
incomprensibile come il principe si mostri debole e malleabile
nelle sue mani.
Come si può prestare seriamente fede a simili fantasie? Come
si può credere a questo tutto organico, a questa divina armonia
nel tutto, come egli anche la chiama? Come è possibile usare
simili parole grandi, belle e prive di senso? Il miracolo della
natura! Pensavo alle viscere di Francesco e mi veniva da vomitare.
Che gioia, esclamavano i due entusiasti, penetrare nel
meraviglioso regno della natura! Quale infinito campo offre alle
indagini! E come diverrà ricco e potente l'uomo se imparerà a
conoscere tutto questo, tutte le forze nascoste, e costringerle al
suo servizio. Gli elementi si piegheranno domati al suo volere, il
fuoco lo servirà umile, imprigionato nonostante tutta la sua furia
selvaggia, la terra darà centinaia di frutti diversi, perché le leggi
della vegetazione saranno state svelate, i fiumi saranno i suoi
schiavi ubbidienti, incatenati, e gli oceani porteranno le sue navi
intorno a tutto il vasto mondo, sospeso nello spazio come una
stella meravigliosa. Sì, sottometterà perfino l'aria, perché un
giorno imparerà a imitare il volo degli uccelli e, liberatosi della
sua pesantezza, si librerà come loro, come le stelle, verso mete
che nessun pensiero umano può ancora immaginare o intuire.
Ah! Che grande e magnifica cosa è vivere! Che inconcepibile
grandezza ha la vita umana!
Non c'erano limiti alla loro esaltazione. Erano come bambini
che sognassero giocattoli, tanti giocattoli da non sapere che
farsene di tutti. Li osservavo con il mio sguardo di nano senza
che il mio vecchio volto rugoso mutasse espressione. I nani non
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sono come bambini. E non giocano mai. Mi alzavo sulla punta
dei piedi per riempire i loro calici quando li avevano svuotati
durante tutto il loro parlare.
Cosa ne sanno loro della grandezza della vita? Come fanno a
sapere che è grande? Non è che un modo di dire, una frase che
suona bene in bocca. Si potrebbe con altrettante ragioni sostenere
che è piccola. Insignificante, assolutamente priva di importanza,
un insetto che si schiaccia con un'unghia. E se la si schiaccia con
l'unghia non ha nemmeno da obiettare. Rassegnata alla sua rovina
come a qualsiasi altra cosa. E perché non dovrebbe essere così?
Perché dovrebbe starle tanto a cuore la sua esistenza? Perché
dovrebbe desiderare esistere, perché, in generale, desiderare?
Perché non dovrebbe esserle tutto assolutamente indifferente?
Esplorare le viscere della natura! Che piacere ci può essere?
Se davvero ne fossero capaci ne sarebbero atterriti, un tale
spettacolo li riempirebbe di orrore. Credono che la natura esista
per loro, perché credono che tutto esista per loro, per il loro
benessere e la loro gioia, per far sì che le loro vite siano grandi,
magnifiche da vivere. Cosa ne sanno? Come fanno a sapere che la
natura si preoccupa di loro e dei loro desideri stravaganti,
infantili?
Credono di saper leggere il libro della natura, credono di
averlo aperto davanti ai loro occhi. Pensano addirittura di poter
vedere cosa c'è scritto nelle pagine successive, di poter leggere là
dove non è ancora stato scritto nulla, dove ci sono solo pagine
bianche. Pazzi sconsiderati e presuntuosi! Non c'è limite alla loro
impudente arroganza!
Chi può sapere cosa porta in grembo la natura, cosa nasconde
dentro di sé come frutto dell'avvenire? Chi può indovinarlo? Sa
forse una madre cosa porta nel ventre? Come potrebbe saperne
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qualche cosa? Aspetta il suo tempo, allora si vedrà cosa metterà
al mondo. Questo un nano potrebbe spiegarglielo.
 
 
Lui modesto! Mi sono completamente sbagliato. È, al
contrario, l'uomo più superbo che io abbia mai incontrato. Il suo
essere stesso, il suo spirito è pura superbia. E il suo pensiero è
tanto presuntuoso da voler dominare come un principe su un
mondo che non gli appartiene affatto.
Può apparire modesto perché si mette a indagare qualsiasi
cosa e perché dice di non sapere questo e di non sapere quello, e
che cerca solo di informarsi quanto meglio può. Ma è convinto di
conoscere il tutto, lo scopo di ogni cosa e il suo senso! La sua
umiltà riguarda le piccole cose, non le grandi. È una strana
modestia.
Tutto, a suo modo, ha un significato, tutto quello che accade
e di cui gli uomini si occupano. Ma la vita stessa non ha
significato alcuno, né può averlo. Dunque non dovrebbe essere
possibile trovarlo.
Questa è la mia fede.
 
 
Che vergogna! Che disonore! Mai avevo subito un oltraggio
come quello che m'è stato fatto in questo giorno tremendo.
Cercherò di mettere per iscritto quel che mi è successo, sebbene
preferirei cancellarlo dalla mia memoria.
Avevo ricevuto dal principe l'ordine di andare da maestro
Bernardo, che stava lavorando nel refettorio di Santa Croce,
perché aveva bisogno di me. Andai, per quanto mi irritasse
l'essere considerato un servo di quell'uomo superbo, con cui non
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avevo nulla a che fare. Mi accolse con la massima cortesia e mi
disse che i nani lo avevano sempre interessato molto. Cosa non
interesserà quest'uomo, pensavo, che vuole sapere tutto delle
viscere di Francesco e delle stelle nel cielo? Ma, pensavo anche
tra me, di me, del nano, non sa nulla. Dopo qualche altra parola,
altrettanto amabile e vuota, disse che voleva disegnarmi.
Dapprima pensai che si trattasse di un ritratto, ordinatogli forse
dal principe, e non potei fare a meno di sentirmi lusingato.
Risposi tuttavia che non desideravo essere raffigurato in
un'immagine. Perché no? domandò. Risposi, com'è naturale:
voglio essere padrone del mio volto. Questa risposta gli parve
singolare, ebbe un vago sorriso ma ammise poi che,
innegabilmente, c'era una certa verità nelle mie parole. Il volto di
una persona, tuttavia, anche se non veniva ritratto, apparteneva
comunque a molti, in realtà a tutti quelli che lo guardano. E poi
non si trattava che di un disegno per mostrare com'ero fatto; mi
dovevo perciò togliere gli abiti in modo che lui potesse eseguire
uno studio del mio corpo. Mi sentii impallidire. Per l'ira e perlo
spavento, non so quale dei due avesse il sopravvento, ma
entrambi m'invasero e tutto il mio essere cominciò a tremare.
Notò la mia violenta reazione alla sua turpe proposta. E si
mise a dire che non c'era da vergognarsi a essere un nano e a
mostrarsi come tale. Di fronte alla natura egli provava sempre lo
stesso profondo rispetto, anche quando creava qualcosa per uno
strano capriccio, qualcosa fuori del consueto. Non può essere in
alcun modo un disonore mostrarsi davanti a qualcun altro così
come si è fatti, e nessuno possiede davvero se stesso. Io sì, gridai
con rabbia selvaggia. Voi non possedete voi stesso, ma io sì, io
sono il solo padrone di me stesso!
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Prese la mia sfuriata con perfetta calma, anzi, la osservò con
un incuriosito interesse che mi esasperò ancora di più. Poi disse
che doveva cominciare, e si avvicinò. Non tollero ingiurie al mio
corpo! urlai completamente fuori di me. Ma lui non se ne curò
affatto, e quando capì che mai mi sarei spogliato spontaneamente
si preparò a farlo lui. Mi riuscì di estrarre il pugnale dalla guaina
ed egli parve molto sorpreso nel vederlo luccicare nella mia
mano. Però me lo tolse e lo posò prudentemente a una certa
distanza. Mi sembri un tipo pericoloso, disse guardandomi
perplesso. Mi sentii ridere sprezzante a quelle parole. Poi, con la
massima calma, cominciò a levarmi i vestiti, e denudò il mio
corpo nel modo più vergognoso. Opposi una resistenza disperata,
lottai con lui come chi lotta per la propria vita, ma fu tutto inutile
perché era più forte di me. Quando ebbe terminato la sua turpe
operazione mi sollevò sopra un piedestallo che si trovava in
mezzo alla stanza.
Rimasi lì inerme, denudato, senza poter fare assolutamente
nulla sebbene schiumassi di rabbia. E a qualche passo da me, del
tutto impassibile, lui mi studiava, osservava con freddezza, senza
pietà, la mia ignominia. Ero completamente in balìa del suo
sguardo impudico che mi esaminava, si impadroniva di me come
se fossi una cosa sua. Essere esposto in tal modo agli sguardi di
un altro essere umano era un'umiliazione così profonda che
ancora adesso provo vergogna per essere riuscito a sopportarla.
Ricordo ancora il rumore della sua matita d'argento che scorreva
sulla carta, forse la stessa matita con cui aveva disegnato le teste
rinsecchite davanti alla porta del castello, e tutti gli altri
obbrobri. Il suo sguardo s'era trasformato, affilato come la punta
di un coltello, mi pareva d'esserne trafitto.
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Non ho mai odiato tanto gli uomini come durante quell'ora
tremenda. Il mio odio divenne per me così spaventosamente
concreto che quasi credetti di perdere i sensi, di tanto in tanto
tutto si faceva nero davanti ai miei occhi. Esiste qualcosa di più
ripugnante di questi esseri, una cosa più degna di essere odiata?
Proprio di fronte a me, sulla parete, c'era il suo grande
dipinto, quello di cui si dice che sarà un capolavoro. Non che ci
avesse ancora lavorato molto, ma pareva raffigurare l'ultima cena,
Cristo con i suoi discepoli al banchetto d'amore. Guardai
furibondo quegli uomini seduti là con i loro volti puri, solenni,
convinti di essere al di sopra di ogni cosa, raccolti intorno al loro
signore celeste, quello con il capo circonfuso di luce
soprannaturale. Pensai con gioia che presto sarebbe stato preso,
che Giuda, rannicchiato laggiù nel suo angolino, l'avrebbe di lì a
poco tradito. Adesso è ancora amato e onorato, pensai, ancora è
seduto alla tavola d'amore... mentre io sono qui nella mia
vergogna! Ma anche lui sarà coperto d'infamia! Tra poco non sarà
più seduto con i suoi ma penderà solo da una croce, tradito da
loro. E sarà appeso là nudo come lo sono io ora,
ignominiosamente umiliato. Esposto agli sguardi di tutti,
ingiuriato e schernito. E perché non dovrebbe? Perché non
dovrebbe subire lo stesso affronto che soffro io? È sempre stato
circondato d'amore, si è nutrito d'amore, mentre io sono stato
nutrito d'odio. Dai miei primi istanti di vita ho succhiato l'odio,
ne ho bevuto l'amaro succo, mi sono accostato a un seno materno
pieno di fiele mentre egli poppava la dolce Madonna, piena di
tenerezza, la più affettuosa e soave tra le donne, e bevve il più
delizioso latte materno che mai essere vivente abbia bevuto. Se ne
sta là seduto così candido, così buono, e crede che nessuno possa
odiarlo o volergli fare del male. Perché no? Perché non a lui?
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Pensa di dover essere amato da tutti sulla terra perché è stato
generato dal suo padre celeste. Che ingenuità! Che puerile
ignoranza degli uomini! È proprio per questo che portano nei
loro cuori un tale rancore contro di lui: per via di quel miracolo.
All'umanità non piace essere violentata da Dio.
Lo stavo ancora guardando quando, finalmente, venni liberato
dalla mia terribile mortificazione; mi fermai sulla porta di quella
stanza infernale dove avevo sofferto la mia più profonda
umiliazione. Presto sarai venduto per qualche scudo ai nobili
magnanimi esseri umani, pensai, tu come me!
E pieno di collera sbattei la porta su di lui e sul suo grande
maestro Bernardo, che era sprofondato nella contemplazione
della sua magnifica opera e già pareva aver dimenticato la mia
persona, che per causa sua aveva sofferto tali tormenti.
 
 
Preferisco non pensare più a quanto è accaduto a Santa
Croce, vorrei cercare di dimenticarlo. Ma c'è una cosa che non
riesco a togliermi dalla mente. Mentre mi rivestivo non potei fare
a meno di vedere alcuni disegni sparpagliati qua e là e che
raffiguravano le creature più strane, mostri che nessuno ha mai
visto e che non esistono nemmeno. Erano qualcosa a metà tra
l'uomo e l'animale: donne con ali di pipistrello tese tra dita
lunghe e pelose; uomini con il volto di lucertola e la parte
inferiore del corpo e le gambe di rospo; altri, con crudeli teste
d'avvoltoio e artigli minacciosi al posto della mani, ruotavano in
aria come diavoli; e creature che non erano né uomini né donne
ma assomigliavano a mostri marini con sinuosi tentacoli e occhi
freddi, malvagi, del tutto simili a quelli d'un essere umano.
Rimasi esterrefatto dinanzi a quegli aborti paurosi, e ancora non
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riesco a liberarmene, a non vedermeli davanti. Come può la sua
fantasia occuparsi di cose simili? Perché evoca queste forme
ripugnanti, spettrali? Perché se le immagina? Deve esserci un
motivo che lo spinge a interessarsene, benché non si trovino in
natura. Deve sentirne il bisogno anche se non esistono. O forse
proprio per questo? Non capisco.
Come può essere uno che crea cose del genere? Che s'inebria
di questi orrori, ne prova tanto desiderio?
Al vedere il suo volto altero, e bisogna dire che è pieno di
dignità e distinzione, non si crederebbe mai che sia l'autore di
quelle immagini raccapriccianti. E tuttavia è così. Questo dà
molto da pensare. Deve avere questi esseri sinistri dentro di sé,
come tutto ciò che crea.
Non posso neanche fare a meno di pensare alla sua
espressione mentre mi ritraeva, era diventato un altro uomo, con
uno sguardo terribile e penetrante, freddo e innaturale; tutto il
suo volto si era trasformato, diventando crudele, aveva un'aria
addirittura diabolica.
Dunque non è quel che vuol fare credere di essere. Nemmeno
lui, come tutti gli altri.
È quasi incredibile che lo stesso uomo abbia potuto dipingere
quel Cristo, così puro e trasfigurato al suo desco d'amore.
 
 
Stasera Angelica attraversava il salone. Quando passò davanti
al principe, questi la invitò a sedersi un momento con il suo
lavoro di ricamo che era appena andata a prendere. Obbedì
malvolentieri, pur non osando mostrare apertamente il suo
disappunto: evita sempre di unirsi agli altri e, del resto, non è
fatta per la vita di corte né per apparire in pubblico come
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principessa. Chissà poi se è figlia del principe? Potrebbe anche
benissimo essere una bastarda. Ma messer Bernardo non ne sa
nulla. La guardava mentre se ne stava lì seduta con gli occhi bassi
e la bocca semiaperta in quel suo stupido modo, continuava a
guardarla come se fosse una rarità: a lui tutto sembra
straordinario. Un prodigio della natura, forse, comeme, o come
uno di quei suoi sassi rari, tanto preziosi che li raccoglie da terra
per ammirarli? Rimaneva in silenzio e pareva davvero commosso,
benché lei non facesse che star lì seduta senza dire una parola,
con l'aria completamente sperduta. Era quasi imbarazzante, dal
momento che la conversazione si era interrotta.
Non ho proprio idea di cosa lo commuovesse. Forse gli
faceva pena perché non è bella: di bellezza se ne intende di certo,
e sa cosa significhi. Forse per questo aveva nello sguardo
un'espressione di malinconia e di tenerezza. Non lo so, e
nemmeno m'interessa.
La ragazza, naturalmente, non desiderava che andarsene il più
presto possibile. Non rimase più dello strettamente necessario per
poter domandare al principe il permesso di allontanarsi. E
quando le fu accordato, si alzò in fretta, timida, con la sua solita
spigolosa goffaggine. Si muove ancora come una bambina. È
incredibile come sia assolutamente priva di leggiadria.
Ovviamente era vestita con la consueta semplicità, quasi
poveramente. Non si cura dei suoi vestiti, né a nessun altro
importa.
 
 
Il grande maestro Bernardo non deve godere di una grande
tranquillità di spirito nel suo lavoro. Passa da una cosa all'altra,
ne comincia una ma poi non la finisce. Da che cosa può
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dipendere? Dovrebbe dedicarsi interamente a quella sua ultima
cena, per terminarla una buona volta. Ma non lo fa. Deve
essersene stancato. Ha cominciato invece un ritratto della
principessa.
Pare che lei non volesse essere ritratta. È stato il principe a
volerlo. Io la capisco, senza difficoltà. Possiamo benissimo
guardarci in uno specchio, ma quando ce ne allontaniamo non
desideriamo che la nostra immagine rimanga lì, così che qualcun
altro se ne possa impadronire. Capisco che lei, come me, non
voglia essere raffigurata in un quadro.
Nessuno possiede se stesso! Che pensiero ripugnante!
Nessuno possiede se stesso! Tutto appartiene anche agli altri.
Non si è padroni del proprio volto! Appartiene a chiunque lo
guardi! E il proprio corpo! Altri possono essere padroni del
nostro corpo! Mi ripugna pensarci.
Io voglio essere l'unico padrone di tutto ciò che è mio.
Nessuno può appropriarsene, né metterci le mani. Appartiene a
me e a nessun altro. E voglio essere padrone di me stesso anche
dopo la morte. Nessuno deve frugare tra le mie viscere. Non
voglio che un estraneo le osservi, anche se difficilmente possono
essere rivoltanti come quelle di quel farabutto di Francesco.
Questo ficcare il naso dappertutto di messer Bernardo, questa
sua curiosità per qualsiasi cosa mi è veramente odiosa. A cosa
serve? Quale scopo ragionevole può avere? E l'idea che
quest'uomo possiede un mio ritratto, che in un certo senso mi
possieda mi infastidisce nella maniera più assoluta. È come se
non fossi più il solo a possedere me stesso, come se mi trovassi
anch'io presso di lui in Santa Croce, tra quei mostri orribili.
Che si faccia fare il ritratto anche a lei! Perché non deve
subire il mio stesso affronto? In realtà mi dà gioia pensare che
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anche lei dovrà esporsi al suo sguardo impudico, che oltraggerà
anche lei.
Ma che interesse può avere, quella cortigiana?
Io in lei non ho mai trovato interesse alcuno, e la conosco
meglio di chiunque altro.
Si vedrà cosa ne trarrà. Non mi riguarda.
Non credo che sia un vero conoscitore degli uomini.
 
 
Maestro Bernardo mi ha stupito sul serio. Mi ha stupito tanto
che sono rimasto quasi tutta la notte sveglio a pensarci.
Ieri sera, come al solito, erano seduti a parlare dei loro
abituali, elevati argomenti. Lui però era malinconico, lo si vedeva.
Teneva la mano sulla lunga barba, meditabondo, carico di
pensieri che non dovevano procurargli alcuna gioia. Ma era pieno
di fuoco, di vera e propria passione quando parlava, anche se non
era un fuoco di quelli che si vedono, ma piuttosto coperto di
cenere. Era irriconoscibile, si sarebbe potuto credere che fosse un
altro che stavamo ascoltando.
Il pensiero umano, diceva, è in fondo capace di tanto poco. Le
sue ali sono forti, ma il destino che ce le ha date è più forte di
noi. Non ci permette di sfuggirgli, né di spingerci più lontano di
quanto ha stabilito. La nostra strada è determinata, dopo un breve
volo in cerchio che ci riempie di speranza e di gioia siamo
richiamati indietro come il falcone legato alla corda del
falconiere. Quando arriveremo alla libertà? Quando verrà recisa la
corda, e il falcone potrà innalzarsi verso lo spazio aperto?
Quando? Accadrà mai? Non è invece il segreto del nostro
destino essere legati alla mano del falconiere, e rimanerlo per
sempre? Se dovesse verificarsi un cambiamento nella nostra
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condizione noi non saremmo più uomini, e il nostro destino non
sarebbe più destino umano.
Eppure siamo fatti in modo da sentirci sempre attratti dallo
spazio, e da credere di appartenergli. E lo spazio è sempre lì,
sopra di noi, ci si apre davanti come qualcosa di assolutamente
reale. È una realtà, come lo è la nostra prigionia.
Perché esiste, questo spazio infinito che non possiamo mai
raggiungere? si domandava. Qual è il senso di questa sconfinata
vastità intorno a noi, intorno alla vita, se noi siamo tuttavia come
prigionieri impotenti, se la vita rimane per questo sempre la
stessa, confinata in se stessa? A cosa servono, allora, quelle
grandi dimensioni? Perché il nostro piccolo destino dev'essere
circondato da tali immensità? Ci rende più felici, questo? Non
sembra. Sembra piuttosto che siamo diventati ancora più infelici,
disse.
Io lo osservavo con attenzione, l'espressione cupa del suo
volto e la strana stanchezza del vecchio sguardo.
Ci rende più felici, cercare la verità? proseguì. Non lo so. La
cerco e basta. Tutta la mia vita non è stata altro che un'incessante
ricerca della verità, a volte ho creduto di intuirla, mi è sembrato
di scorgere qualcosa del suo limpido cielo... ma il cielo non si è
mai realmente aperto dinanzi a me, mai i miei occhi si sono
inebriati del suo spazio infinito, senza il quale niente quaggiù
potrà mai essere veramente capito. Non ci è consentito. Per
questo, in realtà, tutti i miei sforzi sono stati vani. Per questo
tutto ciò cui ho posto mano è rimasto una mezza verità, un
aborto. Con dolore penso alle mie opere e con dolore e tristezza
devono contemplarle tutti: come un torso. Immaturo, incompiuto
è tutto ciò che ho creato. Ogni cosa che lascio dietro di me è
incompiuta.
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Ma, c'è da stupirsene?
In fondo è il destino dell'umanità. L'inevitabile destino di
ogni sforzo umano, di ogni opera umana. Nient'altro che un
tentativo, il tentativo di raggiungere qualcosa che mai potrà
essere raggiunta, che non è fatta per poter essere raggiunta da noi.
Tutta la cultura umana non è in realtà che un tentativo verso
qualcosa d'irraggiungibile, qualcosa che supera di gran lunga la
nostra capacità di realizzarla. E rimane lì amputata, tragica come
un torso. Non è un torso lo stesso spirito umano?
A cosa servono le ali, se non potremo mai sollevarci?
Diventano un fardello invece di una liberazione. Ci
appesantiscono. Ce le trasciniamo dietro. Alla fine ci riescono
odiose.
E proviamo sollievo quando il falconiere, stanco del suo
gioco crudele, ci abbassa il cappuccio sul capo, così siamo
dispensati dal dover vedere.
Era lì seduto abbattuto e tetro, con un tratto d'amarezza
intorno alla bocca, e gli occhi gli ardevano d'un fuoco pericoloso.
Io ero estremamente stupito, davvero. Era quello lo stesso uomo
che non molto tempo prima s'era esaltato per l'infinita grandezza
dell'uomo, che ne aveva proclamato l'onnipotenza, annunciando
che un giorno avrebbe dominato come un sovrano incontrastato
nel suo immane regno? Che l'aveva quasi dipinto come pari agli
dei?
Io non lo capisco. Non lo capisco per niente.
E il principe stava lì ad ascoltarlo, catturato dalle parole del
suo grande maestro, benché tanto differenti da quelle
precedentemente uscite dalla sua bocca. Era perfettamente
d'accordo con lui. Senza dubbio un buon allievo, bisogna
ammetterlo.
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Come fanno a conciliarsi le due cose? Come possono riunire
dentro di

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